Questo sito utilizza cookie tecnici e di terze parti per migliorare la navigazione degli utenti e per raccogliere informazioni sull’uso del sito stesso. Per i dettagli o per disattivare i cookie consulta la nostra cookie policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque link del sito acconsenti all’uso dei cookie.

di AMDuemila
“I mafiosi perdenti, per vendicarsi, si affidano allo Stato”

“La figura di Tommaso Buscetta, quale accusatore, emerge assieme a tanti altri, recitanti il ruolo dei pentiti. Mafiosi perdenti, che affidano la loro vendetta agli organi dello Stato. Il fenomeno del pentitismo ha rotto l’omertà, una volta rigidamente osservata dall’organizzazione mafiosa. Ma dalle dichiarazioni rese dai pentiti, occorre trovare dei riscontri, secondo il libero convincimento del giudice”. Con queste parole, nel lontano 1987, Paolo Borsellino interveniva a Mussomeli, paesino in provincia di Caltanissetta, in un convegno intitolato “Maxiprocesso: una scelta ed un impegno”. Il magistrato che assieme a Giovanni Falcone, Leonardo Guarnotta e Peppino Di Lello lavorò duramente proprio per istruire lo storico processo a Cosa nostra, spiegava in quel discorso l'importanza dei collaboratori di giustizia, ma anche il lavoro degli organi inquirenti che devono necessariamente trovare i riscontri alle dichiarazioni degli stessi.
A raccontare quelle parole è stato nei giorni scorsi "Il Fatto Quotidiano" grazie allo studio dello storico Giacomo Cumbo.
Parole importanti che vengono riferite dal giudice, ucciso dalla mafia nel luglio 1992, a pochi giorni dall'inizio del processo e dopo la lunga scrittura della sentenza-ordinanza di 8mila pagine, scritta a l'Asinara assieme a Falcone, con i rinvii a giudizio nei confronti di 476 indagati.
“La mafia, dagli anni Sessanta a oggi, è apparsa sempre la stessa - raccontava all'epoca Paolo Borsellino - Sempre alla ricerca di facili guadagni, lucrando dalla campagna prima e dall’edilizia dopo, ed infine dalla droga. Nessuno si è voluto rendere conto di tale attività. E coloro che, nell’ambito della Giustizia, intraprendevano un’azione contro le cosche mafiose, venivano eliminati nella speranza che, tolto di mezzo l’audace, le indagini si sarebbero fermate. Per di più, furono sperse, artificialmente, sul loro conto, deplorevoli accuse di corruzione”. Quindi spiegava che "scoperte le connessioni, negli anni Ottanta, tra gli esponenti americani di Cosa nostra e quelli siciliani, si è progettato il Maxiprocesso di Palermo”.
Il quotidiano racconta anche la testimonianza dell'avvocato Pietro Sorce, all'epoca giovane 27enne che allora già sosteneva che "i collaboratori di giustizia venivano utilizzati troppo nei processi penali" e che "non dicono mai tutta la verità”.
E la risposta di Borsellino fu in parte sorprendente perché non contraddisse quest'ultima considerazione ma specificò che "la sensibilità e l’esperienza dell’inquirente dovrebbero condurre a comprendere quando un collaboratore di giustizia sia affidabile e quando, invece, renda dichiarazioni per esclusivo tornaconto”. Per poi concludere che la lotta "deve essere sempre serrata e, soprattutto, non deve cedere alle lusinghe che la mafia di ieri sia diversa dalla mafia di oggi. È necessario che l’impegno dello Stato sia globale”.

Foto © Letizia Battaglia

ANTIMAFIADuemila
Associazione Culturale Falcone e Borsellino
Via Molino I°, 1824 - 63811 Sant'Elpidio a Mare (FM) - P. iva 01734340449
Testata giornalistica iscritta presso il Tribunale di Fermo n.032000 del 15/03/2000
Privacy e Cookie policy

Stock Photos provided by our partner Depositphotos