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vajont c marco secchi getty imagesdi Roberto Bertoni
Cosa è rimasto della Valle del Vajont? Cosa è rimasto di Erto, di Longarone e degli altri comuni coinvolti dalla tragedia di cinquantacinque anni fa? Il monte Toc, da cui si distaccò il pezzo di montagna che crollò nel bacino idroelettrico, provocando una delle più grandi catastrofi del dopoguerra, è sempre lì: maestoso, imponente, inquietante, col suo carico di morte e distruzione, nel contesto di un’area depressa in cui ormai non è rimasta neanche la memoria.
Vajont, una storia di dolore e morte, di incuria e cupidigia. Una storia che arriva dritta all’anima e alle nostre coscienze ormai dimentiche di quella barbarie: molto più di un incidente, il frutto avvelenato di un modello di sviluppo sbagliato e pericoloso, irrispettoso dell’uomo e della natura, interessato unicamente al profitto e ad una gloria effimera, a scapito della vita delle persone, quasi duemila morti, e della salute e delle prospettive di una valle che da quel momento in poi non è stata più la stessa.
Parlare della tragedia del Vajont significa, dunque, anche ricordare le coraggiose denunce di Tina Merlin, cronista dell’Unità che venne irrisa e subì ogni sorta di angheria per aver denunciato l’insostenibilità di quell’opera. Non venne ascoltata né, tantomeno, creduta, in un’Italia ancora abbagliata dalle luci del boom economico, da un sogno di libertà e di emancipazione sociale che si stava trasformando in realtà, dalle opportunità offerte dalla società del benessere e dalle conquiste democratiche e civili che progressivamente venivano raggiunte di anno in anno.
Vajont, ore 22,39: da quel momento in poi fu l’abisso. E il dramma nel dramma fu che la diga non crollò, rimanendo come un monumento alla follia e agli eccessi dell’uomo, come un simbolo di assurdità, come una piramide dello sfascio, della mania di grandezza che si trasforma in dramma e dell’incuria nei confronti del paesaggio e del territorio.
Oggi, ad oltre mezzo secolo di distanza, possiamo asserire che quella della diga del Vajont sia stata una premonizione, il primo segnale che l’Italia stesse cambiando in peggio, abbracciando progressivamente le logiche che l’hanno poi condotta nel baratro: una voragine etica, prima ancora che economica e materiale, di cui il ponte di Genova costituisce solo l’ultimo episodio in ordine cronologico. E altri temo che seguiranno.

Tratto da: articolo21.org

Foto © Marco Secchi/Getty Images

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