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lucchese giovannidi AMDuemila
Ha cambiato idea Giovanni “johnny” Lucchese. A sei mesi dal primo verbale rilasciato ai magistrati il boss di Brancaccio fa “retro-marche” e non vuole più collaborare con la giustizia. Le cause dell’inaspettato cambio di rotta non sono ancora chiare ma potrebbero essere riconducibili alla moglie, Rosalinda Tagliavia, che aveva rifiutato la protezione offertale dagli investigatori. Una dissociazione netta quella della donna, testimoniata dal diniego di consegnare i vestiti e gli orologi ai quali il marito teneva tanto.
La collaborazione di Lucchese sarebbe potuta essere di grande rilievo per gli inquirenti ma anche i suoi vecchi verbali, a questo punto, rischiano di non essere più utilizzabili. Il boss ha un cognome illustre nel quartiere Brancaccio di Palermo. L’uomo è nipote di Giuseppe Lucchese, detto "Lucchiseddu", feroce killer di Cosa nostra autore di decine di omicidi tra cui Pio La Torre e Rosario Di Salvo, ed anche cognato del boss mafioso Pietro Tagliavia considerato l'ultimo capo del mandamento di Brancaccio. Anche il padre di Lucchese, Nino, è stato condannato all'ergastolo ma al momento è detenuto ai domiciliari per “motivi di salute”. Giovanni Lucchese ha passato la sua attività criminale all’interno della famiglia di corso dei Mille tramite la quale gestiva gli incassi derivanti da lotterie clandestine. Venne arrestato nel luglio 2017 nel corso di un blitz che smantellò il clan di Brancaccio e con il quale le forze dell’ordine riuscirono a scoprire un fiorente giro di affari con ramificazioni anche al Nord. Il business del clan era legato, secondo gli inquirenti, alla commercializzazione di pedane industriali di società intestate a persone di fiducia, dei prestanome, con le quali si raggiungevano incassi milionari. Le aziende dei mafiosi, secondo l'accusa, avrebbero operato quasi in regime di monopolio a livello nazionale senza dare nell’occhio. Dopo il suo arresto l’ormai ex collaboratore di giustizia aveva deciso di compilare i primi verbali durante gli interrogatori, nel corso dei quali ha raccontato la storia della sua famiglia. Le sue prime dichiarazioni erano state depositate a settembre scorso nel processo in abbreviato ai danni di presunti boss e affiliati della cosca di Brancaccio, in cui è imputato. Dagli omicidi, al pizzo, alla droga, al lotto clandestino, fino ad arrivare alle tangenti sulle feste rionali e del business degli imballaggi industriali, Lucchese aveva fatto nomi e cognomi di tutti coloro che vennero arrestati con lui elencando le attività illecite di cui erano stati autori. Il suo pentimento aveva detto di essere “frutto di una scelta personale”, che lo ha portato a realizzare che la mafia, quella che per anni gli ha consegnato “300. 400. 500 o 750 euro al mese per il mantenimento di mio padre” e di campare è “una falsità… ”. “Ci sono proprio nato - aveva detto il boss di Brancaccio - e c'ho sempre convissuto con una certa tensione, di vedere dei modi di fare di arroganza o di prepotenza o di seguire sempre le cose sbagliate, senza che uno si può opporre, deve vincere la parola in più, perché va fatto così, quindi se fai diversamente sei cretino, sei sballato, sei qua, sei là... Vince il male, proprio è un male che hanno dentro - aveva messo a verbale Lucchese - ma che secondo me lo sanno, solo che purtroppo fanno questa vita”. Lucchese aveva precisato di non essere mai Stato “affiliato” e che “a pelle, dentro di me c'è stata sempre una ribellione contro di loro, dentro il mio cuore, ma sempre. Che mi è nata da ragazzo, in questa cosa non mi ci trovavo… ". Evidentemente, però, quel "senso di ribellione" era talmente sottile che non ha potuto far meno che "pentirsi di essersi pentito".

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