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donatelli saradi Sara Donatelli
La giornata di oggi passerà alla storia come la data in cui è morto Bernardo Provenzano. Le cui mani restano impregnate di sangue, la coscienza macchiata da orrore e la cui bocca è rimasta chiusa prima, e probabilmente  messa a tacere poi. Questa morte ha sollevato molte reazioni. Molte e diverse. Dal “pezzo di merda”, ad “uno in meno”, passando per “è campato troppo” e “buon viaggio nell’inferno”. Nessuno vuole sindacare queste reazioni che però, a mio parere, sono giustificabili fino ad un certo punto. Chi combatte la mafia, chi basa la propria vita sulla lotta a questo male (che incurabile non è, ma è solo duro a morire) dovrebbe forse comprendere quello che è il proprio ruolo all’interno di una società che, troppe volte, è incapace di riconoscere non tanto la mafia in sé, quanto ciò in cui essa si è trasformata e, soprattutto, quello che è il sistema che, da più di cento anni, la tiene in vita. Un sistema dai contorni sfumati, una zona grigia che si allarga sempre di più, andando a colpire anche (dolorosa realtà, ma realtà è) il mondo dell’antimafia che, forse, per troppo tempo ha preferito ritenersi duro e puro, ignorando le proprie debolezze e giustificando i propri errori. Questa riflessione, sia chiaro, non vuole essere un attacco a nessuno. Ma vuole invitare ad una riflessione su quelle che sono le responsabilità di un paese che ha permesso una latitanza durata decenni ad un boss come Bernardo Provenzano, che tuttavia è rimasto al 41bis seppur in stato vegetativo. Questa riflessione si estende dunque a quelli che sono i limiti entro i quali si può parlare di dignità umana, la forza che l’accettazione di tale dignità implica (anche se si tratta di un boss sanguinario), e la responsabilità di tutti quei cittadini che in questa società cercano, in modo variegato, di sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema della criminalità organizzata. Nessun parente delle innumerevoli vittime di mafia, da ciò che si legge sui giornali o sui social media, ha espresso soddisfazione o, ancor peggio, gioia alla notizia della morte del boss. Quanto il rinnovo del proprio dolore, una rabbia mai sopita contro quelle istituzioni che troppo spesso hanno abbattuto “quel muro contro muro” con la mafia. Resta una riflessione su come sia stato possibile che Totò Riina sia stato arrestato a pochi mesi dalle stragi del 92, mentre Bernardo Provenzano addirittura 14 anni dopo. In tutto questo, di Matteo Messina Denaro nemmeno l’ombra. Resta la riflessione su quella che è la violenza, sia essa verbale, fisica o emotiva. Resta la riflessione su quelli che sono, oggi, i sentimenti provati da tutti coloro che hanno perso un pezzo della propria famiglia per mano mafiosa,. E resta la loro dignità di fronte al dolore e di fronte a notizie come quella di oggi. Resta il fatto che la mafia è una montagna di merda. Ma resta il fatto che esiste sempre un limite. Per quanto facile e comodo da superare. Un limite, per quanto difficile da rintracciare e identificare, c’è anche quando a morire è un mafioso. Perché chi combatte la violenza, dovrebbe far in modo di restare fedele (per quanto difficile) a ciò che il buonsenso suggerisce. E, in ultima analisi, questa breve riflessione si conclude con una domanda: è più facile esultare per la morte di un mafioso, o ribellarsi a quel sistema (politico, economico, sociale) che ha permesso a quell’uomo di essere un mafioso e di porre fine a tante vite?

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