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di Salvo Vitale
Ci sono tre aspetti che oggi hanno cambiato alcune impostazioni, ma che negli anni passati erano la tipica espressione delle articolazioni del potere, come si poteva cogliere, per esempio, nel seguito delle processioni religiose: 1) Il rapporto tra la chiesa e la mafia; 2) il rapporto tra la mafia e la chiesa; 3) il rapporto del mafioso con la religione (con Dio):

L’apparato istituzionale:
La chiesa è uno degli elementi base del potere (paesano) rappresentato dal sindaco, dal maresciallo, dal mafioso e dal prete:
- Il sindaco è il detentore del potere politico che egli riceve direttamente dai cittadini: in realtà il voto è la risultante di un reticolo sociale controllato dai ceti dominanti e, in particolare dal loro braccio armato, cioè dal mafioso; al di sopra di lui, sempre nello stesso circuito c’è il circuito politico di potere regionale e nazionale, di cui egli è espressione locale;
- Il maresciallo riceve il potere dallo stato: la tutela dell’ordine pubblico comporta un controllo del territorio che, in realtà, è nelle mani del mafioso: quindi spesso si instaura una sorta di patto tra il mafioso, che “mantiene l’ordine” e il responsabile delle forze dell’ordine che, in cambio, gli lascia mano libera nei suoi affari;
- Il prete riceve il “potere religioso da Dio, tramite i suoi ministri, e quindi deve rendere conto solo a lui: in realtà egli è una pedina dell’insieme, vive grazie ai contributi dei fedeli, organizza le feste e le iniziative grazie ai contributi anche dei mafiosi, è al corrente, tramite la confessione, di quel che succede sul territorio, dove svolge un ruolo di intermediazione con altri rappresentanti istituzionali. E’ il rappresentante di Dio in terra, quello che ha in mano gli strumenti per congiungere l’uomo con la divinità;
- Il mafioso non riceve il potere da nessuno: lo conquista grazie alla sua forza e alla sua capacità di usare la violenza per conservarlo e accrescerlo: tuttalpiù può rendere conto del suo operato al capocosca, al capobastone, alla commissione provinciale, alla cupola, così come il prete rende conto al vescovo, il maresciallo al capitano, il sindaco all’onorevole o al segretario di partito. Anche il mafioso è il rappresentante di Dio in terra: anzi, spesso è proprio Dio in terra, detentore di un potere che trascende ogni legge, che lo autorizza ad ogni delitto, spesso anche nel ruolo di giudice, dove la giustizia umana dei tribunali mostri i suoi limiti.
Ci troviamo così davanti a quattro piramidi tra di esse congiunte da camminamenti sotterranei.
La presenza di preti e religiosi all’interno delle cosche mafiose era stata rilevata sin dal 1838 dal procuratore del re a Trapani Pietro Ulloa.

La chiesa e la mafia: esempi
Il cardinale Ruffini: A un giornalista che gli chiedeva cos’è la mafia, il cardinale Ruffini nel 1960 rispose: “Mafia? A quel che ne so io è una marca di un detersivo”. Le parrocchie erano allora il centro pulsante delle campagne elettorali della D.C. e la barriera contro il “pericolo rosso” . Ruffini ribadì la sua posizione a Tina Anselmi, mandata in Sicilia da Aldo Moro, preoccupato di individuare possibili infiltrazioni mafiose nel suo partito: “Non so che cos’è questa mafia, ma con la DC non ha niente a che fare”. E allorché Paolo VI, dopo la strage di Ciaculli, chiese, tramite il card. Dell’Acqua, notizie, Ruffini ancora una volta rispose che la mafia era un’invenzione dei comunisti per fare campagna elettorale contro la D.C. Nulla di diverso rispetto alle attività criminali presenti nel resto d’Italia e d’Europa, ma un fenomeno amplificato dalla stampa e da ingannevoli trasposizioni e informazioni fatte da Tomasi di Lampedusa nel suo romanzo Il Gattopardo e dal sociologo Danilo Dolci, che propagandava nel mondo solo gli aspetti negativi dell’isola.
