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La nuova “faccia” di Cosa nostra
di Aaron Pettinari
Arresti continui, la morte degli storici padrini (su tutti il boss corleonese Totò Riina), la ricerca di nuovi affari. La mafia 2.0, così come l’hanno chiamata gli analisti della Dia nella relazione semestrale, si trova ad affrontare una serie di problematiche nell’intero territorio siciliano e nazionale. Indagine dopo indagine gli investigatori hanno passato in rassegna tutti i mandamenti offrendo un quadro che presenta contesti piuttosto diversi tra loro.

La “cupola anomala” di Palermo e l’insofferenza corleonese
Gli analisti della Dia segnalano un “certo fermento tra le famiglie palermitane, alla ricerca di una rimodulazione degli assetti gestionali interni, necessari per assicurare alla struttura criminale, sempre più in affanno, una guida definita e riconosciuta”. Emergerebbe un "malcelato senso d’insofferenza verso la leadership corleonese, costituita in massima parte da anziani boss detenuti con pene definitive all’ergastolo, taluni dei quali in precarie condizioni di salute”.
Di fronte alla mancanza di un “organismo decisionale di vertice” le famiglie palermitane avrebbero in qualche maniera virato su un “organismo collegiale provvisorio, costituito dai capi dei mandamenti urbani più forti e rappresentativi della città”. Quello che la Dia identifica come una “‘cupola’ anomala, una sorta di direttorio chiamato a funzioni di consultazione e di raccordo strategico fra i mandamenti palermitani, con l’incarico di esprimere, in via d’urgenza, una linea comune nell’interesse dell’organizzazione e nel rispetto dell’autonomia operativa delle famiglie in esso rappresentate”. Un ruolo apicale a cui generalmente vengono investiti gli anziani uomini d’onore, “ai quali viene riconosciuta un’autorità superiore ed una diffusa influenza sul territorio”.
Decine di operazioni, in questi anni, hanno messo proprio in luce la tendenza dei vecchi padrini che, una volta scarcerati, riprendano il loro posto dedicandosi alla riqualificazione e alla riorganizzazione delle famiglie.
Tuttavia “Cosa nostra palermitana continuerebbe ad attraversare una fase di transizione e di rimodulazione, sforzandosi di conservare una struttura unitaria e verticistica, per massimizzare, finché possibile, i profitti derivanti da un ‘paniere’ di investimenti, certamente meno rilevante rispetto al passato”.
Oltre a riconoscere una certa “vitalità” e “potenzialità offensiva” per la Dia non manca la capacità di “proiettarsi oltre, divenendo parte di un sistema criminale integrato che vede partecipi anche la ‘Ndrangheta e la Camorra, e il cui epicentro ruota attorno al business degli stupefacenti”.

Agrigento all’antica
Particolarmente interessante l’analisi di ciò che avviene nel territorio di Agrigento dove le famiglie sono “in diretto collegamento con le consorterie palermitane, trapanesi e nissene” e risultano essere le più ancorate alle regole mafiose tradizionali (dato emerso anche in recenti operazioni).
Un territorio, quello agrigentino, a stretto contatto con il superlatitante Matteo Messina Denaro. “Proprio la vicinanza con la provincia trapanese e la saldatura tra componenti locali e soggetti contigui al latitante Matteo Messina Denaro, - è scritto nel documento - concorrono a rendere fluida la generale situazione di governance.
Nel territorio, accanto a Cosa nostra, si registra anche la presenza di organizzazioni stiddare - non più in conflitto con le famiglie di cosa nostra - nei comuni di Bivona, Camastra, Campobello di Licata, Canicattì, Naro, Palma di Montechiaro, Favara e Porto Empedocle.
In un contesto che vede l’assenza di iniziative produttive, in uno stato di perdurante crisi economica e con una conseguente diffusa situazione di disagio sociale, secondo la Dia, le organizzazioni criminali “trovano l’humus ideale per reclutare manovalanza criminale e per depauperare, allo stesso tempo, il tessuto produttivo sano”. Gli affari si concentrano nelle opere pubbliche e, soprattutto, sulla filiera agroalimentare, sulle fonti energetiche alternative, sullo stato di emergenza ambientale e sui finanziamenti pubblici alle imprese.

