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di Karim El Sadi - Video
A Guardiagrele un importante appuntamento in tema di lotta alla mafia e femminicidio ricordando “la prima testimone di giustizia della Calabria

Lea era una donna coraggiosa e sorridente che sapeva coinvolgere, era sempre pronta ad aiutare tutti”. Marisa Garofalo ha voluto ricordare così sua sorella Lea lo scorso 7 dicembre a Guardiagrele (Chieti), insieme all’autore del libro “Il coraggio di dire no. Lea Garofalo la donna che sfidò la 'ndrangheta”, Paolo De Chiara, in un incontro organizzato dalle Agende Rosse e moderato dal referente Massimiliano Travaglini. Il sorriso accennato sul volto di Marisa che ha accompagnato il ricordo di sua sorella tuttavia è durato poco. Quasi senza accorgersene lo sguardo è diventato più cupo e le parole hanno cominciato ad assumere un altro tono, ben più serio. “La grande sfortuna di Lea è stata quella di innamorarsi in giovane età (aveva 14 anni, ndr) di un ragazzo che sembrava normale ma normale non era”, ha continuato a raccontare ai presenti in sala. Dall’infatuazione adolescenziale della sorella per il boss di ‘ndrangheta Carlo Cosco (l’uomo che la uccise la sera del 24 novembre 2009) nacque una splendida creatura: la figlia Denise. Ma quello con il compagno fu fin dall’inizio un rapporto travagliato, “Lea capì che non era amata. Carlo faceva tardi la sera e durante il giorno dormiva. Lea è stata sin da bambina molto vivace e odiava le regole, per questo con il compagno litigava quotidianamente e spesso la schiaffeggiava perché la costringeva a restare in casa senza poter uscire o lavorare”. Una condizione invivibile alimentata da un contesto famigliare mafioso di un paesino, quello di Petilia Policastro (in provincia di Crotone), altrettanto mafioso che portò la donna a volersi togliere la vita, fortunatamente senza successo. Nel 1997 Carlo Cosco venne arrestato a Milano, dove entrambi si erano trasferiti, e durante un colloquio Lea disse al compagno di non volere più continuare il loro rapporto e nel contempo rifiutò le “bustarelle di denaro che le facevano avere i fratelli di lui. Ma Cosco - ha rammentato Marisa Garofalo - reagì violentemente schiaffeggiandola e lì s’interruppe il colloquio”. Da quel momento Lea prese sua figlia e se ne andò a Bergamo dove tentò di ricostruire una nuova vita, lontano dal compagno e dall’ombra della ‘ndrangheta, che “conobbe sin dalla culla (il padre Antonio era un boss ucciso nella faida di Pagliarelli, ndr)”. “Per i primi due anni stava bene”, ha detto la sorella. Ma anche lì la presenza della cosca si fece sentire, “la trovarono subito e le bruciarono macchina e motorino”. Nel 2002 entrò nel programma di protezione insieme alla figlia Denise. In quell’anno raccontò ai magistrati l’attività di traffico di droga condotta dalla famiglia Cosco e la faida interna tra questa e la sua famiglia che aveva portato alla morte del fratello Floriano Garofalo nel 2005. Madre e figlia si videro così costrette a peregrinare senza sosta in varie regioni d’Italia tra un alloggio e l’altro, sotto falso nome, senza amici e senza sostegno. Erano sempre sole entrambe speranzose di trovare finalmente un posto sicuro dove poter cominciare a vivere. Dopo vari trasferimenti le due si stabilirono per un po’ a Campobasso, dove però nel 2006 Lea Garofalo perse la tutela del programma di protezione perché la sua collaborazione era stata inspiegabilmente ritenuta non rilevante alle indagini. Nel 2007 decise quindi di rivolgersi prima al TAR, il quale respinse la sua richiesta, poi al Consiglio di Stato che la reinserì nel programma nell’aprile del 2009. A quel punto, però, fu la stessa Garofalo a rinunciare alla tutela. Disperata ma allo stesso tempo determinata la giovane madre scrisse la notte del 28 aprile 2009 una lettera al Quirinale indirizzata al presidente Giorgio Napolitano. “Le dissi ‘figurati se il Presidente della Repubblica leggerà la tua lettera’” e lei mi rispose 'io la scrivo e gliela mando pure'”, ha ricordato Marisa.