Caccamo, a due passi da Termini Imerese. Un prete, Teotista Panzeca, scrive al Cardinale Ruffini una arrabbiata lettera in cui si lamenta della persecuzione operata a suo dire dalla polizia nei confronti di suo fratello Giuseppe, boss di Caccamo, artefice delle molte vittorie elettorali della Democrazia Cristiana, inseguito da un mandato di cattura e vittima di una campagna diffamatoria orchestrata dai comunisti. In un rapporto dei carabinieri si legge che “il sindaco di Caccamo Cordone manteneva cordiali rapporti anche con l’arciprete del luogo don Teotista Panzeca.
Monreale. Contemporaneo di Ruffini e molto più intraprendente l’arcivescovo di Monreale mons. Filippi, capace di “mettere a posto” politici e mafiosi, grazie ai suoi appoggi, a cominciare da quello di Charles Poletti, comandante delle forze aeree americane, che, secondo credenza popolare, non avrebbe bombardato Monreale per un suo intervento. Nell’immediato dopoguerra riuscì a metter fine a una faida mafiosa a Monreale convocando i capifamiglia e imponendo loro di smetterla di sparare e uccidersi a vicenda.
Molte ombre sono rimaste sulla figura dell’ex arcivescovo di Monreale Salvatore Cassisa che, secondo mons. Giuseppe Governanti, ex presidente del tribunale ecclesiastico siciliano, avrebbe preso tangenti sui lavori di restauro del Duomo. Amico di Cassina e di altri personaggi “chiacchierati” di dubbia reputazione e suo successore nella carica di Gran Maestro dei Cavalieri del Santo Sepolcro, dei quali faceva parte anche Bruno Contrada.
Racalbuto: Non meno interessante la vicenda di Padre Giuseppe Russo, parroco di Racalmuto, il paese di Sciascia, che da giovane aveva alternato la tonaca di prete con la carriera di delinquente, ladro e assassino, terrore del il paese. Arrestato e allontanato per molti ani era tornato in paese grazie alle intercessioni dei notabili, che lo avevano rimesso nella sua parrocchia.
Partanna: Non una parola per la morte di Rita Atria venne detta da Don Calogero Russo, parroco di Partanna, anzi, commentando le interviste dei giornalisti fatte agli abitanti del paese e a lui stesso che l’aveva violentemente rifiutato, qualche settimana dopo diffuse un foglio in cui tra l’altro era scritto:”Hanno essi il diritto di pronunciare una sentenza d’infamia a un’intera cittadinanza soltanto al primo incontrato, che non parla perché 'non sa realmente' o perché non ha prove su quanto si vocifera”?
Palermo; Emblematica e inquietante la figura di un frate francescano, ospite del convento palermitano di Santa Maria di Gesù, Fra Giacinto, al secolo Stefano Castronovo, ospite dei salotti palermitani frequentati dal boss Paolino Bontade, amico di Luciano Leggio, ucciso nel 1980: nella sua “suite di sette stanze, all’interno del convento, arredata di tutto punto venne trovata una pistola p 38, regolarmente denunciata e la considerevole somma di 5.milioni di lire, a parte una considerevole scorta di liquori, biblioteca, televisore a colori col telecomando e quant’altro utile a rendere comoda la vita, a parte una collezione di frustini. “Il francescano era di casa nei palazzi del potere romano. Grande elettore democristiano, il suo cavallo vincente era Giovanni Gioia, il notabile sul quale confluivano i voti del clan di Tommaso Buscetta. Aveva esordito come capo-elettore sostenendo un altro DC d’eccellenza, Mario Fasino, futuro presidente della Regione siciliana. Poi era diventato fedelissimo di Salvo Lima, altro leader della corrente andreottiana in Sicilia, solo chiacchierato e solo sospettato di collusioni mafiose” (Nota: E.Mignosi: “Il Signore sia coi boss” pag. 79 Arbor Palermo 1993).
