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di Stefano Baudino
Analizzare la storia della lotta alla mafia in Italia è estremamente complesso. Si tratta infatti di studiare un percorso che, dal primo dopoguerra fino ad oggi, è stato caratterizzato da subdole sfumature, da forti intoppi e da enormi contraddizioni. Per comprendere questo discorso occorre partire da un episodio ben specifico: lo sbarco degli Alleati in Sicilia del 1943, favorito dalla collaborazione tra la mafia d'oltreoceano, incarnata dalla storica figura di Lucky Luciano, e gli stessi mafiosi siciliani, i quali intravedevano nella democrazia un universo in cui poter innestare efficacemente il loro contro-potere, potendo contare sulla costruzione di solidi agganci politici a livello comunale, regionale e nazionale.
Solo dodici anni dopo la fine della guerra, nel 1957, la mafia palermitana si organizzava strutturalmente nell'associazione criminale chiamata Cosa Nostra, la cui composizione organica era calibrata su un meccanismo democratico che determinava l'elezione dei rappresentanti delle cosche di Palermo e provincia nella Commissione, pensata e costruita come una sorta di Parlamento dell'organizzazione. Da quel momento in poi la mafia si fece “sistema”: controllava gli appalti a Palermo, facendo distruggere le ville Liberty più belle della città e lucrando su un boom edilizio senza precedenti; aveva in mano un pacchetto di centinaia di migliaia di voti da veicolare verso le forze politiche che soddisfano i suoi interessi; esercitava un controllo sociale talmente capillare da riuscire ad instillare, anche in cittadini in buona fede, il dubbio che forse il sistema mafioso potesse coprire i tanti buchi aperti e non colmati dall'attività di uno Stato spesso assolutamente inefficiente.
Qualcosa di ancora più emblematico succedeva dopo la vittoria dei corleonesi contro i palermitani nella seconda guerra di mafia all'inizio degli anni Ottanta, quando la gestione della “ditta” passava da Stefano Bontate a Salvatore Riina, il quale inaugurava il cosiddetto “Sistema Siino” (dal nome di chi lo inventò), secondo il quale i clan si procuravano l'elenco delle gare d'appalto e delle aziende in lizza in tutta la Sicilia, per poi decidere chi dovesse vincere e quale fosse l'ammontare della tangente per la mafia: in sostanza, il mafioso incaricato di occuparsi dell'affare visitava in ogni occasione utile i singoli concorrenti e comunicava loro il prezzo con cui partecipare alle gare, in modo tale da far vincere secondo un sistema di rotazione di volta in volta ciascuno di essi. Con la conseguente soddisfazione della totalità degli imprenditori, dal momento che, oltre alla garanzia di poter lavorare tutti, potevano contare anche sulla certezza di non subire danni alle loro fabbriche. Poco importa che una percentuale del costo dell’appalto fosse incamerata dalla cosca mafiosa della zona di riferimento, un'altra da Totò Riina e un'altra ancora dai politici collusi che si prestavano a questo gioco.
Consci di questo meccanismo, possiamo capire bene che i pochi che hanno la lucidità e il coraggio di alzare la testa contro Cosa Nostra e le sue storture (che storture rimangono, sebbene siano accettate come prassi dalla stragrande maggioranza della popolazione) diventano gli anti-sistema. E gli anti-sistema, dai tempi di Adamo ed Eva, giocano la loro sacrosanta battaglia in solitudine. E' la solita vecchia storia di Davide contro Golia, in cui Golia non è incarnato soltanto dai “cattivi” nel senso platonico del termine, ma anche e soprattutto da categorie molto più sfuggenti e pericolose: gli stolti, che non hanno le basi culturali per rendersi conto della macroscopica ingiustizia che investe la collettività; i disinformati, che pensano di vivere nel mondo rappresentato dai media (in Italia, da sempre, in mano all'establishment economico e politico e cioè anche a coloro che, nel corso di questi decenni di storia, hanno fatto affari e trattato con la mafia) che non è assolutamente sovrapponibile a quello reale; i poveri, che preferiscono raschiare per inerzia dal fondo del barile piuttosto che tentare con tutte le loro forze il salto verso una società più equa e all'insegna della legalità, in cui non occorre pagare il pizzo ad un’associazione criminale; i codardi, che sono portati ad appoggiare il più forte piuttosto che il più meritevole per il semplice fatto che il primo ha in mano un fucile a canne mozze e il secondo soltanto la Costituzione della Repubblica italiana, il Codice Penale ed eventualmente un Vangelo.
Da sempre, le grandi sfide si vincono soltanto in squadra. Ma l'uomo anti-sistema una squadra non ce l'ha o, se ce l'ha, essa è una squadra che può inanellare importanti vittorie solo nelle brevi frazioni di tempo in cui l'avversario si è distratto o indebolito. E' quello che è accaduto al pool di Palermo, capitanato da Antonino Caponnetto e composto, tra gli altri, anche da Falcone e Borsellino. Una squadra di magistrati compatta e capace di infliggere, dopo decenni di omertà e negazionismo giudiziario, il primo vero colpo basso alla mafia di Totò Riina. Eppure, nonostante la storica vittoria del Maxiprocesso (o, più probabilmente, a causa di questa grande vittoria, che aveva scompaginato lo status quo nei suoi schemi più rodati) il sistema decise che quell'attività doveva chiudersi il prima possibile: così, nel Gennaio 1988, una schiera di Giuda tra i componenti del Consiglio Superiore della Magistratura, nel momento di eleggere il successore di Antonino Caponnetto a capo dell'ufficio istruzione del Tribunale, preferì Antonino Meli, un magistrato assolutamente inesperto di indagini sulla mafia che voleva parcellizzare le inchieste, a Giovanni Falcone, il successore naturale di Caponnetto. Quale fu il risultato? Il pool venne smembrato e Giovanni Falcone, vittima dei veleni del Palazzo di Giustizia, dovette lasciare Palermo. Per poter portare avanti la sua attività si rifugiò a Roma, dove ricoprì la carica di direttore generale degli affari penali al ministero della Giustizia.
Chissà come si doveva sentire solo Giovanni Falcone. Colui che aveva ridato linfa vitale all'antimafia della sua città veniva sbeffeggiato dai suoi colleghi, che lo accusavano di “protagonismo” e tentavano in tutti i modi di intralciare il suo egregio lavoro. D'altronde nel 1989 furono rinvenute 58 cartucce di esplosivo nella spiaggetta antistante la villa affittata dal magistrato all'Addaura, ma qualcuno, invece di solidarizzare con lui dopo il fallito attentato, non trovò di meglio da fare che ventilare l'ipotesi che fosse stato lo stesso Falcone ad organizzare il tutto al fine di farsi pubblicità.
Dal giorno in cui la mafia lo uccise a Capaci sventrando un'autostrada, però, Giovanni Falcone viene pianto e applaudito da una platea che sfiora e forse tocca il 100% degli individui dotati di occhi e arti superiori. Il sistema, infatti, vuole le lacrime ai funerali e le pacche sulle spalle. Il sistema vuole che gli eroi siano eroi perché sono morti e non perché abbiano combattuto in nome dei principi etici e legali che dovrebbero caratterizzare l’animo degli uomini di buona volontà e distinguerli da tutti gli altri. Il sistema vuole che il ricordo di queste persone galleggi in un mare magnum di superficialità mista a confusione, in modo che possano riposare in eterno senza che qualcuno approfondisca con dovizia i punti focali della loro encomiabile biografia professionale.