garofalo lea

La missiva, letta al pubblico dai relatori, conteneva un sfogo rivolto al Capo dello Stato e finiva con queste parole: “La cosa peggiore è che conosco già il destino che mi spetta, dopo essere stata colpita negli interessi materiali e affettivi arriverà la morte!”. Parole profetiche perché di lì a poco la morte sarebbe giunta con la violenza e con l’inganno proprio per aver fatto il proprio dovere da cittadina onesta: denunciare il malaffare. Carlo Cosco e i suoi compagni di crimine tentarono più volte di eliminarla. E’ maggio del 2009 quando Lea subì il primo attentato alla sua vita: un finto tecnico della lavatrice, Massimo Sabatino (poi condannato all’ergastolo insieme a Carlo Cosco, il fratello Vito e Rosario Curcio), la aggredì nella casa in cui viveva a Campobasso. Lea si salvò grazie alla figlia, che quella mattina non era andata a scuola e che mise in fuga il sicario mandato da Cosco. Il secondo e ultimo attentato avvenne quella sera di fine novembre 2009. “Lea sapeva lo ripete più volte, che Denise è la sua “assicurazione sulla vita: finché sono insieme, Cosco non le farà nulla” ha spiegato il giornalista De Chiara. E così, madre e figlia arrivarono a Milano, convinte dal Cosco con la scusa di parlare del futuro di Denise, ormai diventata una ragazza. Una telecamera le riprese mentre camminavano per strada, poi si separarono e Lea sparì. Fu l’ultima volta che la figlia vide la madre. “Lea Garofalo è stata portata con una scusa in un appartamento a Milano in zona Tre Alpi - ha spiegato Paolo De Chiara che con il suo libro si è occupato del caso - lì venne colpita violentemente da 5 o 6 uomini, poi con un laccio l’hanno strangolata e messa dentro un cartone in una Station Wagon. Il cadavere venne portato in un capannone in provincia di Monza dove venne messa a testa in giù dentro un fusto di petrolio. Poi è stata data alle fiamme con la benzina per tre giorni e non contenti hanno fratturato le ossa con una mazza di ferro”. Un racconto terribile, questo, che rivelò ai magistrati solo quattro anni più tardi Carmine Venturino, fidanzato di Denise all’epoca dei fatti, assoldato dal padre per controllarla. Ma terribile è stato anche il comportamento adottato nei suoi confronti dalle istituzioni sia da viva che da morta. “In vita Lea Garofalo non è stata creduta, non è apparsa sulle bandiere come oggi. In vita Lea Garofalo era ritenuta una pentita e tutt’ora risulta essere una collaboratrice di giustizia e non una testimone. E la differenza tra le due cose è enorme. - ha spiegato Di Chiara - Quando finirono quei 7 anni terribili, a processo le deposizioni di Lea Garofalo non sono mai state utilizzate. Le sue dichiarazioni sono state ritenute credibili solo dopo essere stata uccisa dalla ‘ndrangheta”. Un isolamento totale sia morale che fisico, come dimostra la revoca dal programma di protezione nel 2006. Non solo. Il giorno del rapimento, “quando Denise è andata dai carabinieri costringendo suo padre ad accompagnarla - ha spiegato Marisa Garofalo - in caserma le dissero che essendo una testimone di giustizia si dovevano aspettare 48 ore prima di iniziare le ricerche, io la mattina successiva ho chiamato i carabinieri del mio paese e loro si sono subito attivati. Quando dico che ci sono responsabilità istituzionali mi riferisco al ritardo delle ricerche. - ha detto la sorella della vittima - Probabilmente non saremmo riusciti a trovare Lea viva ma sicuramente avremmo trovato il suo corpo e avremmo potuto fare un funerale dignitoso”.

Coraggio di donna e di madre
Marisa Garofalo ha descritto sua sorella, la prima testimone di giustizia calabrese, come una donna coraggiosa come poche, in grado di affrontare da sola il compagno violento e l’organizzazione criminale di cui faceva parte. “Lea sapeva che facendo una scelta simile sarebbe andata incontro alla morte ma non ha voluto abbassare la testa”. “Una volta - ha riportato un episodio Marisa - Denise tornò a casa con delle buste contenenti vestiti firmati regalategli dal padre e una banconota da 200 euro - probabilmente per comprarsi le sue attenzioni o il suo silenzio - Lea prese i vestiti li tagliò con un paio di forbici e ordinò a Denise di gettarli nella spazzatura. La banconota invece la bruciò con un accendino e rivolgendosi alla figlia le disse “non accetteremo mai questi soldi sporchi di sangue””. Un gesto, questo, che dimostrava la sua determinazione a rifiutare ogni contatto con quella realtà mafiosa nonostante in quel periodo, ha rivelato la sorella, patisse la fame: “Lea aveva un disperato bisogno di quei soldi perché il giorno dopo chiese a me 50 euro, lei non percepiva nessun sussidio da parte dello Stato, nessuna copertura, nessun lavoro”. Ed è grazie a questa forza che è riuscita a vincere da sola “la sua battaglia contro un intero clan di ‘ndrangheta”. Lo Stato in questa lotta "non l’ha tutelata”, l’unica ad esserle stata sempre accanto invece era la piccola Denise, la quale “ha rifiutato il padre e la disponibilità economica per scegliere la via della giustizia e della legalità”. In poche parole, sua madre.

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