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da robigreco.wordpress.com
Si è alzato presto, come suo solito, quella mattina del 21 settembre 1990. Rosario Livatino, verso le 8:00 sta riordinando un paio d’incartamenti su cui deve lavorare quel giorno. Prepara la borsa e prende la sua auto per dirigersi in ufficio, al Tribunale di Agrigento. La sua Ford Fiesta di colore amaranto viaggia lungo il viadotto Gasena, lungo la strada statale 640, la Agrigento-Palermo. Sono passate da poco le 8:30. All’improvviso, la Ford Fiesta viene affiancata da un’altra auto che la sperona. A bordo ci sono quattro uomini che iniziano a sparare nei confronti di Livatino.

Questi, seppur ferito, riesce ad uscire dall’auto e a scappare attraverso i campi. I killers non gli danno tregua. Lo inseguono e lo finiscono. L’auto del gruppo di fuoco sparisce lungo la statale. Poco più in là, nella sua auto, Pietro Ivano Nava ha visto tutto. Pietro Ivano Nava è un ex agente di commercio, originario della provincia di Bergamo. Ma chi è Rosario Livatino e chi ha voluto la sua morte?

Rosario Livatino nasce a Canicattì, in provincia di Agrigento, il 3 ottobre 1952, primo e unico figlio di Vincenzo, avvocato, e di Rosalia Corbo. Negli anni del liceo studia intensamente, inoltre s’impegna nell’Azione Cattolica. Si laurea in giurisprudenza a Palermo nel 1975. A ventisei anni, nell’estate del 1978, fa il suo ingresso in Magistratura. Dopo il tirocinio presso il Tribunale di Caltanissetta, il 29 settembre 1979 entra alla Procura della Repubblica di Agrigento come Pubblico Ministero. Per la profonda conoscenza che ha del fenomeno mafioso e la capacità di ricreare trame, di stabilire importanti nessi all’interno della complessa macchina investigativa, gli vengono affidate delle inchieste molto delicate. E lui, infaticabile e determinato, firma sentenze su sentenze: è entrato ormai nel mirino della mafia locale, e non solo. Per la sua morte sono stati individuati, grazie al supertestimone Pietro Ivano Nava, i componenti del commando omicida e i mandanti che sono stati tutti condannati, in tre diversi processi nei vari gradi di giudizio, all’ergastolo con pene ridotte per i “collaboranti”. Ergastoli sono stati inflitti agli esecutori Paolo Amico, Domenico Pace, Gaetano Puzzangaro, Salvatore Calafato, Gianmarco Avarello ed ai mandanti Antonio Gallea e Salvatore Parla. Tredici anni sono inflitti a Croce Benvenuto e Giovanni Calafato, entrambi collaboratori di giustizia.

Scriveva Rosario Livatino a proposito dell’immagine del magistrato: «L’indipendenza del giudice, infatti, non è solo nella propria coscienza, nella incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrifizio, nella sua conoscenza tecnica, nella sua esperienza, nella chiarezza e linearità delle sue decisioni, ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori delle mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità ad iniziative e ad affari, tuttoché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia ad ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o per le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della contaminazione ed il pericolo della interferenza; l’indipendenza del giudice è infine nella sua credibilità, che riesce a conquistare nel travaglio delle sue decisioni ed in ogni momento della sua attività».

Tratto da: robigreco.wordpress.com