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de-mauro-mauro0di Aaron Pettinari - 28 gennaio 2014
Il Capo dei capi, Salvatore Riina, non ha nulla a che fare con l'omicidio di Mauro De Mauro. Lo ha deciso Corte di assise di appello di Palermo, presieduta da Biagio Insacco, che ha confermato l’assoluzione per il boss corleonese, accusato di essere il mandante e l’organizzatore del sequestro e dell’omicidio del giornalista de “L'Ora” scomparso la sera del 16 settembre 1970.
Il pg Luigi Patronaggio aveva chiesto l'ergastolo al termina di una lunga requisitoria  in cui aveva indicato nella scoperta da parte del reporter del progetto di golpe del principe Valerio Borghese e del coinvolgimento nel piano di Cosa nostra la causa del delitto. Per i giudici di primo grado e d’appello non ci sono prove sufficienti per condannare Riina e a nulla sono servite all’accusa le nuove dichiarazioni del pentito Francesco Di Carlo, sentito a processo lo scorso 25 giugno. Questi aveva raccontato di avere accompagnato Riina nell’abitazione del capomafia Giuseppe Giacomo Gambino per un summit tra boss qualche settimana prima del rapimento di De Mauro. Sia Riina sia il mafioso Stefano Bontande gli avrebbero raccontato che proprio nel corso di quella riunione, alla quale lui non avrebbe partecipato, sarebbe stato deliberato il delitto.

Di Carlo aveva anche escluso che il delitto potesse essere collegato all'attentato nei confronti dell'ex presidente dell'Eni Enrico Mattei, avvenuto il 26 ottobre 1962, “a cui ci avevano pensato i catanesi”. Del resto le piste battute dagli investigatori vanno proprio dal caso Mattei, su cui il cronista stava compiendo alcune investigazioni, al golpe Borghese. Così, ancora una volta, restano senza volto i colpevoli della morte del “ “giornalista scomodo e coraggioso”” (così come è stato descritto dallo stesso Patronaggio), tuttavia resta ancora aperta l'indagine sui “depistaggi” che vi sono stati sin dai primi momenti della scomparsa di De Mauro e che di fatto hanno portato a questa situazione di stallo e di mancata giustizia. In attesa di leggere le motivazioni della sentenza non resta che rivedere quella di primo grado su cui si puntò il dito proprio sugli insabbiamenti continui.

Il processo di primo grado, “Riina non c'entra”
“La causa scatenante della decisione di procedere senza indugio al sequestro e all'uccisione di Mauro De Mauro fu costituita dal pericolo incombente che egli stesse per divulgare quanto aveva scoperto sulla natura dolosa delle cause dell'incidente aereo di Bascapè”. C'è un unico filo che lega le due vicende, un intreccio di interessi alquanto perverso che poi è paradigma di tante stragi avvenute in Italia. Nelle 2.200 pagine delle motivazioni della sentenza, depositate lo scorso 7 agosto dal collegio presieduto da Giancarlo Trizzino, a latere Angelo Pellino (estensore della motivazione), i giudici della prima sezione della Corte d'assise di Palermo spiegano il motivo per cui l'unico imputato a processo, Totò Riina, è stato assolto. All'epoca colui che venne poi definito come il “Capo dei Capi”, non era ancora al comando di Cosa Nostra.
Viene ricostruito il torbido contesto in cui il cronista del quotidiano "L'Ora" pagò il suo scoop sulla morte del presidente dell'Eni, simulata da incidente aereo nei pressi di Pavia il 27 ottobre 1962. Quindi viene offerta una nuova chiave di lettura. Non si punta il dito contro l'avvocato Vito Guarrasi, Mister X, braccio destro dell’allora presidente dell’Eni Eugenio Cefis ed eminenza grigia di diversi affari siciliani, ma si indica come mandante dell'omicidio Graziano Verzotto, ex dirigente dell'Eni, all'epoca segretario regionale della DC, morto il 12 giugno 2010, prima dell'ultima deposizione in aula, a Palermo.

