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di Luca Grossi
Sul Giornale di Sicilia il 16 settembre 1993 esce un articolo intitolato: “Ucciso Prete Antimafia”. Ma Giuseppe Puglisi, per tutti don Pino, era molto più di un semplice presbiterio. Era un uomo che aveva scelto di operare in mezzo agli ultimi della società fornendo loro aiuto e un’alternativa alla violenza. Proprio a causa del suo impegno sociale venne ucciso da Cosa Nostra nel giorno del suo 56° compleanno il 15 settembre del 1993 mentre i suoi amici della comunità "Padre Nostro" lo stavano aspettando per festeggiare.
Sulla lapide della tomba nel cimitero di Sant’Orsola sono scolpite delle parole del vangelo di Giovanni: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”.
Giuseppe Puglisi nasce a Palermo nel quartiere di Brancaccio il 15 settembre del 1937 da una famiglia umile. Terminati gli studi in seminario divenne parroco svolgendo le sue funzioni in diverse parrocchie nel Palermitano, tornando poi nel suo quartiere d’origine nella chiesa di San Gaetano il 29 settembre 1990. Il quartiere di Brancaccio in quegli anni era nella stretta dei boss stragisti Filippo e Giuseppe Graviano legati a Leoluca Bagarella. Un territorio molto difficile, privo di scuole, parchi e dei servizi più essenziali, dove la mafia viene vista dai giovani come unica possibilità di sopravvivenza.
Il nuovo parroco era ben conscio della terribile situazione del quartiere e si mise subito all’opera per strappare i ragazzi alle mafie e dare loro una possibilità lontana dalla violenza; doti come l’ascolto, la pazienza, l’umiltà e la tolleranza permisero a Don Puglisi di raccogliere numerosi ragazzi. Il suo lavoro sociale era finalizzato a permettere a questi giovani di continuare a vivere sul proprio territorio d’origine stabilendosi al centro d’accoglienza “Padre Nostro” il 29 gennaio 1993, dove oltretutto si svolgono attività finalizzate all’istruzione.
Il Centro "Padre Nostro" nacque per dare le soluzioni che lo Stato nel corso degli anni non ha mai concretamente dato: “A volte si pensa che la mafia sia la violenza del pizzo, gli omicidi, le bombe. Ma don Pino lo sa che la vera violenza è l’assenza di una scuola media in un quartiere di quasi diecimila anime” scrive Alessandro D’Avena in “Ciò che inferno non è”.
Cosa Nostra non accettò la sua presenza e le sue iniziative nel quartiere. Così diede inizio ad una lunga serie di intimidazioni e minacce: chiamate, lettere anonime, scritte sui muri, pestaggi e incendi.
Il culmine arrivò nel maggio - giugno 1993 quando Don Puglisi e il suo vice, Gregorio Porcaro ricevettero minacce personali, denunciate regolarmente alle forze dell’ordine.
Cosa Nostra però non riuscì a fermare questo uomo pieno di fede che continuò nel suo lavoro sociale con ancor più determinazione: “Mi rivolgo anche ai protagonisti delle intimidazioni che ci hanno bersagliato - disse don Puglisi nell’omelia in ricordo della strage di via d’Amelio - Parliamone, spieghiamoci, vorrei conoscervi e sapere i motivi che vi spingono a ostacolare chi tenta di aiutare ed educare i vostri bambini alla legalità, al rispetto reciproco, ai valori della cultura e della convivenza civile. Perché non volete che i vostri bambini vengano a me? Ricordate: chi usa la violenza non è un uomo. Noi chiediamo a chi ci ostacola di appropriarsi dell’umanità. E comunque facciamo sentire la nostra solidarietà e coloro che sono stati colpiti. Andiamoli a trovare a casa, rimaniamo uniti. Abbiamo avuto la conferma che tutto ciò voleva essere un avvertimento per il nostro operato. Ma noi andiamo avanti. Perché, come diceva san Paolo, se Dio è con noi, chi sarà contro di noi?”.
Il 15 settembre del 1993, giorno del suo 56° compleanno, don Puglisi si stava dirigendo con la sua Fiat Uno rossa in piazza Anita Garibaldi ad est di Palermo. Scese dalla sua macchina e si diresse verso il portone di casa. A quel punto Gaspare Spatuzza lo afferrò per un braccio rivolgendogli poche parole: “Padre questa è una rapina”. Don Puglisi si voltò e sorridendogli rispose: “Me l’aspettavo”. Dietro il sacerdote si nascondeva Salvatore Grigoli che sparò due colpi di pistola alla nuca del prete; il corpo di Don Puglisi si accasciò a terra ma il suo sorriso non scomparve.
Quel sorriso lasciò un solco profondo nella coscienza di Salvatore Grigioli facendogli maturare la decisione di collaborare con la giustizia. Il killer raccontò le dinamiche dell’esecuzione e i nomi dei mandanti; all’ergastolo per l’omicidio di Don Puglisi sono finiti: come mandanti i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano arrestati a Milano il 26 gennaio 1994 e come esecutori Gaspare Spatuzza, Nino Mangano, Cosimo Lo Nigro e Luigi Giaccone.
Gaspare Spatuzza nel 2008 si pentì, anche lui segnato nel profondo dal quel sorriso, dando un contributo importante in particolare per la ricerca della verità sulla strage di via d’Amelio.
Don Pino Puglisi è stato il fondatore di un modello che scalza un agire troppo vecchio e timoroso, dimostrando il Vangelo con atti pratici e non solo con i riti e funzioni sacerdotali. Che il suo esempio rafforzi le coscienze di tutti coloro che lottano contro la mafia siano essi laici o religiosi.