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‘Il coraggio della verità pagato con la vita’
di Davide de Bari
Era la sera del 26 gennaio 1979, Mario Francese, come di consueto, aveva finito la sua giornata alla redazione del “Giornale di Sicilia”. Arrivato sotto casa, scese dall’auto e fece pochi passi, quando alle spalle il killer di Cosa nostra, Leoluca Bagarella, gli sparò numerosi colpi d’arma da fuoco calibro 38. E’ così che il corpo senza vita del giornalista si ritrovò sul gelido asfalto, ricoperto da un telo bianco. Solo questo rimase alla famiglia del giornalista, che disse la verità fino alla fine.

Raccontare i fatti, l’impegno di Francese
Mario Francese era un giornalista coraggioso, che non aveva paura di scrivere quelle verità, che tutti conoscevano ma nessuno aveva la forza di raccontare. Ancora adolescente, si trasferì da Siracusa a Palermo. Finiti gli studi all’Università di Ingegneria, Francese sentiva dentro di sé una forte passione: raccontare le storie della sua città. Così iniziò a lavorare come telescrivista all’Ansa, ma l’ambizione lo portò a scrivere di cronaca nera su “La Sicilia”. Dopo sette anni, il cronista fu assunto dalla Regione e poco dopo fu nominato Capo ufficio stampa dei lavori pubblici. Ma nel 1960 arrivò la svolta per il giornalista che fu assunto dal “Giornale di Sicilia” come cronista di nera e giudiziaria. Fin dall’inizio, si occupò di eventi che vedevano il coinvolgimento della mafia, dalla strage di viale Lazio a quella di Ciaculli. Questi ed altri fatti portarono Francese a individuare una mafia, che non operava più nel latifondo, ma contava sull’appoggio della classe politica e grazie a questo stava facendo il salto di qualità.
Il giornalista con i suoi articoli rompeva il silenzio attorno a Cosa nostra e ne raccontava la nuova struttura: una mafia dislocata in zone controllate da esponenti della cupola, che gestivano la città come fosse una multinazionale. Addirittura, Francese in quegli anni riuscì a raccogliere le dichiarazioni di Ninetta Bagarella che nei confronti del suo fidanzato, Totò Riina, diceva: “Che male c’è ad amare Totò Riina? Lo ritengo innocente”.
Ben presto, il cronista cominciò a occuparsi del rapporto mafia-appalti. Grazie alle informazioni del colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, Francese investigò sugli appalti della ricostruzione della valle del Belice, in particolare della diga Garcia, un’opera che non è mai stata completata e per la quale furono stanziati una “ballata di miliardi”. Nell’agosto del 1977, il colonnello Russo fu assassinato, questo non fermò la penna del giornalista palermitano, che a settembre dello stesso anno sul “Giornale di Sicilia” pubblicò un’inchiesta in sei puntate riguardante gli appalti della diga Garcia. Francese capì ben presto che i due eventi erano collegati. E il 19 ottobre 1978 scrisse: “Russo ucciso per ordine dei corleonesi. Richiesto forse un mandato di cattura per Leoluca Bagarella. L’eliminazione del colonnello sarebbe stata decisa per le indagini sui subappalti della diga Garcia”. Poco dopo, il caporedattore Lucio Galluzzo subì un attentato a danno della sua abitazione e anche il direttore Lino Rizzi ritrovò la sua auto danneggiata. Dà lì a poco, Galluzzo lasciò il giornale. Francese stava scrivendo un altro dossier sul rapporto mafia-appalti, ma non fece a tempo a essere pubblicato che il 26 gennaio 1979 il giornalista finì sotto i colpi di Cosa nostra.