Partinico: un posto di riguardo merita Padre Agostino, anzi “Ustino”, Coppola, prima economo al seminario di Monreale, poi docente, poi parroco di Carini. Fratello di Domenico e Giacomo, noti mafiosi di Partinico e nipoti del boss Frank Coppola, anche lui acclamato socio onorario della FUCI di Partinico. Le cronache lo davano in ottimi rapporti con tutti i boss di allora, Luciano Liggio, Peppuccio Garda, Gaetano Badalamenti, Vito Ofria, Filippo Nania: implicato nei sequestri di persona di Cassina, di Rossi da Montelera, (per cui fu condannato a 15 anni), di Emilio Baroni, accusato di estorsione nei confronti di Francesco Randazzo, dal quale comprò la tenuta “Principessa Ganci”, già appartenuta al duca D’Aumale di Orleans, in contrada Zucco-Montelepre. Secondo Antonino Calderone era “punciutu”. Dopo la condanna è al carcere è stato sospeso a divinis e si è sposato con la ginecologa Caruana dalla quale ha avuto due figli. Proprio in quella tenuta è stato celebrato da Coppola, con l’assistenza di due suoi colleghi, il matrimonio di Totò Riina e di Ninetta Bagarella. Si sa che la cella dell’Ucciardone in cui venne rinchiuso, era come una sorta di salotto personale fornito e attrezzato di tutto.
Mazzarino: in un articolo sul Corriere Sciascia scrisse: “A parte i casi eclatanti credo che una tradizione di perversità, di delinquenza, di oscuri ricatti e ricettazioni, percorra la storia di certi conventi siciliani”. I frati di Mazzarino, sono uno dei tanti esempi di gente che, con la protezione della croce, avevano fatto del loro convento il centro di un giro di estorsioni. Frate Agrippino, Frà Carmelo, Frà Vittorio, Frà Felice, Frà Venanzio, padre Sebastiano, l’ortolano Carmelo Lo Bartolo.
Mussomeli: i fratelli Castiglione un prete e tre pastori di Mussomeli, agli inizi del secolo erano i padroni del paese. Singolare la posizione di Padre Carmelo Castiglione, che affermava: “i mafiosi vanno combattuti con le loro stesse armi. Quando si trovano davanti uno con gli attributi fanno marcia indietro. Sono prepotenti con chi non sa reagire. Mafiosi da due lire, ecco cosa sono. Se aspetti che ti aiuti la legge, stai fresco. Devi farti giustizia da solo. Amen”. (1913)
Santo Stefano della Quisquina: i frati del locale convento non esitarono a sparare sul vescovo di Agrigento mons. Peruzzo, che aveva scoperto che non erano angioletti;
Tagliavia: il convento era un ricettacolo di latitanti; con la complicità dei frati. Il superiore, padre Tantillo, venne arrestato, assieme ad altri confrati, per duplice omicidio.
Cinisi: la madre di Peppino Impastato, Felicia Bartolotta, raccontava che il parroco di Cinisi padre Cusumano tenne nascosto nella sua sacrestia il latitante mafioso Nino Badalamenti per sette mesi. In ogni caso, dalle registrazioni della trasmissione “Onda Pazza”, mandata in onda a Radio Aut da Peppino Impastato e dai suoi compagni, risulta che nel 1978 Tano Badalamenti, cugino di Nino, diede due milioni per i festeggiamenti in onore della “santa del Faro”, ovvero Santa Fara, protettrice del paese.

La svolta
1982: Una prima svolta la dà il cardinale Salvatore Pappalardo nel 1982, allorchè, ai funerali di Carlo Alberto dalla Chiesa pronuncia iil suo atto d’accusa nei confronti dello stato italiano, con la frase di Tito Livio: “Dum Romae consulitur Saguntum expugnatur”. E Sagunto è Palermo, lontana dal centro romano del potere, dove si ripetono parole senza prendere alcun provvedimento efficace. Qualche giorno prima del Natale dello stesso anno la mafia diede la sua risposta al Cardinale che si era spinto troppo avanti: alla messa organizzata dallo stesso presule alla cappella del carcere dell’Ucciardone non si presentò nessuno.
Ancora altri dieci anni tra silenzi, voci isolate, timide condanne e attività pastorali di vario tipo, sino al 9 maggio 1993, allorchè, dalla Valle dei templi Papa Giovanni Paolo II grida il suo terribile anatema contro la mafia: “Mafiosi, convertitevi. Un giorno verrà il giudizio di Dio e dovrete rendere conto delle vostre malefatte… Questo popolo talmente attaccato alla vita, un popolo che ama la vita, non può vivere sempre sotto la pressione della morte. Qui ci vuole la civiltà della vita. Nel nome di questo Cristo crocifisso risorto, di questo Cristo che è vita e verità, lo dico ai responsabili: convertitevi per amore di Dio”. Erano in centomila quel giorno, accorsi per commemorare Falcone e Borsellino, ma dimentichi che, proprio in quel giorno, il 9 maggio, era stato ucciso Peppino Impastato. Non è che i mafiosi si lasciassero spaventare molto dall’anatema, che tuttavia invece venne raccolto da molti religiosi ed è diventato una sorta di direttiva pastorale.
