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dalla chiesa carlo alberto 600“Mi dissero che Nicola Alvaro era coinvolto nell’omicidio del generale”
di Miriam Cuccu
Sarebbe stato un uomo della ‘Ndrangheta a sparare a Carlo Alberto dalla Chiesa il 3 settembre 1982, giorno in cui il generale fu ucciso in via Carini insieme alla moglie, Emanuela Setti Carraro, e all’agente Domenico Russo. È quanto sostiene Simone Canale, pentito calabrese che sta descrivendo al sostituto procuratore della Dda di Reggio Calabria, Giulia Pantano, i retroscena di molti delitti consumati dalle ‘ndrine.
Antonino Penna e Rocco Corica mi dissero che Nicola Alvaro era coinvolto nell’omicidio del generale dalla Chiesa” dichiara il collaboratore di giustizia, originario del biellese e affiliato alla cosca Alvaro. Canale riferisce le confidenze ricevute da Nino Penna, incontrato nel carcere dove il pentito ha trascorso diversi anni, e considerato dalla squadra mobile reggina “personaggio di alto livello criminale che certifica, oltre ogni ragionevole dubbio, la potenza criminale della famiglia Penna all’interno della criminalità organizzata”. Proprio dietro le sbarre, prosegue il pentito, Penna “mi ha parlato di Alvaro Nicola che è considerato un ‘mammasantissima’” precisando che “nell’occasione dell’omicidio del generale dalla Chiesa e della moglie, era accompagnato da un altro soggetto, a bordo di un motociclo e Alvaro sparò con un mitra”.
Per il delitto dalla Chiesa furono già condannati, tra le fila di Cosa nostra, i killer Raffaele Ganci, Giuseppe Lucchese, Vincenzo Galatolo, Nino Madonia, insieme ai collaboratori di giustizia Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci, e i mandanti interni alla cupola siciliana: Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Nenè Geraci. Eppure, racconta ancora Canale, “ricordo che (Penna, ndr) mi disse” riferendosi a Nicola Alvaro, che “‘neanche il testimone è riuscito a incastrarlo. Basta che guardano la data dell’assassinio. Come fa uno di San Procopio a non andare alla festa di Polsi?’”. Il riferimento è alla festa della Madonna della Montagna, annuale ricorrenza per le famiglie di ‘Ndrangheta.

Agganci istituzionali
Certo è però che, a 35 anni dalla morte del generale che trascorse a Palermo i suoi ultimi cento giorni, ancora non si conoscono i nomi di chi, esterno alla mafia, ordinò la sua eliminazione. Fu lo stesso procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, a dichiarare un anno fa davanti alla Commissione parlamentare antimafia che “l’ordine di eliminare dalla Chiesa arrivò a Palermo da Roma” e nello specifico “dal deputato Francesco Cosentino, ex parlamentare Dc vicino a Giulio Andreotti, massone e il cui nome faceva parte dell’elenco della P2. Del resto, tracce di un interesse “esterno” a Cosa nostra si ritrovano anche nelle parole di Giuseppe Guttadauro, medico e capomandamento di Brancaccio: “Glielo dovevamo fare questo favore” diceva, parlando dell’omicidio dalla Chiesa. A Guttadauro fanno eco i pentiti Francesco Paolo Anzelmo e Gioacchino Pennino, che parlarono rispettivamente di “una cosa che era restata fuori” dalla guerra di mafia, e di convergenza di interessi esterni a Cosa nostra.
Lo stesso Canale, d’altronde, riferisce di aver appreso da Penna degli “agganci istituzionali” degli Alvaro, che vanterebbero anche rapporti privilegiati “con la mafia palermitana”: “Che ti pare quando Totò Riina aveva bisogno di qualcosa chi chiamava?” avrebbe detto il boss, parlando delle alleanze Sicilia-Calabria.

Il killer mancato dell’ex sindaco di Sinopoli
Tra i delitti di ‘Ndrangheta ricostruiti dal pentito anche l’omicidio del boss Rocco Molè, risalente al 1° febbraio 2008, vicino al porto di Gioia Tauro. Secondo Canale, infatti, Molé sarebbe stato ucciso perché “ha posto dei limiti all’espansione dell’imprenditore Alfonso Annunziata, uomo di Pino Piromalli dichiarando che “gli esecutori di questo omicidio sono Massimo Bevilacqua detto ‘Giacchetta’, Carmelo Bevilacqua detto ‘Occhiogrosso’ e Luciano Macrì detto ‘u Nigru”. Il pentito calabrese, una volta uscito dal carcere, avrebbe anche dovuto uccidere l’ex sindaco di Sinopoli Domenico Luppino, all’epoca in cui era ancora primo cittadino. L’ordine di eseguire l’attentato era giunto proprio da Nino Penna e da uno dei fratelli: “Ho scoperto delle armi al cimitero, proprio quando progettavano questi omicidi. Luppino veniva ritenuto dagli Alvaro un ‘rompiscatole’ perché occupava con la cooperativa i terreni confiscati agli Alvaro”. Luppino, infatti, è direttore di “Giovani in Vita”, cooperativa che gestisce molti beni sequestrati e confiscati alle cosche di Reggio Calabria e Vibo Valentia. L’ex sindaco, sotto scorta da tre anni, ha subito centinaia di intimazioni. “Durante un colloquio – racconta ancora Canale – fu decisa la morte di Luppino Domenico. Penna Antonino disse: ‘Io ho l’uomo giusto’ e alludeva a me”. I fatti risalgono all’aprile 2014, ma le minacce sono proseguite. L’ultima risale allo scorso dicembre quando qualcuno, nella proprietà di Luppino, incendiò 14 ulivi secolari.

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