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vajont c ansaAcqua, soldi e complicità: la diga maledetta
di Mattia Fossati
9 ottobre 1963, ore 22:39. Dal Monte Toc si stacca una frana di 260 milioni di metri cubi di roccia che precipita nel bacino artificiale del Vajont sollevando un’onda di oltre 200 metri d’altezza. Una massa indicibile di acqua che oltrepassa la diga e casca come un Niagara sul fondovalle spazzando via cinque paesi, Longarone, Pirago, Rivalta, Codissago, Maè. 2000 i morti, alcuni dei quali mai ritrovati.
È la più grande tragedia civile mai avvenuta in Italia. Una tragedia prevista e troppo spesso dimenticata.
La storia parte negli anni ’20, quando la veneziana Sade, una delle più importanti società idroelettriche italiane, individua un sito perfetto per ospitare un nuovo lago artificiale. È una profonda gola nelle Prealpi a confine tra Veneto e Friuli: la valle del Vajont, dal nome del torrente che bagna la vallata. La nuova struttura serviva alla compagnia della Serenissima come bacino di riserva, una sorta di salvadanaio dal quale attingere nei periodi di siccità del fiume Piave che conferiva acqua a tutti gli altri impianti veneti.
58 milioni di metri cubi doveva essere la capacità iniziale del serbatoio del Vajont protetti da una diga alta 200 metri incastonata tra i Monti Toc e Salta.
Con l’avvento al potere del fascismo in Italia, la Sade ha la strada spianata. Il proprietario della società, Giuseppe Volpi Conte di Misurata, riesce a strappare un posto nel governo Mussolini come ministro delle Finanze e come uno dei suoi primi atti riesce a convincere il Duce a varare una legge che conferisce finanziamenti del 50% a fondo perduto ai costruttori di nuovi impianti idroelettrici, quindi anche alla sua società. Il progetto per la costruzione della diga viene presentato nel 1940 però verrà approvato dalla Quarta commissione dei lavori pubblici solo il 15 settembre 1943 con l’Italia nel caos e senza neanche aver raggiunto il numero legale per la votazione.
Ed è in questo modo truffaldino che la Sade, con la caduta del regime e il trionfo della Repubblica, riesce ad ottenere il beneplacito per iniziare l’edificazione dell’impianto. La società veneziana, da quando negli anni Cinquanta apre il cantiere nella valle, crea non pochi problemi agli abitanti di Erto e Casso, il paese situato sulla punta del monte Toc. In primis, espropria ai contadini i terreni sui versanti delle due montagne pagandoli a prezzi stracciati oppure, per chi non cede alle offerte in denaro, applica la vendita forzosa. Inoltre spinge in avanti i lavori di costruzione della diga anche se le autorizzazioni ministeriali non sono ancora state concesse. “Tanto arriveranno” – dicevano gli operai al cantiere.
I lavori procedono senza sosta ma nessuno tiene in considerazione che l’unica perizia effettuata sulle sponde del serbatoio risaliva al 1937 a firma dell’esperto geologo Giorgio Dal Piaz. Nessuno dal Ministero dei lavori pubblici va a controllare il procedere dei lavori al Vajont.
Ci vanno solo i membri della commissione di collaudo nominata dal ministero democristiano Togni nel 1959. Però non obiettano nulla e addirittura spacciano i dati tecnici forniti dalla Sade come loro relazione. Risultato? Lo Stato stacca un altro assegno a fondo perduto per la diga del Vajont.
Le cose, da quel momento, inizieranno a precipitare. Nella diga di Pontesei, a pochi chilometri da quella del Vajont, i geologi notano delle fessurazioni sulle sponte del lago e constatano lo scivolamento in avanti di uno dei versanti della montagna. Si decide così di abbassare il livello d’acqua del serbatoio artificiale per evitare che in caso di frana questa potesse tracimare scavalcando la diga. Accade però un fatto imprevisto. Più tolgono acqua e più la frana scivola in avanti.
Il 22 marzo 1959 la sponda cede e un’onda di dieci metri travolge Arcangelo Tiziano, il custode che stava monitorando l’attività del lago. Non verrà mai ritrovato.
Lo stesso anno dell’incidente a Pontesei, la diga del Vajont è ancora in costruzione ma la Sade spinge per effettuare già le prime prove d’invaso, cioè iniziare a riempire d’acqua il serbatoio. Man mano che il livello del bacino sale, il monte Toc inizia a scuotersi, a provocare dei tonfi sordi e una grossa crepa si crea nelle zone vicine alla vetta della montagna. Sono gli stessi sintomi che aveva avuto la diga di Pontesei. Un sentore mette in allarme più di tutti gli altri. Il 4 aprile 1960 un costone del versante della montagna piomba nelle acque del lago del Vajont. È un segnale: un modo per dire che anche sul Toc c’è una frana enorme.
Lo certifica anche Leopold Muller, geologo della scuola di Salisburgo, chiamato dai progettisti della diga per una nuova relazione geologica sulle sponde del bacino. Nonostante l’allarmante relazione dello specialista austriaco, le prove d’invaso continuano senza sosta. Motivo? È il 1961 ed è arrivata la nazionalizzazione delle industrie idroelettriche quindi la Sade deve cedere l’impianto all’Enel ma, per poterlo liquidare al miglior prezzo, deve completare il collaudo.
L’ultimo invaso è fatale: la montagna cede centimetri su centimetri giorno dopo giorno. La Sade, tenendo all’oscuro l’Enel, fa anche diverse prove della caduta della frana su un modellino in scala vicino a Vittorio Veneto. Non lo fa per vedere cosa succederebbe ai paesi della vallata in caso di un cedimento della diga. Fa le prove di una catastrofe per vedere le conseguenze dell’acqua sulla sua diga.
Per vedere cioè se l’impianto sarebbe utilizzabile in futuro, anche dopo la frana. Sapevano quindi quello che stava succedendo ma non hanno fatto nulla.
Non c’è più tempo. Lo slittamento della sponda del lago è inarrestabile così viene deciso di abbassare il livello del serbatoio ma la frana accelera di colpo. Più tolgono acqua e più la frana viene giù, esattamente come a Pontesei.
La mattina del 10 ottobre 1963, la valle del Vajont è solo un cumulo di fango e acqua. Le popolazioni vengono sgomberate dall’esercito e ricevono un sussidio per riuscire a sostenersi o per ubriacarsi per non pensare ai familiari persi nella strage. Chi cerca un lavoro perde il sussidio.
I supervisori della Sade Alberico Biadene e Mario Pancini vengono rinviati a giudizio per disastro colposo aggravato dalla previsione dell’evento. Pancini si suicida per la vergogna il 28 novembre 1968. Biadene venne condannato a cinque anni, di cui tre condonati, per non aver avvisato la popolazione dell’imminente disastro.
55 anni sono passati da quella notte e ancora la popolazione attende giustizia. O almeno delle scuse.

Foto © Ansa

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