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2La fotografa: “Voglio avere la speranza che le cose che ci attendono siano migliori
di Davide de Bari - Foto
Nella serata di domenica scorsa si è svolto, in piazza delle Monighette a Jesi, l’incontro con la fotografa palermitana, Letizia Battaglia. Evento organizzato dalle Agende Rosse della provincia di Ancona con la collaborazione di Hemingway Cafè. Nei giorni precedenti la fotografa pluripremiata aveva partecipato ad un workshop fotografico organizzato dall’associazione culturale Magazzino d’Arte Jesi in collaborazione con Hemingway Cafè. 
Letizia Battaglia, fotografa che ha immortalato trent’anni di mafia siciliana, iniziò la sua carriera nel 1970 a Milano. Dopo tre anni tornò a Palermo e cominciò a lavorare per il quotidiano “L’Ora”: “Cominciammo subito a sperimentare cosa significasse fotografare a Palermo” ha detto la fotografa. Erano già iniziate, infatti, le prime chiamate per recarsi sui luoghi degli omicidi e Letizia si trovò ben presto davanti al primo cadavere da fotografare: “Non è raccontabile cosa significa trovarsi per lavoro davanti a un essere inanimato, che spesso era una brava persona; poi anche se era un mafioso restava sempre un uomo morto. Dieci minuti prima che arrivassimo noi, qualcuno aveva puntato la sua arma contro un essere vivo. Una realtà molto dura…”.
Letizia ha lavorato per il quotidiano “L’Ora” per 18 anni. Anni in cui “ho visto morire le persone migliori della mia vita”, ha detto. La fotografa ha ricordato le vicissitudini di uomini come Rocco Chinnici che andava nelle scuole per parlare di mafia e la figura del capo della mobile di Palermo, Boris Giuliano, che fu tra i primi a seguire le indagini sul traffico di stupefacenti con l’America. “Un uomo buono” ha detto Letizia, tanto che, nel giorno del suo omicidio, non volle fotografare il corpo ammazzato. E così fu anche per Giovanni Falcone all’indomani della strage di Capaci: “Chiamai il mio compagno, Franco Zecchin e mia figlia Shobha, entrambi fotografi, e dissi a loro di andare - ha raccontato Letizia - Io non andai a fotografare Falcone ammazzato, non volevo vederlo morto”. La fotografa ha continuato a raccontare la sua esperienza passando per la strage di Via d’Amelio, in cui persero la vita Paolo Borsellino, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli e Walter Eddie Cosina, per arrivare all’omicidio di Padre Puglisi, “un prete semplice” come lo ha definito Letizia Battaglia, un uomo che cercava “di far arrivare i ragazzi all’interno della chiesa, non per pregare, ma per giocare e stare insieme e tenerli lontano dalla mafia”.
Molte sono le riflessioni che scaturiscono dal racconto di Letizia Battaglia su uomini che hanno fatto la storia della lotta alla mafia. Una lotta necessaria, perché come ha detto Letizia: “E’ un qualcosa che ti riscatta dalla vergogna, di tutto quello che è successo, perché è una vergogna che in questo Paese ci siano le mafie che comandano”.


Nel 1979 Letizia Battaglia fu tra i fondatori del centro di documentazione “Giuseppe Impastato” e a Jesi ha raccontato della prima “grande” mostra chiamata ‘Mafia oggi’: “Con questa mostra arrivammo fino a Corleone ed eravamo contenti di mettere le nostre foto in un luogo di mafia”.
Dopo aver raccontato la Palermo di quegli anni, la fotografa ha voluto fare un forte richiamo, affinché uomini come Falcone e Borsellino non debbano subire la loro stessa sorte: “A Palermo c’è un uomo semplice, buono che si chiama Nino Di Matteo ed è un magistrato che non vive più una vita. Un giudice che sta processando lo Stato, parti di esso che sono stati in trattativa con la mafia. Di Matteo è condannato a morte e molti pentiti hanno rivelato che il tritolo è già arrivato a Palermo. […] Chi fa il proprio dovere in Sicilia o in altre parti d’Italia non è amato, perché rompe le scatole e disturba”.
Durante l’incontro è intervenuto il vice direttore di ANTIMAFIADuemila, Lorenzo Baldo, che ha parlato dei vari depistaggi, da parte di uomini dello Stato, nelle indagini sulle stragi, e anche della lotta dei famigliari delle vittime per far venire a galla la verità, come l’omicidio dell’urologo barcellonese, Attilio Manca.
Infine è anche intervenuto uno dei ciclisti della ciclostaffetta, Ivan Colombo, che lo scorso luglio, in ricordo del venticinquesimo anniversario della strage di Via d’Amelio, ha avuto il compito “simbolico” di riportare l’agenda rossa, misteriosamente trafugata dalla borsa del giudice Paolo Borsellino, alla famiglia Borsellino. Colombo ha raccontato la nascita del progetto e si è soffermato sul simbolo della manifestazione (una freccia che indica un cerchio), lo stesso dell’associazione “L’Ora Blu” che ha promosso l’iniziativa: “Salvatore crede molto nei simboli. Lui ha visto subito qualcosa in quello del progetto. Infatti ci raccontò che Paolo aveva un’altra agenda in cui segnava tutti gli spostamenti, incontri e le spese. Annotava i suoi impegni con dei simboli. Uno di questi era una freccia con un cerchio che lui scriveva quando doveva tornare a casa”.

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