Tutto attorno a Messina Denaro, o quasi
In base alle ricostruzioni della Dia, a Trapani vi è uno “status quo” che “non può prescindere dal ruolo del latitante Matteo Messina Denaro, il quale, per quanto episodicamente emergano segnali di insofferenza rispetto alla sua minore aderenza al territorio, continua a mantenere un rilevante carisma sui suoi adepti”.
Nonostante i sequestri di beni e le operazioni che hanno contribuito a stringere il cerchio attorno al boss di Castelvetrano, la Dia evidenzia che “è sulla figura del latitante che continua a reggersi un sostanziale equilibrio tra mandamenti e famiglie, con una apparente assenza di conflitti, fatta eccezione per circoscritti contrasti, interni alla famiglia di Marsala”.
Pur evidenziando una “politica di basso profilo e occultamento”, la consorteria mafiosa viene ritenuta “particolarmente vitale” e dotata di “potenzialità offensiva”.

Pace nissena e la longa manus di Madonia
Parlando della provincia di Caltanissetta la Dia spiega come Cosa nostra e Stidda siano oggi “in uno stato di pacifica convivenza”.
Infatti “Cosa nostra e Stidda mantengono, allo stesso modo, il controllo del traffico degli stupefacenti (acquisto, coltivazione, distribuzione e spaccio) che, insieme ai metodi estorsivi, garantisce il sostentamento dell’organizzazione ed il mantenimento delle famiglie dei detenuti”.
In particolare Cosa nostra continua ad essere organizzata nei quattro mandamenti di Mussomeli, Vallelunga Pratameno, Gela e Riesi anche se resta sempre alta “l’influenza del noto boss della famiglia Madonia, che, sebbene detenuto, ne coordinerebbe le attività attraverso il circuito parentale”.
Nel documento, inoltre, si evidenzia come le famiglie nissene “fortemente indebolite dall’azione di contrasto e di prevenzione, starebbero comunque dimostrando una capacità di reazione, privilegiando l’approccio corruttivo”.

Lo scenario catanese
Affrontando la struttura catanese, che si riflette su tutta la parte orientale della Sicilia, vengono evidenziate le interazioni sia tra le “solite” famiglie mafiose dei Santapaola, Ercolano e Mazzei (in espansione nel territorio di Siracusa e Ragusa) e La Rocca (quest’ultima stanziale ed egemone a Caltagirone), che dei gruppi dotati di una consolidata struttura e presenza sul territorio come i clan Cappello-Bonaccorsi (anche questi in espansione verso Siracusa) e i Laudani.
Gli analisti evidenziano come questi gruppi, che adottano un comportamento di “basso profilo” ed in linea con la “strategia dell’insabbiamento”, hanno sviluppato la propria influenza sia nel territorio provinciale e nel capoluogo etneo, ma anche oltre regione.
Inoltre risulta “sempre più importante appare il ruolo delle donne, legate da vincoli di parentela e compartecipi negli interessi affaristici dei clan, con posizioni predominanti in seno alla compagine criminale”. “Il territorio - inoltre - continua a caratterizzarsi anche per una diffusa disponibilità di armi, a riprova di una spiccata propensione a commettere reati, anche facendo ricorso ad azioni violente”.