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L'Aula bunker dell'Ucciardone durante il maxiprocesso © Shobha


Chissà come si doveva sentire solo Paolo Borsellino, al quale era stato tolto il più valoroso compagno di viaggio e di lavoro che il destino potesse mettere al suo fianco in quella stagione così intensa. Chissà come si doveva sentire solo quando venne a conoscenza del fatto che, mentre indagava sul cadavere ancora caldo del suo migliore amico, le istituzioni avevano aperto una trattativa con i vertici di Cosa Nostra palermitana, dal momento che gli uomini politici che avevano garantito ai mafiosi il buon esito del Maxiprocesso in Cassazione non erano riusciti ad ottenere il risultato sperato (ad essere uccisi, infatti, furono gli ex “amici” di Cosa Nostra Salvo Lima e Ignazio Salvo, considerati dalla Commissione mafiosa dei traditori, e dagli uomini d'onore era stata stilata una lista ancora più lunga di altri politici da mandare al più presto al creatore). Chissà come si doveva sentire solo quando si rese conto di essere semplicemente un cadavere che camminava, in quanto ultimo ostacolo prima dell’intesa finale tra pezzi deviati dello Stato e Cosa Nostra: un uomo da sacrificare sull'altare di una trattativa che doveva a tutti i costi essere portata a compimento.
Così morì, abbandonato dal suo Stato, Paolo Borsellino il 19 Luglio del 1992 in via D'Amelio, il giorno in cui avrebbe dovuto accompagnare sua madre dal cardiologo e in cui invece venne distrutto per sempre con gli uomini della sua scorta dal tritolo della mafia. Chissà che fine ha fatto l'agenda che portava sempre con sé, sottratta subito dopo l'esplosione dalla borsa di cuoio appoggiata sul sedile posteriore dell'automobile in cui aveva viaggiato. E non certo da una mano “mafiosa”: da che mondo e mondo i mafiosi, nel perimetro della strage, non sono affatto presenti.
Chissà come devono sentirsi soli i familiari ancora in vita dei due magistrati e degli uomini della scorta morti ammazzati, in attesa, dopo ventisette lunghissimi anni, della verità definitiva sui responsabili di quel massacro. Il sistema, ancora oggi, si chiude a riccio per non dare risposte troppo scomode.
Chissà come deve essersi sentito solo Antonino Di Matteo, “il pm della trattativa Stato-mafia”, oggetto delle critiche sprezzanti di quasi tutto il circuito partitico italiano e di grossi pezzi della magistratura per avere indagato mafiosi, uomini politici e membri delle forze dell'ordine per lo stesso reato, ovvero “violenza o minaccia a corpo politico dello Stato”. Chissà quanto deve essersi sentito solo, prima e dopo la sentenza della Corte d'Assise di Palermo che ha confermato il suo impianto accusatorio e gli ha dato ragione senza che nessun telegiornale o rotocalco lo celebrasse come sarebbe stato quantomeno opportuno.
Il meccanismo psicologico che porta colui che combattere il sistema in solitudine a deporre le armi è molto semplice: il fatto di essere isolati e di non incontrare il favore della collettività (la quale poi, al momento del voto, proietta i suoi rappresentanti all'interno dei Palazzi del Potere a governare il Paese e guida lo spirito emotivo e culturale dello stesso) porta inevitabilmente a porsi la domanda fatidica: “è possibile che, forse, sia solo io a sbagliare?”. E' la conseguenza della famosa “dittatura della maggioranza” di cui parla il grande sociologo Alexis de Tocqueville, che in democrazia miete ancora più vittime che nei regimi totalitari. E che ci porta a chiederci se siano davvero liberi i cittadini di un Paese che hanno bisogno di eroi da piangere, piuttosto che del bisogno di cambiare almeno la porzione di mondo in cui vivono.

Rubrica Mafia in pillole