La motivazione dell'ex presidente dell'Ems
La sua era una figura legata ai servizi segreti francesi, che era stato coinvolto nello scandalo dei fondi neri dell’EMS depositati nella Banca di Michele Sindona, banchiere di Dio e di mafia, nonché compare d'anello del boss Giuseppe Di Cristina, insieme con il padrino di Catania Giuseppe Calderone.
Verzotto, secondo la Corte, ha un ruolo centrale sia nell'assassinio di Mattei che nel sequestro e nell'omicidio di De Mauro.
“Se Guarrasi è colpevole (dell’omicidio De Mauro n.d.r.), Verzotto lo è due volte di più” scrivono i giudici.
All'epoca, era in ascesa. Stava promuovendo la firma di un accordo italo-algerino per la realizzazione di un metanodotto tra la Sicilia e l'Algeria finanziato da fondi della Banca Mondiale e la cui progettazione era affidata alla società Bechtel di San Francisco, vicina alla Cia, "mantenendo - scrivono i giudici - un osservatorio americano costante nel canale di Sicilia, a far data dal 2 gennaio 1970, ossia in uno scacchiere del Mediterraneo divenuto particolarmente caldo, a quattro mesi dal colpo di Stato in Libia del colonnello Mohammar Gheddafi”.
Per la Corte di Palermo, l'interesse dell'ex Dc per il lavoro di De Mauro era "duplice". In primis perché “si riprometteva di strumentalizzarlo in chiave anti-Cefis”, in quanto nell'estate del '70 ambiva alla sua successione come presidente dell'Eni. Poi perché aiutando De Mauro si garantiva “un osservatorio privilegiato per orientare la sua inchiesta e indirizzarla con opportuni suggerimenti, secondo la propria convenienza”. Questo “fino al momento in cui si è reso conto che il cronista, pur fidandosi ancora di lui, era troppo prossimo a scoprire la verità: e a quel punto doveva essere eliminato”.

Tutto secondo copione
De Mauro stava scrivendo tutto nella ricerca che gli era stata commissionata dal regista Francesco Rosi, per ricostruire gli ultimi giorni di vita del presidente dell'Eni in Sicilia. Sarebbe anche riuscito a scoprire i nomi delle persone che erano al corrente dell'orario di partenza del volo di rientro di Mattei, all'epoca tenuto segretissimo per ragioni di sicurezza.
A De Mauro però mancavano comunque dei passaggi. “Ancora si fidava del presidente dell'Ente Minerario, - si legge nelle motivazioni - mancavano solo alcuni tasselli, alcune conferme; e le chiedeva proprio a Verzotto”.
Secondo la Corte quest'ultimo “non avrebbe potuto reggere ancora per molto il gioco sottile che lui stesso aveva innescato, cercando di orientare l'indagine di De Mauro nella direzione a sé più conveniente, a cominciare dall'individuazione dei probabili mandanti del complotto. E l'impossibilità di fornire al giornalista i chiarimenti o le conferme che questi gli chiedeva non avrebbe certo mancato di rendere sospetto il suo comportamento”.
Il lavoro di De Mauro per Rosi era quasi terminato, “nella sceneggiatura approntata, dovevano essere contenuti gli elementi salienti che riteneva di avere scoperto a conforto dell'ipotesi dell'attentato. Bisognava agire dunque al più presto, prima che quegli elementi venissero portati a conoscenza di Rosi e divenissero di pubblico dominio”.
Il giorno della propria scomparsa il giornalista de "L'Ora" aveva con sé una busta gialla, o arancione. Al suo interno, molto probabilmente, vi era il copione per il regista. Con questa il collega Nino Sofia lo aveva visto passeggiare, ma poco dopo, una volta salito in redazione, la busta non c'era già più. Che fine aveva fatto? De Mauro l'aveva consegnata a qualcuno? Secondo i giudici il cronista de “L'Ora” l'avrebbe data allo stesso Verzotto.
Il 14 settembre, nei locali dell'Ems, il giornalista e l'ex senatore avrebbero proprio concordato la consegna del “copione”, ormai concluso, in quanto proprio Verzotto si sarebbe offerto di dare una mano per la sistemazione finale, prestandosi a fare da "corriere" portandolo a Roma. Del resto lo stesso Verzotto aveva dato luogo ad un "lapsus linguae" durante un'udienza nel quale aveva sostenuto di non aver parlato con De Mauro il 14 settembre in quanto in quella data si trovava a Peschiera del Garda, dove invece si recò due giorni dopo, il 16 settembre. In quel preciso momento, rilevano i giudici, “Verzotto si confonde, equivoca sulla data, identificandola con il giorno della scomparsa di De Mauro”, perché effettivamente “fu allora che Verzotto incontrò De Mauro per l'ultima volta”, circostanza che ha sempre negato.