Siracusa, Enna e Ragusa
Le province di Siracusa, Enna e Ragusa presentano delle famiglie locali ma è costante l’influenza di quelle nissene, catanesi e messinesi.
“L’operatività delle organizzazioni siracusane - è scritto nel documento - per quanto ridimensionata dalle recenti attività di contrasto, continua a trovare linfa vitale in una strategia di pax mafiosa tra i sodalizi della provincia, e nelle salde alleanze con le consorterie etnee. Nello specifico, il clan Bottaro-Attanasio esercita il proprio potere nell’agglomerato urbano siracusano, ed è storicamente legato al clan catanese Cappello”.
Cosa nostra ennese, invece, viene descritta come “espressione di altalenanti sinergie oltre che tra i sodalizi locali, anche con le consorterie catanesi, nissene e messinesi, con l’effetto di dar vita ad una presenza criminale sul territorio parzialmente diversa dall’organizzazione strutturata e verticistica tipica della Sicilia occidentale”.
Si segnala, in particolare, che nonostante il tentativo di alcuni capi locali di riappropriarsi di una nuova autonomia “i clan catanesi della famiglia Cappello – nella zona di Catenanuova – e della famiglia Santapaola – nella zona di Troina – continuano a manifestare la loro influenza, stringendo alleanze con malavitosi del posto”.
Nella Provincia di Ragusa, invece, vi è “un accordo”, in relazione agli ambiti di interesse criminale, tra le famiglie di Cosa nostra, della Stidda gelese e di altri gruppi malavitosi.
Qui il gruppo stiddaro di maggior rilievo è quello Dominante-Carbonaro, mentre per cosa nostra sono presenti la famiglia Piscopo di Vittoria, legata storicamente a quella nissena degli Emmanuello, e il gruppo Mormina a Scicli, riconducibile alla famiglia catanese dei Mazzei.

Crocevia Messina
Particolarmente complessa l’organizzazione del territorio nella provincia di Messina, descritto come “crocevia di rapporti ed alleanze, in cui converge l’influenza di cosa nostra palermitana, di cosa nostra catanese e della ‘Ndrangheta” mentre nella zona dei Nebrodi si respira una certa influenza delle famiglie palermitane.
In provincia vi è la mafia “barcellonese” che controlla la fascia tirrenica della provincia, in affari in particolare con i catanesi che hanno in quei luoghi dei veri e propri “referenti”, tanto che gli analisti parlano di “osmosi criminale” tra i gruppi di Messina e quelli di Catania.

Mafia in “Continente”
La Dia parla, infine, degli interessi di Cosa nostra verso le altre Regioni d’Italia in particolare quelle del Centro e del Nord. “La spiccata capacità relazionale dell’organizzazione e le cospicue disponibilità finanziarie - si legge ancora - rappresentano le leve attraverso cui i membri di cosa nostra continuano a porsi come interlocutori privilegiati presso diverse realtà economiche, riuscendo ad assecondare la ‘domanda’ di servizi illeciti. Si tratta della declinazione affaristica della più ampia strategia dell’inabissamento, che punta ad avvalersi di ‘colletti bianchi’ e professionisti per riciclare e investire capitali illeciti oltre la regione d’origine”.
Dalle indagini emergono “mire imprenditoriali” verso la Lombardia, mentre la Toscana e il Lazio sono luoghi di investimenti ma anche “aree di dimora abituale di soggetti collegati a cosa nostra”. Una presenza, quella di soggetti legati a Cosa nostra, che emerge anche in Veneto pur “senza replicare le strutture tipiche della Regione di provenienza”. “Tali soggetti - scrive la Dia - sono risultati attivi nel riciclaggio e nel reinvestimento di capitali illeciti, anche attraverso l’acquisizione di attività commerciali ed imprenditoriali”. Infine viene sottolineato come “anche il Friuli Venezia Giulia non appare estraneo alle mire espansionistiche della criminalità organizzata, specie in relazione alle possibilità che, il ricco territorio, può offrire per riciclare e reimpiegare denaro. La presenza registrata sul territorio, nel tempo, di elementi in vario modo collegati alle organizzazioni mafiose - integrati nel settore dell’edilizia e dei trasporti - potrebbe risultare funzionale alle esigenze di supporto logistico ed operativo dei clan mafiosi”.

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