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41 anni dopo Palermo non dimentica
di Davide de Bari
Un cronista che sapeva raccontare i “fatti” per quello che erano. Questo era Mario Francese, ucciso dalla mafia il 26 gennaio 1979. E proprio quella sua capacità schietta di raccontare ciò che avveniva era visto in maniera scomoda. Il pm Laura Vaccaro, descrivendo il contatto e l’isolamento che Francese si trovava a vivere, nella requisitoria del processo sull’omicidio del giornalista aveva evidenziato come proprio nei suoi scritti andasse cercata la chiave di lettura del delitto, “nel suo impegno professionale, nella sua tenacia nel ricercare la verità e comunicarla attraverso le pagine di un Giornale all'epoca non coraggioso come il suo cronista”.

L’impegno nel giornalismo
Francese non era un giornalista qualunque. Occupandosi di cronaca giudiziaria per il “Giornale di Sicilia” si trovò a scrivere di mafia in un tempo in cui pochi, o forse meglio dire nessuno, avevano il coraggio di farlo con chiarezza. Il giornalista aveva avuto il coraggio di alzare i riflettori sulla cosca emergente del tempo: quei corleonesi guidati da Riina e Provenzano che, da lì a poco, avrebbero iniziato la propria scalata verso il vertice dell’organizzazione criminale.
Dalle pagine del giornale raccontò la prima guerra di mafia, la strage di viale Lazio e quella di Ciaculli.
Grazie ai suoi articoli si iniziò a capire che la mafia, ormai, era uscita dagli affari latifondisti per fare un nuovo salto di qualità, grazie agli appoggi della classe politica.
Si rese autore dell’unica intervista, all’epoca, a Ninetta Bagarella che nei confronti del suo fidanzato, Totò Riina, diceva: “Che male c’è ad amare Totò Riina? Lo ritengo innocente”.
Portò alla luce anche importanti rivelazioni su soggetti come don Agostino Coppola, il sacerdote di Partinico che aveva celebrato le nozze segrete del latitante Riina e aveva rapporti con l'anonima sequestri.
Inoltre indagò sulla pioggia di miliardi giunta dal Governo per la ricostruzione post terremoto del Belice che andava a toccare ben tre province: Trapani, Palermo e Agrigento. Il cronista scoprì che alla base del forte scontro interno mafioso c’erano soprattutto i soldi stanziati per la costruzione della diga Garcia (alcuni terreni erano dei cugini Salvo, legati al democristiano Salvo Lima [Cfr. L. Mirone, Gli insabbiati, p. 158]). E nel settembre del '77 arrivò a pubblicare un'inchiesta in sei puntate dove descriveva tutta la rete di collusioni, corruzioni ed interessi che si erano sviluppati per la realizzazione della diga. Ed è in quella occasione che Mario Francese spiegò che dietro la sigla di una misteriosa società, la Risa, si nascondeva in realtà proprio il boss Salvatore Riina, a quell'epoca considerato quasi come un fantasma, pienamente coinvolto nella gestione dei subappalti relativi alla costruzione della diga stessa. Informazioni che ebbe anche grazie al colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, che successivamente fu ucciso nel agosto 1977. Proprio inerente all’omicidio, Francese scriveva il 19 ottobre 1978: “Russo ucciso per ordine dei corleonesi. Richiesto forse un mandato di cattura per Leoluca Bagarella. L’eliminazione del colonnello sarebbe stata decisa per le indagini sui subappalti della diga Garcia”. Successivamente il caporedattore Lucio Galluzzo subì un attentato a danno della sua abitazione e anche il direttore Lino Rizzi ritrovò la sua auto danneggiata. Dopo di ciò, Galluzzo lasciò il giornale.
Sempre seguendo il filo tra la mafia e gli appalti, Francese stava scrivendo un nuovo dossier, che però non fece in tempo a pubblicare. Leoluca Bagarella, cognato di Riina, lo uccise in un agguato sotto casa.

