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di Aaron Pettinari
Ieri contributi e riflessioni per rispondere alle domande aperte a 27 anni dalla strage

"Questa è la storia di un giudice ucciso due volte: da una Fiat imbottita di tritolo e da una clamorosa macchinazione di Stato che ha coperto i veri responsabili della sua morte.
È la storia dell’indagine affidata illegalmente al Sisde di Bruno Contrada e consegnata al gruppo investigativo di Arnaldo La Barbera, che si è trasformata nella più grande mistificazione giudiziaria della Repubblica". Sono queste alcune parole di "Depistato", il libro scritto dai giornalisti Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza ed edito da Chiarelettere che racconta il depistaggio sulla strage di via d'Amelio, presentato ieri sera a Palermo presso il Cinema Rouge et Noir. "Il libro riprende il filo della storia che avevamo già raccontato con l'Agenda Rossa e l'Agenda Nera, alla luce delle più recenti risultanze processuali, su tutte la sentenza Borsellino quater - ha spigato l'autrice Sandra Rizza - La certezza da cui si riparte è che Vincenzo Scarantino è stato 'indotto' a fingersi quello che non era a causa delle minacce, delle pressioni, da parte della Polizia di Stato. C'è un processo in corso ma già tra le pieghe della sentenza del quarto processo sulla strage di via d'Amelio si evincono le responsabilità del Gruppo Falcone Borsellino, guidato da Arnaldo La Barbera, che era Capo della Mobil di Palermo, poi promosso Questore e che scopriremo solo anni dopo essere stato anche agente sotto copertura del Sisde. Quel Sisde che fu coinvolto nelle indagini in maniera del tutto irrituale. Oggi c'è un nuovo processo contro tre poliziotti (Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei) accusati per l'indottrinamento di Scarantino. Ma le responsabilità si fermano lì?". Le domande che restano su quel che avvenne ventisette anni fa sono molteplici. Ieri i due autori sono stati coadiuvati nelle riflessioni con il contributo di ospiti di eccezione come Salvatore Borsellino, l’ex magistrato, Antonio Ingroia, l’avvocato Fabio Repici e l’agente sopravvissuto alla strage di via d’Amelio, Antonino Vullo, oltre che ad un video in cui sono state raccolte le testimonianze di Leonardo Guarnotta, Giuseppe Di Lello e Vittorio Teresi.

Le parole di Borsellino
Accompagnate dalla voce di Giuditta Perriera sono le letture di alcuni brani del libro a indicare gli argomenti sviluppati nel corso della serata. E la riflessione è partita dall'ultimo discorso pubblico di Paolo Borsellino, il 25 giugno 1992, a Casa Professa.
In quella sede Borsellino disse di essere un "testimone" che aveva raccolto confidenze di Falcone ed elementi che potevano essere utili alla ricostruzione dell'evento che aveva posto fine alla vita di Giovanni Falcone, la strage di Capaci, dichiarando di volerli riferire all'autorità giudiziaria. E' Peppino Lo Bianco ad aver ricordato che da quel 25 giugno fino al 19 luglio mai nessuno alla Procura di Caltanissetta reputò opportuno convocare Borsellino, che in quel momento era indicato da tutti come il chiaro successore di Falcone.
Uno dei tanti incomprensibili perché rimasti fin qui senza risposta. La memoria del 19 luglio 1992 è stata affidata ad Antonino Vullo, sopravvissuto in quell'inferno, che ha immediatamente evidenziato come in quel giorno del gruppo scorta nessuno conosceva l'esatta ubicazione dell'abitazione della madre di Borsellino. "Fu Paolo a ragguagliarci - ha ricordato - Mai nessuno di noi era stato prima in via d'Amelio. Io conoscevo un pò la zona e aprii il corteo in quel giorno. Quando arrivammo subito scorgemmo le macchine parcheggiate laddove sarebbe stata necessaria una rimozione delle auto. Ricordo quegli attimi. C'è stato un momento in cui il giudice e gli altri erano a tiro, davanti all'autobomba ma lo scoppio non avvenne in quel momento ma quando erano già dentro al cortile. Una cosa che mi sono sempre chiesto è perché lo scoppio dell'autobomba fu così 'ritardato'. Dopo lo scoppio mi sono sentito schiacciare da una fortissima pressione dentro la macchina. Esco e capisco quel che è accaduto. Girovagavo com un forsennato. Quando un collega mi ha bloccato mi accorsi che ero sopra al piede mozzato di un collega. Poi mi sono trovato in ospedale. Ed è ancora tanto il dolore".
L'ex pm Ingroia ha ricordato il profondo cambiamento che colpì Borsellino dopo la morte di Falcone. "In quel periodo si occupava di diverse cose, come il raccogliere le dichiarazioni di Mutolo e Leonardo Messina, ma anche quell'esposto anonimo di 8 cartelle che voleva approfondire con attenzione. Se in passato però era sempre stato molto generoso nello scambio di informazioni ricordo che dopo quel 23 maggio divenne più accorto e taciturno. Qualcosa mi accennò di quel che gli disse Gaspare Mutolo in quei primi incontri. Ma non mi disse tutto quello che aveva scoperto. E purtroppo molte cose non si sono sapute o non sono state affidate ad altri. E' per questo motivo che divenne necessario far sparire l'agenda rossa". Ingroia ha anche raccontato del suo incontro con Tinebra dopo la morte di Borsellino: "Gli raccontai la confidenza che Paolo Borsellino fece a noi sulla rilevanza delle dichiarazioni di Mutolo su Contrada. Lo dissi informalmente a Tinebra che mi guardò con un'aria severa e preoccupata. Mi diede una pacca sulle spalle dicendo che ci saremmo sentiti. Non fui più richiamato e Tinebra chiese proprio a Contrada di dare una mano nelle indagini. Solo qualche anno dopo sul punto fui sentito dai colleghi Boccassini e Cardella.
Durante il processo Contrada emerse proprio il ruolo dell'ex numero tre del Sisde sulle indagini di via d'Amelio, addirittura si attribuiva la decisività nella raccolta di quelle informazioni sulle parentele mafiose di Scarantino. Se mettiamo insieme tutte queste cose, a cui poi si aggiunge il semi riconoscimento di Spatuzza su un altro soggetto del Sisde come la persona che era presente quando fu imbottita la macchina di esplosivo, si ha l'immagine della strage di Stato che si è compiuta in via d'Amelio. E Paolo Borsellino fu fermato perché era entrato dentro alla questione. Aveva capito che dentro lo Stato si stava ricostruendo il nuovo patto con la mafia e che dentro la mafia ci si preparava ad un traghettamento verso il futuro".