Erano appena passati quattro mesi quando venne ucciso padre Pino Puglisi, un prete mite, ma fermamente deciso nel cercare di cambiare volto all’apparato istituzionale mafioso che controllava la zona di Brancaccio e a dare un’indicazione diversa ai ragazzi che frequentavano la sua chiesa. L’anno dopo (19.3.1994) tocca a un altro prete di Casal di Principe, Giuseppe Diana, fatto oggetto, dopo l’omicidio, di una campagna di vergognosa diffamazione, secondo una tipica strategia mafiosa e camorrista, che tenta di uccidere non solo la persona, ma le suo idee. E da allora questo desiderio di liberazione e di emancipazione è diventato una scelta politica di personale rifiuto dell’oppressione da parte di chi vuole vivere parassitariamente sulle risorse del lavoro altrui e sul malaffare. Assieme a preti impegnati nel sociale e fermamente decisi a prendere le distanze dall’apparato mafioso in cui si trovano a lavorare, sono nate centinaia di associazioni d’ispirazione religiosa, che elaborano e gestiscono progetti educativi, che sono affidatarie di terreni e beni immobili confiscati ai mafiosi, che si sforzano di condurre attività economiche nel segno della legalità e nel rispetto delle regole del mondo del lavoro, in un panorama caratterizzato da dominanti forme di lavoro nero e di sfruttamento. Cito fra tutti don Luigi Ciotti.

Il mafioso cristiano
Esiste poi il complicato rapporto del mafioso con la religione. Nel covo di Pietro Aglieri, uno dei più sanguinari boss legato ai Corleonesi, venne trovato un crocifisso, una statua della Madonna, un’intera libreria di pubblicazioni delle edizioni San Paolo, con bibbie, biografie di santi, commenti e interpretazioni filosofiche di questioni religiose, come quelle del libro rinvenuto sul comodino della suora filosofa Edith Stein, “Introduzione al pensiero filosofico” e inoltre registrazioni di “Radio Evangelica” e “Telepace”. Ma destò più stupore la scoperta di una cappella privata, con sei panche, faretti per illuminare il crocifisso, fonte battesimale all’ingresso, ceri, drappi di velluto, dove andava a celebra r messa il frate carmelitano Mario Frittitta, arrestato per favoreggiamento, condannato in primo appello e poi assolto. Aglieri aveva studiato nel seminario di Monreale. La “serenità” di Aglieri, in rappporto alla sua coscienza di mafioso richiama un giudizio del giudice Scarpinato: “Il mafioso ha un rapporto con Dio che non è conflittuale perché il mediatore con Dio che lui stesso sceglie è espressione della sua stessa cultura".

Nel covo del padrino di Aglieri, Bernardo Provenzano, c’era un quadro dell’Ultima Cena, due quadretti della Madonna, diversi rosari , uno persino in bagno, tre bibbie, un calendario del 2000 con padre Pio, un piccolo presepe, un libricino intitolato “Pregate, pregate, pregate”, 91 santini vari di cui 73 tutti eguali, raffiguranti Cristo in croce con la scritta “Gesù io confido in Te”. A parte i commenti criptati nelle bibbie, quasi tutti i “pizzini” di Provenzano contenevano apprezzamenti religiosi, raccomandazioni di devozione, benedizioni e auguri in nome di Dio, al punto che ci si è chiesto se Provenzano usasse la religione come uno strumento che il patriarca assoluto può permettersi, avendo egli raggiunto rispetto agli altri la maggiore vicinanza con Dio, più o meno come il papa, o come espressione di un’atavica religiosità che costituisce una delle facce del modo di essere della sicilianità. Secondo uno sbrigativo giudizio di Andrea Camilleri “le sue invocazioni a Dio e alla Divina Provvidenza sono più scongiuri, parole magiche, frasi antijettatorie che preghiere autentiche”. La risposta di u zzu Binnu è affidata alle sue parole sgrammaticate: “In qualsiasi posto, o parte del mondo, mi trovo in qualsiasi ora io abbia a comunicare sia parole, opinioni, fatti, scritto, chiedere a Dio il suggerimento, la sua guida, la sua assistenza, affinchè con il suo volere possano giungere ordine per lui eseguirlo affin di Bene”.