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Mario Francese e Ninetta Bagarella nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Palermo


Di padre in figlio
Dopo la morte di Francese, non si riuscì ad accertare il movente e consegnare alla giustizia i mandati e gli esecutori dell’omicidio. Si diceva che era stata la mafia, ma non c’era alcun fondamento e riscontro di questa tesi avanzata dal capo della mobile Boris Giuliano, ucciso anche lui da Cosa nostra il 21 luglio del 1979. Così la storia di Mario Francese cadde nel dimenticatoio per circa vent’anni. A dare una scossa al caso furono le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo, che raccontò ai magistrati che il cronista era stato assassinato da Cosa nostra perché dava fastidio con i suoi articoli. Ma questo non bastò per aprire il caso, serviva qualcosa di più.
Un giorno al “Giornale di Sicilia” a Giulio Francese arrivò una lettera rivolta a tutta la famiglia, firmata da Domenico Di Marco, un mafioso da “quattro soldi” che secondo i magistrati era poco attendibile. Le dichiarazioni del pentito non avevano alcun riscontro, però spinsero la famiglia Francese a chiedere giustizia. Il 1994 Giulio fu ricevuto dai magistrati Gian Carlo Caselli e Enza Sabatino che gli suggerirono di raccogliere articoli, documenti e materiali che confermassero le dichiarazioni di Di Marco. Così da quel momento, Giuseppe Francese, il figlio più piccolo di Mario, si rimboccò le maniche e iniziò a ricostruire l’attività di suo padre attraverso i suoi articoli. Il suo obbiettivo era di trovare dei collegamenti tra gli appalti della diga Garcia, l’omicidio Russo e gli attentati al caporedattore e direttore del giornale di quel tempo.
Giuseppe e Giulio riuscirono a completare la memoria e nella primavera del 1995 la consegnarono alla pm Enza Sabatino. Il lavoro svolto dai fratelli Francese venne considerato un ottimo stimolo per chiedere la riapertura delle indagini. Ma per riaprire il caso servivano altri pentiti, che in un secondo momento arrivarono e così il Gip Florestano Cristodaro accolse la proposta della pm Laura Vaccaro di riaprire il caso Francese, rinviando a giudizio l’intera cupola di Cosa nostra.

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Mario Francese e Luciano Liggio


Giustizia per Francese
Il 10 maggio 2000 iniziò il dibattimento per il processo di primo grado. Alla sbarra Salvatore Riina, Francesco Madonia, Michele Greco, Antonino Geraci, Giuseppe Farinella, Matteo Motisi, Pippo Calò e imputati per essere stati i mandanti Leoluca Bagarella e Giuseppe Madonia. In quel processo non si stava ricostruendo solo l’omicidio del giornalista, ma anche la storia della mafia di quegli anni. Furono chiamati a depositare numerosi giornalisti dell'epoca: Lucio Galluzzo, Francesco La Licata, Francesco Nicastro, Giuseppe Sottile e molti altri.
Nella sua requisitoria la pm Vaccaro ricostruì il contesto in cui Francese lavorava, evidenziando anche l'isolamento all’interno del giornale. “Si muore quando si è soli - disse il magistrato - Quella solitudine che indusse Galluzzo a lasciare prima dell’irreparabile, uccise Mario Francese”.
L'11 aprile del 2001 arrivarono le condanne a 30 anni per tutti gli imputati. Nel secondo grado di giudizio, la Corte d’Appello di Palermo il 13 dicembre 2002 confermò tutte le condanne di primo grado. Ma poi in Cassazione, i boss Pippo Calò, Antonino Geraci e Giuseppe Farinella furono assolti “per non avere commesso il fatto”, per il resto furono avvallate le condanne a 30 anni.
Il 3 settembre 2002, Giuseppe Francese decise di suicidarsi, anche se a questa tragedia sopravvive l’opera straordinaria di un figlio che è diventato giornalista per rendere giustizia a suo padre.
Francese con il suo impegno civile di giornalista non ha fatto altro che scrivere la verità, affinché tutti potessero prendere consapevolezza sulla realtà della Sicilia e dell’Italia. E come disse la pm Vaccaro nella requisitoria del processo: “Mario Francese è morto perché ha detto ciò che non doveva dire, secondo l'ordine stabilito da Cosa nostra, e ha scritto ciò che per i mafiosi non doveva essere scritto e portato alla coscienza di tutti”.
Oggi più che mai, bisogna continuare a raccontare la storia di Mario Francese e di tutte le vittime di mafia, perché come disse lo scrittore Carlo Lucarelli: “Quando si uccide un giornalista è per ridurlo al silenzio. Ma se lo ricordiamo e ne leggiamo gli scritti, allora ci parla ancora. Se continuiamo a raccontarlo, Mario Francese ha vinto e loro hanno perso”.

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