Delle anomalie inspiegabili ed indecifrabili per cui il racconto di Scarantino si sovrappone in numerosi punti con quello di Spatuzza ha parlato Fabio Repici partendo da un presupposto: "Noi dobbiamo escludere le rivelazioni di Scarantino perché in realtà quelle dichiarazioni sono quelle che la Polizia gli fa dire. Ci sono solo due differenze che si possono individuare. La prima riguarda il momento del caricamento dell'esplosivo nella Fiat 126. Laddove Spatuzza aggiunge la presenza, oltre a quella di Graviano, Tinnirello e Tagliavia, di un uomo che non era di Cosa nostra. La realtà è che Spatuzza, seppur in forma dubitativa, ha compiuto il riconoscimento di una foto che raffigurava il capo centro del Sisde di Palermo, Lorenzo Narracci. Nella versione della Polizia offerta a Scarantino, invece, non c'è questa figura. Quindi vi è una protezione e il dato che deve emergere è che fosse stata solo Cosa nostra". Repici ha invitato i presenti a guardar a "tutte le sfumature" della vicenda del depistaggio, che ha portato anche al processo di revisione nei confronti di persone che furono condannate ma che erano innocenti, perché "anche in quelle revisioni, non tutte le posizioni sono uguali". Per il legale di Salvatore Borsellino "in punto di fatto fu un errore la revisione di Gaetano Scotto. Lui era un importante mafioso de l'Arenella e il copione Scarantino conferma questo fatto. Nel quater abbiamo anche saputo che Scotto non era uno qualunque ma un uomo che all'interno del mandamento di Resuttana manteneva i contatti con la Polizia di Stato ed i Servizi. Lo hanno descritto così numerosi collaboratori di giustizia. Scarantino si ferma solo all'aspetto mafioso. Quindi il copione Scarantino toglie quegli elementi più vicini ai pezzi di Stato, occultato le responsabilità dei concorrenti di Cosa nostra. Quella fonte a cui si fa riferimento in sentenza che può aver fornito gli elementi di verità sulla strage o è uno stragista o una persona legata ad uno o più stagisti. E che vi fosse altro oltre Cosa nostra è chiaro in via d'Amelio ma anche a Capaci e prima ancora all'Addaura, nell'omicidio Agostino".
E' stato infine Salvatore Borsellino a prendere la parola. Il fratello del magistrato si è detto "sicuro che Paolo abbia fatto delle copie dell'agenda rossa. Dico questo perché dopo la sua morte io ho trovato diversi scritti che erano ripetutamente fotocopiati. Ma sono altrettanto certo che quelle prove siano state fatte sparire dagli stessi autori del furto dell'agenda rossa dalla borsa, il 19 luglio. Perché vi furono perquisizioni nella casa al mare a Villagrazia di Carini e in ufficio.
Io faccio una riflessione logica che trova conferma nelle carte: chi ha preso l'agenda rossa sapeva della strage. Io un tempo credevo che la morte di mio fratello fosse dovuta all'incuria dello Stato, poi ho capito il valore che invece aveva quell'agenda sparita. Ho capito che c'era lo Stato dietro quell'assassinio. Per questo scrissi la lettera aperta via d'Amelio strage di Stato, quando ancora di trattativa non si parlava. In quell'agenda non poteva che esserci scritto della trattativa e quelle cose che aveva scoperto. Se fosse stata trovata quell'agenda rossa, e si fosse scoperto che dopo Falcone e Borsellino qualcuno stava trattando con la mafia si sarebbe avuta una rivoluzione o qualcosa di ancora più clamoroso rispetto a quanto avvenne per i funerali degli agenti di scorta. Allora necessariamente l'agenda rossa doveva essere fatta sparire, per non correre rischi".

Foto © ACFB

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