Uno scoop da far tremare l'Italia
Secondo i giudici di Palermo la rivelazione di un attentato a Mattei, progettato con la complicità di apparati italiani (e forse con il supporto della Cia), avrebbe avuto “effetti devastanti per i precari equilibri politici generali, in un paese attanagliato da fermenti eversivi e tentato da svolte autoritarie”. E' per questo motivo che vengono allertati gli alleati mafiosi di Verzotto e dei cugini Salvo: ovvero i boss Stefano Bontade e Giuseppe Di Cristina sancendo di fatto la delibera alla morte del giornalista. Erano in tanti, infatti, all'interno di Cosa Nostra, che non volevano far conoscere i retroscena del delitto Mattei, ovvero quello che il collaboratore di giustizia “Masino” Buscetta aveva definito come “il primo delitto della Commissione”.
A quel punto, "quando i sequestratori hanno ormai la certezza che il materiale raccolto su Mattei si trova in mani sicure”, De Mauro viene rapito con tutta la sua auto, “per avere qualche ora di vantaggio sugli inquirenti, simulando un allontanamento spontaneo con amici", ma anche perché De Mauro forse aveva portato con sé altro materiale, o magari la copia del dossier consegnato, e “non si poteva correre il rischio di lasciare le carte del dossier Mattei nell'auto”.

Si riscrive la storia sulla morte di Mattei
Nella sentenza i giudici mettono nero su bianco anche quanto accaduto a Bescapè, il 27 ottobre 1962. Di fatto viene considerata provata la matrice dolosa dell' “incidente aereo” in quanto vi fu un'esplosione di una piccola carica di esplosivo piazzata all'interno del velivolo.  

Lo scabroso capitolo dei depistaggi
Se il “caso De Mauro” sembra davvero essere senza fine la causa è da ricercare nei continui insabbiamenti e depistaggi che hanno caratterizzato le indagini. Sono tanti i pezzi mancanti del puzzle di questa storia che assume sempre più i colori del “giallo”.
Nel dispositivo che ha chiuso il processo contro Riina i giudici avevano evidenziato alcune posizioni di testimoni apparsi falsi tanto che la Corte ha tramesso gli atti al Pubblico Ministero perché proceda per falsa testimonianza nei confronti dell'ex funzionario del Sisde Bruno Contrada, dei giornalisti Pietro Zullino (morto nel gennaio scorso) e Paolo Pietroni e dell'avvocato Giuseppe Lupis. Tutti avrebbero avuto un ruolo depistante nelle indagini e questo verrà approfondito in un nuovo dibattimento. Nel corso degli anni le difficoltà per ricostruire la verità si sono manifestate a più livelli. Basti pensare alle indagini iniziali, che si erano concentrate verso direzioni differenti per poi infrangersi muro del silenzio. Per non parlare poi della singolare “assenza di notizie” negli archivi dei servizi e degli apparati investigativi. A queste si aggiungono le pagine strappate dai quaderni di De Mauro, la scomparsa degli appunti e del nastro con l'ultimo discorso di Mattei a Gagliano, che secondo le testimonianze dei familiari il giornalista “ascoltava e riascoltava in continuazione”. Addirittura la sentenza pone l'attenzione sulla scomparsa del materiale all'interno di uno dei raccoglitori conservati in un armadio a casa De Mauro, il cui titolo era “Petrolio”. Un nome che riporta al romanzo a cui stava lavorando Pier Paolo Pasolini prima di morire. Strane coincidenze che aprono a nuovi scenari d'indagine. Quel che è certo è che come come ha detto il pm Ingroia, ora “la ricerca della verità sul caso De Mauro proseguirà su due fronti”. E con il processo bis ai “depistatori” si cercherà di capire chi e perché ha ostacolato “la ricerca della verità”. E forse si scoprirà che il “delitto De Mauro” non si è trattato di un semplice omicidio ma di un “delitto di Stato”.

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