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di Davide de Bari - Video
Sono passati 28 anni dalla strage di Capaci, in cui persero la vita il magistrato Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, gli agenti della scorta Vito Schifano, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo. Un delitto per cui sono stati condannati tutti i vertici della commissione regionale di Cosa nostra. Tuttavia, ancora oggi, ci sono delle zone d’ombra che non permettono di accertare completamente la verità sulle modalità con cui fu compiuto l'attentato del 23 maggio 1992.
Nel tentativo di rimettere in fila i fatti ed evidenziare quelli che sono i pezzi mancanti ieri pomeriggio si è tenuta l’intervista, in diretta streaming, dell’Associazione Memoria e Futuro, alla giornalista e scrittrice, Stefania Limiti, che da anni, con numerosi libri d’inchiesta, cerca di arrivare alle risposte. “Le sentenze che ci sono state fino ad ora si sono bastate solo su pentiti di mafia, ma in realtà non abbiamo altre fonti derivanti ad altri ambienti - ha spiegato la Limiti - Sono 28 anni che riscontriamo e leggiamo, c’è abbastanza materiale sulla base del quale si può dire che il contributo di Cosa nostra fu determinante, ma non ci fu solo Cosa nostra quel giorno a Capaci”.
Tra gli aneddoti raccontati, anche per evidenziare come oltre alla mafia vi fu una presenza di altri apparati sulla scena di Capaci, un dialogo avuto con l'avvocato Luca Cianferoni, legale del capo dei capi Totò Rina: “Io mi ricordo che parlai con l’avvocato di Riina, quando stavo facendo l’inchiesta pubblicata da Chiarelettere ‘Doppio livello’. Al tempo Cianferoni mi disse questa frase, anche se mi disse poche cose: il contributo di Cosa nostra alla strage di Capaci fu dell’80%, mentre nella strage di via d’Amelio del 50% e alle strage del continente qualcosa ancor meno. Disse chiaramente che non c’erano solo i mafiosi”.

Non solo mafia
Secondo la scrittrice “se noi guardiamo alla strage di Capaci, come un fenomeno di criminalità organizzata, per quanto efferata e violenta, noi non possiamo capire il senso di quello che è accaduto - ha spiegato - Si rischia una perdita di senso delle vicende che è grandissima ed enorme, perché ci impedisce di ricostruire quello che è avvenuto dopo. Questo vale per tutte le vicende stragiste”.
Dietro alle stragi terroristico-mafiose avvenute in Italia, non solo si è scorsa una regia esterna, ma si è intravisto anche un movente politico. “C’è un punto fondamentale: dobbiamo metterci in testa che la strage è un fatto politico e non un qualcosa che accentua all’ennesima potenza la violenza mafiosa o neofascista. - ha detto - La strage rappresenta un messaggio, che un potere da ad un altro potere. E’ l’espressione del centro potere che si esprime, altrimenti non si fa la strage”. Per la Limiti il senso che sintetizza la presenza di altri apparati nella strage di Capaci è il fatto che “l’assassino di Falcone doveva avvenire a Roma nei pressi del ministero di Grazia e Giustizia, dove lui lavorava e lì sarebbe avvenuto un attentato di stampo mafioso in linea con la capacità, la traduzione e le modalità di fare della mafia, che avrebbe eseguito i suoi propositi di vendetta, che erano feroci e mortali visto che nel febbraio di quell’anno la Cassazione aveva emesso la sentenza definitiva sul maxiprocesso. E quindi l’impunità della mafia era rotta”. “I propositi vendicativi di Cosa nostra - ha aggiunto - erano feroci, ma perché questo non avviene con l’attentato mafioso e gli uomini di Totò Riina vengono richiamati, dicendogli che dovevano farlo in Sicilia? Perché quell’imboscata, che è un termine tecnico militare? Perché quella scena di dramma irrompe nella coscienza del Paese che crea un trauma”.

La strage di Capaci nel contesto internazionale
Secondo la giornalista quello che portò alla strage di Capaci, non fu solo la vendetta e la rabbia del capo di Cosa nostra. “All’inizio del ’92 - ha ricordato - stavano accadendo delle cose pazzesche, c’era in atto il crollo del sistema Paese, quindi la strage di Capaci se noi non la inseriamo in questo contesto, non possiamo capirla. Non basta pensare alle modalità mafiose. In quell’anno c’era qualcuno alle porte che voleva liquidare i vecchi sistemi istituzionali e i vecchi partiti. Ci fu il crollo del muro di Berlino. Gli uomini del passato, che stavano cercando di riciclarsi, anche in funzione antimafia, furono completamente liquidati, in passato erano stati i riferimenti della mafia, vedi Andreotti che quel giorno sarebbe stato eletto presidente della Repubblica”.

Le indagini
Subito dopo la strage, le indagini furono affidate a quel gruppo di poliziotti, guidati dall’allora capo della mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera, che dopo la strage di Via D’Amelio fu ribattezzato con il nome “Falcone e Borsellino”. “In quel gruppo investigativo ci sono settori dello Stato che svolsero un ruolo ambiguo. - ha raccontato Stefania Limiti - E’ chiaro che in quei mesi tutti gli elementi investigativi che potevano essere raccolti in modo corretto sono stati dilapidati”. E' un fatto noto che, visti i buoni rapporti intrattenuti con Giovanni Falcone, alle indagini sulla strage di Capaci presero parte anche agenti dell’Fbi. Proprio da una perizia dell'Fbi si viene a sapere che l'esplosivo utilizzato a Capaci aveva anche delle tracce di pentrite, la cui provenienza non è mai stata totalmente chiarita.

