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messina denaro matteo effTra gli arrestati anche Vito Nicastri, “re dell’eolico”
di AMDuemila - Video
Dalle prime luci dell’alba di oggi è in corso una vasta operazione che vede impegnati oltre 100 uomini, tra Carabinieri del Nucleo Investigativo di Trapani e del Raggruppamento Operativo Speciale e personale della Dia, finalizzata all’esecuzione di 12 ordinanze di custodia cautelare in carcere emesse dal GIP presso il Tribunale di Palermo, su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia della locale Procura della Repubblica, nei confronti di altrettanti soggetti ritenuti responsabili, a vario titolo, di associazione a delinquere di stampo mafioso, estorsione e favoreggiamento nonché fittizia intestazione di beni tutti reati aggravati dalle modalità mafiose.
L'operazione nasce da un'inchiesta avviata nel 2014 su esponenti delle famiglie di Vita e Salemi, ritenuti favoreggiatori del capomafia latitante Matteo Messina Denaro. Le indagini, coordinate dal procuratore di Palermo Francesco Lo Voi e l'aggiunto Paolo Guido, hanno consentito di individuare i capi dei due clan e di scoprire gregari ed estorsori delle cosche. Partendo dalla vendita all'asta di terreni della famiglia degli esattori mafiosi Salvo, gli investigatori hanno ricostruito la rete dei clan.
Secondo gli inquirenti Cosa nostra, attraverso imprenditori complici, avrebbe messo le mani su ettari di vigneti del nipote di Ignazio Salvo, Antonio, sorvegliato speciale dopo una assoluzione da una accusa di mafia, e della moglie Giuseppa, parente del trafficante di droga mafioso Salvatore Miceli. L''inchiesta proverebbe le infiltrazioni di Cosa nostra negli investimenti immobiliari sui terreni agricoli offerti all'asta. Le terre vennero comprate all'asta dai fratelli Vito e Roberto Nicastri. Vito Incastri, imprenditore nel settore delle energie rinnovabili e noto come "re dell'eolico", è ritenuto vicino al boss latitante Matteo Messina Denaro a cui avrebbe finanziato la latitanza. I Nincastri avrebbero pagato l'appezzamento 138 mila euro, rivendendolo a 750 mila euro poi alla società Vieffe dell'imprenditore Ciro Ficarotta, mafioso di San Giuseppe Jato. L'affare sarebbe stato realizzato con la supervisione del capomafia di Salemi Michele Gucciardi che, con la complicità di un agronomo aveva costretto i Salvo a rinunciare ai diritti sui vigneti. Sui terreni pendeva, infatti, una richiesta, della Salvo, di autorizzazione all'espianto per rivendere poi i diritti di reimpianto. Se il progetto fosse andato in porto gli acquirenti non avrebbero avuto i finanziamenti europei per la ristrutturazione delle superfici vinarie. Parte dei soldi ottenuti dall'affare, secondo i pm, sarebbero andati al boss Matteo Messina Denaro. "Ricordo distintamente che Salvo - racconta una testimone - ebbe a dirmi che, attraverso Nicastri, Messina Denaro avrebbe ottenuto la grande soddisfazione di appropriarsi di beni che appartenevano alla famiglia Salvo".



Di Nicastro, tra gli altri, ha parlato il pentito Lorenzo Cimarosa, nel frattempo morto, indicandolo come uno dei finanziatori della ormai più che ventennale latitanza di Messina Denaro. Il collaboratore di giustizia ha raccontato di una borsa piena di soldi che Nicastri avrebbe fatto avere al capomafia a cui li avrebbe materialmente consegnati Francesco Guttadauro, parente del padrino di Castelvetrano. "Mi ha detto che praticamente erano i soldi dell'impianto di... di quello degli impianti eolici di Alcamo, e che c'erano stati problemi perché aveva tutte cose sequestrate e i soldi tutti insieme non glieli poteva dare, perciò glieli avrebbe dati in tante tranches" aveva raccontato agli investigatori. A quanto ammontava la cifra? Purtroppo Cimarosa non ha fornito ina risposta poiché "la borsa era chiusa e non ho potuto contarli".
Secondo gli inquirenti gli arrestati, servendosi anche di professionisti nel settore di consulenze agricole e immobiliari, sarebbero riusciti attraverso società di fatto riconducibili all'organizzazione mafiosa ma fittiziamente intestate a terzi a realizzare notevoli investimenti in colture innovative per la produzione di legname e in attività di ristorazione.
Parte del denaro che veniva investito dalle cosche sarebbe servito per mantenere la latitanza di Matteo Messina Denaro, il boss ricercato dal 1993. In particolare, i due clan avrebbero realizzato ingenti guadagni investendo nel settore delle agricolture innovative e della ristorazione. I Carabinieri, nel corso dell'operazione, hanno sequestrato tre complessi aziendali, comprensivi degli immobili e dei macchinari, fittiziamente intestati a terzi ma ritenuti strumento per il business dell'organizzazione criminale.

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