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di Gabriele Romagnoli
A Giulianova i quadri del killer pentito di mafia, lo sponsor dell’esposizione è il suo ex sodale nei traffici di droga che fece Carosello

Quarant’anni, due vite, uno spiraglio di redenzione. Una storia terminale, di facce segnate, colpe sepolte: ci vorrebbe l’epica della macchina da presa di Martin Scorsese per riprendere Gaspare Mutolo e Fioravante Palestini, 79 e 73 anni, sulla riva del mare ingrossato, reincarnati e un po’ stupiti, in quest’autunno antracite del 2019.
Inaugurano una mostra di pittura a Giulianova, dove si incontrarono la prima volta. Il collaboratore di giustizia, ex mafioso e ora pittore, ha spedito una trentina di quadri. Il marinaio, ex uomo Plasmon e sodale in traffici, ora detentore di record di voga, si è dannato per convincere la città e i suoi amministratori a esporli in uno spazio nobile, sotto il belvedere. A presenziare vengono il direttore del polo museale civico e l’assessore alla cultura. Un artista e critico del posto crea termini di paragone, evoca la "souvenirizzazione" e l’elegia della mancanza. Il pubblico applaude. Mutolo si collega al cellulare da luogo imprecisato, assente per ragioni di sicurezza, e dolente ringrazia. Palestini ai aggira per la sala, orgoglioso e timido nell’imponente carcassa. Il tempo scorre alle loro spalle.
Era l’estate del 1980. Gaspare Mutolo era carcerato in Abruzzo per una lunga catena di delitti commessi agli ordini di cosa nostra. Ottenne la semilibertà. Usciva alle 7 del mattino, rientrava alle 10 di sera. Lavorava come "aiutante scrivano" in una fabbrica di mobili. I proprietari erano contenti perché piazzava i pezzi invenduti a Palermo, tra "amici e conoscenti". Si faceva pagare in contanti e la sua percentuale saliva così dal 15 al 25%. Un giorno il ragioniere della ditta fece i conti e si accorse che il suo guadagno superava il ricavo dei titolari. Gli piaceva il luogo: Giulianova era, in fondo, una piccola Mondello. Decise di trasferire lì per l’estate la famiglia, moglie e figli. Chiese in carcere chi fosse il boss locale. Gli risposero: "Boss non ce ne sono, ma c’è uno che conosce tutti e tutto, si chiama Gabriellino, lo trovi al porto". Andò, cercando un tipo minuto. Dalla barca scese un gigante.
Gabriele era il nome del nonno, lui si chiamava Fioravante, ma da piccolo si era preso quel soprannome, per distinguerlo dall’uomo che lo portava sempre con sè. Era tornato da poco dalla Germania. Finita la carriera di modello a Milano aveva seguito in Nord Europa la moglie, poi avviato bische a ripetizione. Separato, era tornato e aveva aperto un negozio, con scarsa fortuna. Mutolo gli arrivava al petto, una strana coppia, indecifrabile: chi avrebbe detto che quello temibile era il piccoletto? E l’altro, a suo modo, un "gigante buono"? Bastò una camminata sul lungomare, vedere come tutti, ma soprattutto tutte, lo salutassero con rispetto. La richiesta della villa fu esaudita all’istante, facendo riaprire quella posseduta da un imprenditore che non la usava più, ancor oggi uno dei più begli edifici di Giulianova.
Nacque tra i due un’amicizia che adesso, a ragione, definiscono "intramontabile". Alla fine dell’estate Mutolo restituì le chiavi della villa e mandò Gabriellino a Pale rmo con la famiglia. A conoscere quell’altra: il clan. Fu ricevuto da Salvatore Riccobono e da Stefano Bontade. Ammirato da tutti per il fisico e i modi. I rintocchi di quella pubblicità suonavano ancora, ma non gli garantivano di che vivere: scelse di farlo malamente. Accettò un incarico da uomo di mare: prendere una nave in Thailandia, condurla in Sicilia passando per il canale di Suez e poi via ancora, rotta per il Sudamerica. L’avventura finì nelle acque territoriali egiziane. Seguirono vent’anni di carcere nelle galere di quel Paese, tra le più dure nel mondo. Mutolo da mafioso cercò di convincere Riina a corrompere qualche giudice, da collaboratore gli procurò un contatto con Falcone. Niente e nessuno ridusse la sua pena.
Quando tornò a casa il mondo era diverso, il mare lo stesso. Si rimise a lavorare al porto. Un giorno di tredici anni fa ricevette una telefonata da Mutolo. Si incontrarono nella hall di un albergo, nel pieno della terza età e dell’ultima vita. Parlarono di figli: quelli di Mutolo a Roma, quella di Palestini in Baja California, dopo una laurea in Germania. Non rimpiansero niente, ma si dissero: "Dobbiamo fare ancora qualcosa, insieme". Invece di una spedizione illegale, stavolta hanno messo in piedi un’esposizione d’arte. Nel quadro all’ingresso Mutolo ha raffigurato se stesso, in cella, tra le sue tele e i suoi ricordi. Oltre le sbarre, il mare. Se gli chiedi che cosa sceglierebbe tra restare libero e non poter dipingere o ritrovarsi in cella ma con i suoi colori, piega la testa di lato e ti lascia immaginare la risposta. Se chiedi a Palestini per che cosa vive adesso ti mostra il suo pattino: ci rema fino alla Croazia e se torna indietro è perché lì finisce il mare.

Tratto da: la Repubblica

Visita: gasparemutoloarte.it