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borrometi paolo c ansaIntervista
di Marina de Ghantuz Cubbe 
Ho deciso di giocarmi la mia libertà. Ti verro a prendere e ti accecherò con le mie dita. Anche che mi arrestano ci sarà chi ti verrà a trovare”. Lo scrive pubblicamente Venerando Lauretta, sfruttando l’effetto megafono garantito da Facebook. Il reggente del clan siciliano Stidda impartisce l’ordine di uccidere, sta lanciando un segnale, indica come muoversi e cosa fare nei confronti del giornalista Paolo Borrometi. Gli inquirenti parlano di almeno 150 affiliati al clan solo nel territorio ragusano, poi c’è la manovalanza, tutti quelli che dietro pagamento bruciano automobili, danno fuoco ad aziende agricole, compiono qualsiasi tipo di atto intimidatorio. A cavallo delle province di Ragusa, Caltanissetta e Agrigento l’organizzazione mafiosa domina il territorio da vent’anni, ha tenuto testa a Cosa Nostra e come Cosa Nostra ha una struttura verticistica. Le decisioni però, vengono prese molto più velocemente perché non devono passare attraverso la cupola interprovinciale. Chi comanda ancora oggi è Filippo Ventura con accano il fratello Gian Battista, entrambi attualmente in carcere. Intanto, chi comanda essendo in stato di libertà, è proprio Vincenzo Lauretta. Paolo Borrometi, giornalista precario, direttore del sito laspia.it, garante Legalità per Articolo21, ha raccontato con la forza della denuncia quello che accadeva nel suo territorio. Grazie alle sue inchieste, i traffici illeciti all’interno del mercato ortofrutticolo di Vittoria sono stati scoperti e interrotti. Le minacce sono arrivate attraverso il mezzo di diffusione delle informazioni più potente che sia mai esistito: internet. Non si perdono nella rete quelle parole scritte. Sono veri e propri ordini: il modo più immediato di sguinzagliare affiliati e manovalanza e di far capire chi è che comanda.

Venerdì 13 ottobre testimonierai al processo contro Venerando Lauretta per le minacce nei tuoi confronti ricevute su Facebook. A che punto siamo della vicenda che ti vede da anni, tuo malgrado coinvolto?
Siamo al punto della giustizia. Ho fatto il conto: sono quasi 150 le denunce che ho fatto per minacce ricevute, la stragrande maggioranza minacce di morte. Il processo al capomafia di Vittoria si è concluso con la condanna. In questo è a giudizio Lauretta, già condannato per mafia e attualmente agli arresti domiciliari con l’accusa di aver influenzato le ultime elezioni amministrative dello scorso anno. Per avere giustizia bisogna aspettare le tappe della giustizia, lo so bene. Andrò a fare il mio dovere, a ribadire quali sono state le minacce di morte che ho ricevuto. Metterò soprattutto in evidenza il motivo per cui mi sono state rivolte quelle minacce: perché ho fatto il mio lavoro.

Pochi mesi fa, il furto nella tua abitazione. Qual è stata la reazione a quell’atto intimidatorio?
Quell’episodio, probabilmente riconducibile a tutti quei clan che in questi anni hanno cercato di spaventarmi. Io continuo a fare solo e unicamente il mio lavoro. Lo abbiamo detto, lo ribadiamo: nessuno di noi vuole essere un eroe, noi vogliamo solo fare il nostro lavoro e dovere. Un giornalista che vede un fatto e non lo denuncia non è un buon cittadino e non informa gli altri cittadini. Il giornalista ha il dovere di informare: io, come tanti altri, ho solo denunciato quello che avevo visto e sentito. Quindi la reazione non può che essere continuare a mettere serietà e dedizione in quello che è il lavoro che io sognavo da ragazzo e che continua, nonostante tutto, ad appassionarmi ancora molto.

Alla luce della tua esperienza e come garante Legalità per Articolo21, quanto peso pensi abbia il linguaggio usato sui social network?
Sostengo da tempo la proposta avanzata dall’FNSI più volte ha fatto riferimento al fatto che sarebbe necessario un nuovo reato che riguarda la molestia nel senso di “intralcio all’informazione”, a prescindere dal mezzo utilizzato. Per quanto riguarda le minacce su Facebook: ci sono persone che le reputano minacce di serie B. Io sono stato aggredito, ho una menomazione alla spalla, ho ricevuto proiettili, mi hanno bruciato la porta di casa. Ma le minacce su un social network rimangono le peggiori e questo perché attraverso Facebook si raggiungono una moltitudine di persone. La pagina della spia.it sulla quale sono comparse le minacce è vista, in quel lembo di terra e non solo, da centinai di migliaia di persone. L’effetto è moltiplicatore e il reggente sta dicendo due cose: non ragiona da solo, ma dietro alle sue parole c’è tutta la forza intimidatrice del clan e dei suoi affiliati. Inoltre, sta lanciando un invito, un ordine scritto pubblicamente. Le minacce su Facebook sono probabilmente più gravi per l’effetto che si può avere rispetto ad una lettera o ad un proiettile inviato solo a me.

Qual è il significato di avere accanto l’FNSI, l’Ordine regionale e nazionale, il sostegno di Vittorio Di Trapani in rappresentanza dell’USIGRai?
Potrebbero apparire come sigle sterili quelle dell’FNSI, dell’Odg o dell’USIGRai. Non è così perché mentre per i mafiosi è normali stare in un’aula di tribunale, per noi giornalisti è emotivamente difficile stare lì mentre un mafioso ti guarda, mentre tu lo guardi e lo accusi. È fondamentale la “scorta mediatica” che, pur avendo un’accezione più ampia, in questo caso consiste proprio nella presenza e nel sostegno dei colleghi e della Federazione che proprio nei miei processi si è costituita parte civile per la prima volta. Sono grato per l’attenzione non solo nei miei confronti, ma anche verso tutti quei colleghi che hanno chiesto di esserci. Sono decine i casi in cui la Federazione ha deciso di schierarsi: sapere che in quell’aula ci saranno anche loro, rappresentati da Beppe Giulietti, sapere che la Rai ha deciso di accendere i riflettori su un giornalista precario, fa bene a me e a tutti quelli che si potrebbero trovare in questa situazione e che sapranno di avere un ombrello affettivo che li protegge.

Tratto daarticolo21.org

Foto © Ansa

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