Nuovi elementi fuori dal Capaci bis
In riferimento alle indagini, Stefania Limiti ha anche parlato del secondo processo, denominato “Capaci bis”. “Si incanala in una sentenza che recepisce l’atteggiamento della procura di Caltanissetta e di fatto ridicolizza in maniera molto strana e inconsueta con una certa dose di sottile violenza. - ha detto - Ricordiamo tutti la famosa frase del pm durante la requisitoria quando disse ‘qui non c’è Paperinik’. Perché questo atteggiamento? Incomprensibile. Questo fa pensare che ci siano dei partiti tra chi pensa che ci siano state altre presenze e chi no. Gli schieramenti non servono, quello che bisogna fare è un salto in avanti”.
La scrittrice ha poi parlato del ritrovamento nel cratere della strage un guanto, che secondo accertamenti sarebbe appartenuto ad una donna. “Gli elementi investigativi sono tanti, perché non hanno ammesso la perizia genetica dei materiali ritrovati nel cratere, i guanti ecc… Una perizia che rintraccia delle tracce genetiche di una donna. Ho seguito molto i fili di una componente femminile in questi comandi militari che Cosa nostra utilizza dal ’92 per tutto quel biennio terribile - ha aggiunto - Le donne sono significative importanti soprattutto nell’anno successivo". Quindi ha posto una domanda: "Perché non è stata ammessa quella perizia?”. E poi ha aggiunto: “A Genchi non hanno nemmeno autorizzato, all’epoca, di investigare sulle carte di credito di Falcone, che avrebbero potuto farci capire, come emerso da tante testimonianze, che il magistrato era stato in viaggio negli Usa. Capire questo non significa violare la privacy, ma capire il mondo dove Falcone si muoveva che era tanto tanto complicato”.

Obbiettivo Gladio
Nel cercare di rispondere agli interrogativi e il perché Giovanni Falcone fu ucciso, Stefania Limiti ha spiegato che il magistrato “era diventato un contenitore esplosivo, perché aveva capito così tante cose che era un personaggio pericoloso per tanti apparati. Adesso stanno venendo fuori delle testimonianze, nell’inchiesta della procura generale di Palermo, che sono davvero interessanti". Il motivo? "Perché rendono l’idea che Falcone andasse in giro in macchina con Nino Agostino nel trapanese per cercare le tracce di quel soggetto, di cui lui aveva capito l’esistenza, e che abbiamo capito dopo, che era Gladio. Probabilmente Falcone aveva capito che era una struttura che si era interconnessa come le cose che riguardavano le indagini della mafia”. La Limiti ha anche spiegato il contesto di isolamento che viveva Falcone per condurre quelle indagini su Gladio tanto che il Procuratore capo di Palermo di allora, Giammanco, gli impedì di aprire un fascicolo. “Una scena direi tragica di una solitudine drammatica - ha commentato la giornalista - E’ l’immagine di qualcuno che ha capito e non ci sta, ma anche di essere solo. Era anche consapevole che gli apparati investigativi della polizia erano altamente inquinati da settori dei servizi che facevano i loro giochi. Ecco perché qui allora la testimonianza di Montalbano, che aveva guidato il commissariato di San Lorenzo, diviene di grande importanza in quanto lui dice che ha motivo di credere che Falcone aveva capito che una quota del 30% della polizia del commissariato era sostanzialmente legato ai servizi segreti”.
L’autrice ha anche parlato del ruolo assunto nel tempo dall’ex agente dei servizi segreti, Bruno Contrada, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, la cui sentenza è stata negli anni scorsi dichiarata "priva di effetti penali". “Ci fu il processo con ben tre gradi di giudizio che hanno messo molto bene in evidenzia tante cose perché alcuni tendono a sottovalutare - ha ricordato - Alcuni dicono che il processo di Contrada è basato sulle dichiarazioni dei pentiti e che questi sono stati manovrati, ma in realtà non è così. Basta leggere quelle carte e capire che ci sono degli incroci significativi. Le cose stanno emergendo sull’attività della polizia di Palermo e delle loro connessioni con i servizi. - ha poi aggiunto - Sono davvero inquietanti e ci consentono di vedere le cose in modo diverso”.

La strage di Capaci iniziò con l’attentato fallito all’Addaura
Nel corso dell'intervista è stato affrontato anche l'argomento della possibile relazione tra quanto avvenuto il 21 giugno del 1989, con il fallito attentato all’Addaura, e la strage di Capaci. Stefania Limiti ha ricordato come "il magistrato Tescaroli fece un grande lavoro su Capaci. Il pm rapportò l’evento del fallito attentato alla vicenda dell’arresto di Tognoli e l’inchiesta che Falcone stava svolgendo in Svizzera con Carla Del Ponte. - ha concluso - Quella vicenda ci fa capire che Falcone fosse al centro di un grande cratere e che in tanti lo stavano guardando. La dinamica di quella vicenda è tanto complessa in quanto non si tratta di un commando che cerca di farlo fuori. Non è andato per niente così. L’attentato fallisce perché c’è qualcuno che disturbava gli attentatori.  È lì che si inserisce la competizione tra gli apparati dello Stato nei quali finiscono tragicamente Nino Agostino ed Emanuele Piazza, che sono due giovani che cercarono di conquistarsi un futuro facendo un lavoro onesto di ricerca della verità, ma che invece si trovarono ad aver a che fare con apparati con una complessità di struttura”.
(24 maggio 2020)

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