La maggiore espressione di “conversione” religiosa è quella di Gaspare Spatuzza, 40 omicidi confessati, tra cui quello di Pino Puglisi: una ferocia pari all’intensità con cui ha intrapreso il cammino religioso: Alessandra Dino cita un episodio riportato da un collaboratore di giustizia: “Spatuzza con una mano mescolava con un bastone di legno i resti sciolti nell’acido di un giovane ladro appena ucciso, e con l’altra mangiava un panino acquistato con i soldi trovati in tasca alla vittima". Dopo l’arresto egli attraversa un travagliato periodo di presa di coscienza dei suoi delitti e comincia, con la collaborazione di alcuni religiosi la sua “conversione” profonda e, a dire dei giudici “sicuramente attendibile”, che lo porta a iscriversi al corso di teologia e addirittura a immedesimarsi in San Paolo, anche lui convertito al cristianesimo, dopo esserne stato un persecutore. Si è anche firmato Gaspare-Paolo.
Si potrebbe andare avanti all’infinito. Figure come quella di Michele Greco, detto “U Papa”, di cui si ricorda il sinistro invito al maxiprocesso: "Auguro a tutti voi la pace, perchè la pace è la tranquillità dello spirito e della coscienza, perchè per il compito che viaspetta la serenità è la base per giudicare. Non sono parole mie, ma le parole che nostro signore disse a Mosè…” si inquadrano tutte in questo contesto di pseudo-religiosità in cui il piccolo mafioso è tenuto a rendere conto prima di tutto all’organizzazione, nella quale è entrato con la cerimonia “religiosa” del giuramento col santino. I capi-mandamento, a meno di laceranti guerre di mafia, siedono nella Cupola, su cui aleggia la mafia, come Cristo e i suoi dodici apostoli, su cui aleggia lo Spirito Santo. In pochi si sono “emancipati” da questo percorso religioso per riconoscersi in quello spiccatamente criminale, senza alibi o pseudo-giustificazioni. Certamente laico è stato Totò Riina, malgrado il suo matrimonio religioso e un santino che gli venne trovato addosso al momento della cattura.
Ma il mafioso ateo per eccellenza è Matteo Messina Denaro: solo un lucido e spietato senso degli affari, dell’esecuzione dei delitti, con i quali si dice che potrebbe riempire un cimitero, della polivalenza della sua identità e della prudenza nell’evitare errori che potrebbero comprometterlo. Uno di questi parziali errori è stato quello di avere intrapreso una corrispondenza epistolare con l’ex sindaco di Castelvetrano Antonino Vaccarino, (Svetonio), amico del padre, che pare fosse un infiltrato dei servizi segreti. In una di queste lettere egli scrive: “In me in passato non c’è stato niente di soprannaturale e il supremo. Tutto è accaduto al di là della mia volontà. Poi ad un tratto mi accorsi che qualcosa dentro di me si era rotta. Mi resi conto di avere smarrito la mia fede. Mi sono convinto che dopo la vita c’è il nulla, e sto vivendo per come il fato mi ha destinato”. Messina Denaro, la cui cultura è di qualche gradino superiore a quella dei suoi precedenti padrini, ha compiuto l’ultimo inevitabile passaggio, quello di liberarsi del fardello della religione, ormai diventato inutile e inconciliabile con l’identità criminale della sua organizzazione. Si è scrollato della religione, così come la Chiesa si è scrollata, o ha cercato di farlo, dei mafiosi.

Nota: il presente scritto è solo un articolo giornalistico e non ha la pretesa di essere uno studio sociologico o storico di un così complesso fenomeno, già analizzato da illustri studiosi e teologi con analisi e ricerche puntuali, documentate e illuminanti. Cito tra tutte ”Il Vangelo e la lupara” di Augusto Cavadi, (Bologna Dehoniane 1994, “La mafia devota” di Alessandra Dino (Laterza 2008) e, più recentemente “L’eucaristia mafiosa” di Salvo Ognibene (Navarra 2014). Non citato quasi da nessuno, ma fonte romanzata di importanti notizie, poi riprese da altri, il libro di Enzo Mignosi “Il Signore sia coi boss” edizioni Arbor Palermo 1993.

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