Giustizia per Francese
Per vent' anni la morte di Francese non trovò risposte. Grazie al collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo si ebbe una prima svolta. Per il pentito, il giornalista era stato ucciso da Cosa nostra proprio a causa dei suoi “fastidiosi” articoli. Tempo dopo venne recapitata una lettera, rivolta a tutta la famiglia, a uno dei figli di Francese, Giulio, che lavora anche lui al Giornale di Sicilia. La missiva era firmata da Domenico Di Marco, un mafioso da “quattro soldi” che secondo i magistrati era poco attendibile. Quelle dichiarazioni, seppur prive di riscontri, diedero la forza alla famiglia Francese di pretendere giustizia.
Nel 1994 Giulio Francese venne ricevuto dai magistrati Gian Carlo Caselli e Enza Sabatino che gli suggerirono di raccogliere articoli, documenti e materiali che avessero potuto confermare le dichiarazioni di Di Marco. E’ fu così che il figlio più piccolo di Mario Francese, Giuseppe, decise di riprendere in mano tutti gli articoli scritti dal padre, con un obiettivo fisso: ricercare dei collegamenti tra gli appalti della diga Garcia, l’omicidio Russo e gli attentati al caporedattore e direttore del giornale di quel tempo. Un lavoro molto arduo che, insieme alle dichiarazioni dei pentiti, avrebbe portato ad un grande risultato. il Gip Florestano Cristodaro accolse la proposta della pm Laura Vaccaro di riaprire il caso Francese, rinviando a giudizio l’intera cupola di Cosa nostra. Alla sbarra finirono Salvatore Riina, Francesco Madonia, Michele Greco, Antonino Geraci, Giuseppe Farinella, Matteo Motisi, Pippo Calò, imputati per essere stati i mandanti dell’omicidio, e Leoluca Bagarella come killer. Era l’11 aprile 2001 quando La Corte D’Assise di Palermo condannò a 30 anni tutti gli imputati.
In quella sentenza, che finalmente certificava le responsabilità di Cosa nostra nell’assassinio si scriveva che “il movente dell’omicidio Francese è sicuramente ricollegabile allo straordinario impegno civile con cui la vittima aveva compiuto un’approfondita ricostruzione delle più complesse e rilevanti vicende di mafia degli anni Settanta”. E poi ancora si dava atto che “negli articoli redatti da Mario Francese emerge una straordinaria capacità di operare collegamenti tra i fatti di cronaca più significativi, di interpretarli con coraggiosa intelligenza, e di tracciare così una ricostruzione di eccezionale chiarezza e credibilità sulle linee evolutive di Cosa nostra, in una fase storica in cui oltre a emergere le penetranti e diffuse infiltrazioni mafiose nel mondo degli appalti e dell’economia, iniziava a delinearsi la strategia di attacco di Cosa nostra alle istituzioni. Una strategia eversiva che aveva fatto - si legge nelle motivazioni della sentenza - un salto di qualità proprio con l’eliminazione di una delle menti più lucide del giornalismo siciliano, di un professionista estraneo a qualsiasi condizionamento, privo di ogni compiacenza verso i gruppi di potere collusi con la mafia e capace di fornire all’opinione pubblica importanti strumenti di analisi dei mutamenti in atto all’interno di Cosa nostra”. Le condanne dei boss furono poi confermate in secondo grado il 13 dicembre 2002. Mentre in Cassazione, nel 2003, i boss Pippo Calò, Antonino Geraci e Giuseppe Farinella furono assolti “per non avere commesso il fatto”.
Nel giorno della memoria di Mario Francese non si può non ricordare l’impegno ed il sacrificio del figlio Giuseppe. Nel 2002 decise di togliersi la vita, annientato da una sofferenza che lo aveva accompagnato fin dal primo istante dopo l’omicidio del padre, avvenuta quando aveva appena 12 anni. Ma la sua battaglia per la ricerca della verità sul delitto può ispirare il lavoro di tanti.
Una memoria che tornerà anche oggi quando, tanto nella città natale di Siracusa quanto a Palermo, ci saranno una serie di iniziative per ricordare l’impegno e la storia di Mario Francese. L’esempio di un giornalista coraggioso che non sarà mai dimenticato.