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vigneti marsaladi Rino Giacalone
Denuncia di un gruppo di agricoltori del marsalese, sulle vendita del prodotto esiste una imposizione del prezzo.

Le regole di mercato sono spietate, in qualsiasi contesto. E spesso accade che, seguendo la filiera della trasformazione e commercializzazione, il prodotto – per colpa di queste regole, se parliamo soprattutto di agricoltura, e di agricoltura vitivinicola – assuma via via un valore ben più alto dei pochi spiccioli offerti, in maniera capestro, al produttore. Ma quello che da anni accade nella “terra più vitata” di Europa, ossia dove è alta la destinazione a vigneti di estesi ettari, se analizzato a fondo, cela qualcosa di anomalo. E la sensazione è quella che, assieme alle regole di mercato, vi siano altre regole imposte a piccoli produttori e coltivatori: quelle della “mafia dei vigneti”, una sorta di racket sotterraneo, perfettamente in linea con le capacità di Cosa nostra trapanese che nel tempo, e in diversi ambiti, è riuscita a trasformare le proprie azioni legali facendole vedere riconosciute come azioni perfettamente legali, inibendo così qualsiasi forma di ribellione.

Da anni gli agricoltori – e in particolare quelli marsalesi – hanno provato a far sentire la loro voce mostrando i portafogli che restano vuoti. Raccontano come la filiera sia gestita spesso da persone senza volto, da chi si presenta come semplice sensale delle vendite e di quanti siano costretti ad accettare il prezzo di vendita senza nemmeno poter provare a chiedere qualcosa di più. Nel 2008 l’associazione Libera presentò anche un esposto alla Procura di Marsala, ma il risultato è stato quello di una archiviazione.

Ora gli agricoltori stanno pensando di tornare alla carica. Ma il percorso è in salita: sono pochissimi infatti i vitivinicoltori, perché di loro si tratta, disposti a sottoscrivere le denunce. “E questo – dice uno di loro – è il segnale che qualcosa di fuori posto c’è, nessuno parla perché assieme al ricatto di essere tagliati fuori dalle vendite delle proprie uve possono esserci altri ricatti, forse minacce tipiche della criminalità organizzata che nelle nostre zone sappiamo bene essere una criminalità a disposizione di Cosa nostra”.

La storia è riassunta in un dato: in meno di un decennio oltre il 30% degli agricoltori per vivere senza sottostare a ricatti o altro, afflitti da una situazione economica disagiata anche per queste cause, ha deciso di tirarsi fuori dalla viticoltura. Si sono assottigliati i numeri: non ci sono più le 22 mila aziende viticole e le 43 cantine sociali di una volta ed è diminuito il dato sul conferimento delle uve, molto al di sotto dei 5 milioni e 600 mila quintali del 2008. Tutto questo in un territorio che sulla carta vale tanto per le 6 Doc e le 4 Igt certificate dal ministero. “L’ultimo dato disponibile, quello del 2008 – continua il nostro interlocutore – registrava come le nostre produzioni vitivinicole erano capaci di partecipare al Pil siciliano con il 25 per cento. Oggi il dato è molto più povero, e ci preoccupa che la politica ha scelto di chiudere gli occhi, come se sia impossibile opporre una controtendenza”. Spietate regole di mercato soltanto? Oggi il produttore vende un litro di vino a 40 centesimi, il consumatore si trova dinanzi una offerta di acquisto lievitata almeno del 150 per cento. Un gap che secondo alcuni nasconde l’inquinamento criminale del mercato vitivinicolo trapanese.

Il tema mafia e agricoltura starebbe tutto dentro queste storie di agricoltori costretti a grossi stenti, a rinunziare ai risparmi o spendere tutto quello che si è riusciti a mettere da parte, al solo scopo di non chiudere l’azienda di famiglia così ricca di storia e ricordi, rinunciando anche a vivere per scegliere la strada del sopravvivere, per potere continuare a lavorare, talvolta costretti in questo clima a ricorrere all’usura, in assenza di soluzioni bancarie.

Dal 2000 il prezzo medio di vendita del vino sfuso è sempre scivolato inesorabilmente verso il basso, ma quel che accade è un fatto preciso: ciò che il produttore perde nella vendita, viene tutto guadagnato dalla filiera a cominciare da una serie di “sensali” che ad ogni stagione fanno il giro dei produttori obbligandoli a svendere il loro prodotto. Non accettare le condizioni di vendita provoca al produttore una precisa conseguenza, e cioè il “non avere a disposizione altri acquirenti”.

Nel tempo i governi di Roma e Palermo hanno risposto alle esigenze del mercato con politiche agricole incredibili come quelle che riconoscono contributi a chi estirpa i vigenti. E di contro? “Abbiamo i grandi produttori – osserva uno dei pochi agricoltori che ha accettato di parlare con noi – che hanno incrementato i loro profitti, agevolati da un gruppo ristretto di mediatori quelli che da diversi anni in provincia di Trapani stabiliscono i prezzi del vino sfuso e del mosto muto prodotto dalle cantine sociali. Sensali che forti di certe determinate coperture impediscono ad altri potenziali compratori l’acquisto del vino sfuso dalle cantine, creando un vero e proprio monopolio che ci strangola, come le estorsioni strangolano e hanno strangolato nel tempo commercianti e imprenditori, sensali che sono così forti da impedire ad altri di inserirsi nel mercato e fare concorrenza”.

Tradotto? Hanno determinato un sistema di pizzo e tangenti dentro il quale nessuno denuncia. E così le aziende imbottigliano e vendono, acquistando ad un prezzo basso il prodotto, che se parliamo di quello trapanese è di grossa qualità, lo è così da sempre, le aziende possono mantenere ed ampliare le frontiere commerciali e destinare una percentuale per ogni bottiglia immessa nel mercato a coloro che consentono di mantenere il prezzo iniziale tanto basso, le aziende imbottigliano, si garantiscono floridi guadagni e pagano la protezione per eventuali incidenti di percorso. Parole al vento? Basta scorrere le cronache degli ultimi decenni per scoprire che al contrario di quanto accaduto ad altre imprese , quelle dell’edilizia, da bilanci ieri miliardari oggi milionari, per il passaggio dalla lira all’euro, i grandi stabilimenti enologici non sono rimaste mai vittime del racket, “sorte che invece è stata riservata nel trapanese ad alcune puzzole aziende”. Nessuno si è mai accorto di tutto questo? O come spesso è accaduto in altri settori anche dinanzi alle evidenze si è voltato lo sguardo da un’altra parte? “La solita politica parolaia si è adoperata per chiedere solo contributi a destra e a manca, continuando ad illudere i lavoratori della terra, i piccoli coltivatori e produttori, finita l’era dei contributi poi hanno inaugurato l’era di distruggere tutto ciò che l’uomo ha creato nelle campagne di Trapani, secoli di storia e di lavoro mandati al macero per non riconoscere i lacci e laccioli della mafia!”. La più grande tangente pagata alla politica, il più grande racket concesso alla mafia? Se lo cercate dovete venire a Trapani dove ogni giorno c’è chi spende tante parole per dire che la mafia è oramai sconfitta, e invece la realtà è quella di una mafia ricca che sulla pelle anche dei vitivinicoltori magari ogni giorno gioca in borsa e offre liquidità al mercato.

Tratto da: liberainformazione.org

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