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di-matteo-nino-web3di Miriam Cuccu - 9 aprile 2015
I numeri parlano chiaro. 5 voti a favore, 16 contrari, così il Csm ha rispedito al mittente la domanda del pm Nino Di Matteo per la Procura nazionale antimafia. Un’amara conferma, questa, dell’iniziale presa di posizione. Già a marzo, infatti, la Terza Commissione di Palazzo dei marescialli aveva preferito gli altri tre candidati, i magistrati Eugenia Pontassuglia, Marco Del Gaudio e Salvatore Dolce. A nulla sarebbe servita la proposta del togato Aldo Morgigni (Autonomia e Indipendenza), che aveva fatto notare come non fosse stato preso in considerazione il curriculum di Di Matteo (attualmente pubblica accusa, insieme ai pm Del Bene, Teresi e Tartaglia, al processo trattativa Stato-mafia) con vent’anni di lavoro alle spalle sulle inchieste più scottanti di mafia, politica, stragi. Una professionalità evidentemente così temuta, da più parti, da considerare il pm palermitano un pericolo. Di Matteo è infatti da anni bersaglio di minacce più o meno velate fino a che Riina, dal carcere, non sbotta dichiarando di voler fare un attentato, proprio come ai vecchi tempi. Al boss corleonese fa successivamente eco Vito Galatolo, pentito nuovo di zecca che racconta del progettato omicidio del pm e dell’ordine partito dal latitante Matteo Messina Denaro perché “mi hanno detto che si è spinto troppo oltre”. Di chi si tratta e cosa intendeva dire? L’incolumità di Di Matteo è seriamente a rischio, ormai questo è un dato di fatto. Tanto da spingere il Csm a proporre al magistrato il trasferimento in qualsiasi parte d’Italia, per ragioni di sicurezza. Mai, però, è stato preso in considerazione lo spessore professionale di Di Matteo affinchè potesse accedere alla rosa dei nomi per la Pna. Una nomina che avrebbe permesso l’acquisizione di una vastissima conoscenza sulle più diverse ramificazioni della criminalità organizzata e sulle sue entrature in ambienti di potere spesso insospettabili. Un voltafaccia inequivocabile: l’organo che per eccellenza dovrebbe difendere l’autonomia e l’indipendenza dei suoi magistrati non ha alcun interesse a proteggere chi ha messo la propria vita a rischio per difendere il suo Stato. Oltre ai 16 voti contrari alla nomina di Di Matteo si sono aggiunte anche quattro astensioni: i laici Paola Balducci (Sel), Giuseppe Fanfani (Pd), l’ex ministro Renato Balduzzi, Alessio Zaccaria (area M5s). Eppure solo pochi mesi fa, a febbraio, proprio una delegazione del Movimento 5 Stelle aveva incontrato Di Matteo a Palermo per esprimergli vicinanza e solidarietà dopo le tante intimidazioni e condanne a morte. Ieri, invece, l’ennesimo passo indietro.
Le probabilità di varcare la soglia della Procura nazionale antimafia, a questo punto, si assottigliano sempre di più, nonostante il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, che non ha partecipato al voto, abbia ricordato che “sono aperte due nuove procedure, quindi le nomine di oggi sono l'inizio di un percorso”. Un secondo concorso, infatti, verrà aperto a breve dal Csm, al quale però Di Matteo non aveva presentato domanda e il cui bando è ormai chiuso. Se però fossero davvero riconosciuti il curriculum e l’esperienza di Di Matteo, il magistrato dovrebbe piazzarsi al primo posto per le successive nomine. Un Paese civile e realmente meritocratico farebbe questo. La burocrazia, però, anche in questo caso regna sovrana.

Ci sarebbe, poi, un terzo concorso che dovrebbe aprirsi prima della pausa estiva. Ma ad ogni modo, una mossa del genere farebbe inevitabilmente scattare il paradosso. Come mai le indiscutibili qualità professionali di Di Matteo verrebbero prima messe repentinamente in un angolo, per poi diventare il “passepartout” per una successiva nomina?
A pesare di più, per Di Matteo (intervistato da Repubblica) è l’amarezza: “Perché non sono stati sufficienti più di 20 anni di lavoro dedicati ai processi di mafia a Caltanissetta e a Palermo”, oltre al fatto che “tra i criteri del Csm continua a incidere pesantemente la logica dell’appartenenza correntizia”. Ora Di Matteo farà ricorso al Tar: “Nessuno ha rilevato carenze di professionalità o altri motivi. Se lo avessero fatto, forse avrei potuto accettare la decisione, così non posso consentire a nessuno di umiliare l’impegno, il sacrificio e il rischio di oltre vent’anni di carriera”. Con la mente, tornando a 27 anni prima, possiamo quasi rivedere la stessa amarezza in Giovanni Falcone che, parole di Paolo Borsellino, “cominciò a morire il 19 gennaio 1988” quando il Csm gli preferì come successore di Nino Caponnetto a capo dell’Ufficio istruzione di Palermo Antonino Meli, colui che poi frantumò senza troppi problemi le inchieste dello storico pool antimafia. Una tremenda umiliazione che anni dopo si ripete, costante e precisa. Fino a che punto saremo disposti a ripetere gli errori che già sono costati cari, non solo a Falcone e Borsellino ma anche alle stesse fondamenta della nostra democrazia?

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