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collusi libro dimatteoUn dipinto a tinte fosche degli ultimi decenni italiani
di Mariagabriella Losacco*
Il 30 marzo, grazie all’associazione culturale “gens nova” (impegnata da anni nella divulgazione di una cultura giuridica non astratta, ma concreta e tangibile), presso l’Ateneo barese, nella sala degli affreschi, è stato gradito ospite il PM Di Matteo per fornirci una panoramica dello scenario attuale del nostro Paese nei riguardi del tema delle associazioni di tipo mafioso e delle aderenze criminali, che ne costituiscono il “naturale” diramarsi patologico del fenomeno. Per l’occasione la sala era gremita confermando un forte segnale di speranza e presa di coscienza della popolazione che vuole e può solo contare sul rispetto delle leggi e delle regole, benchè, ancora una volta in presenza del Dott. Di Matteo, non si notassero presenze istituzionali neanche appartenenti agli Enti territoriali.
In apertura, come di consueto, dopo i rituali e sentiti ringraziamenti, rivolti in particolare alle forze dell’ordine, l’Illustre ospite ha ricordato alla platea che il ruolo della polizia, del magistrato, o del funzionario di prefettura è anzitutto un compito di servizio verso l’intera Nazione e verso i più deboli ed indifesi, altrimenti non solo si tradirebbero i principi e gli ideali su cui fonda la nostra Repubblica, ma verrebbe meno il senso, la ragione, la causa della funzione stessa da essi svolta. Dunque vi è stata l’esortazione al dialogo sul tema delle mafie al fine di sensibilizzare alla lotta ardua che da anni flagella il nostro Paese, specificando che la mafia non è più tanto quella del braccio armato (Riina, Bagarella, Brusca, Schiavone) delle stragi (indubbiamente ancora esistente e da contrastare), ma quella più raffinata e complessa anche da smascherare e che opera giochi di potere. Quella che vede il dilagare delle collusioni tra mafia e tessuto sociale e produttivo, con la complicità di una certa inconsapevolezza di Stato ed Istituzioni sempre più timide ed assenti, continua a costituire un concreto e reale pericolo per la Nazione e per ciascun cittadino per le rovinose ripercussioni, non solo sul fronte della pubblica sicurezza, bensì anche e soprattutto sulla vita quotidiana e sul benessere dei cittadini. Lo Stato dovrebbe avere più coraggio nel recidere certi rapporti tra organizzazioni mafiose e centri di potere. Ciò che della mafia bisogna temere in questo contesto così incerto nel quale siamo immersi, è il dilagare del “metodo mafioso” basato sulla forza di intimidazione che induce alla coercizione ed al silenzio dinanzi ad episodi di soprusi e criminalità diffusa. Un metodo che, senza bisogno che si giunga a tali estreme conseguenze, viene ad essere adottato ed adoperato da molta gente ogni qualvolta non si adottino comportamenti trasparenti al fine di danneggiare od ottenere ingiusti vantaggi a discapito di altri.
Per sognare di vincere la guerra contro queste forme di criminalità subdole, bisogna operare un vero salto di qualità poiché non sono le battaglie che contano maggiormente, ma la guerra e le Istituzioni dovrebbero mostrare coraggio! Come esempio citava Salvatore Cancemi, il primo collaboratore di giustizia che ha ascoltato nei suoi 24 anni di carriera, il quale parlando dei fatti compiuti con Riina era solito dire che senza le aderenze ed i rapporti con la politica, le istituzioni, il mondo economico e bancario, Cosa Nostra siciliana sarebbe stata una semplice banda di sciacalli facilmente debellabile con una azione repressiva e dissuasiva dello Stato, della Magistratura e delle forze dell’ordine. Loro hanno questa consapevolezza nel loro DNA. Hanno questa volontà smaniosa e spasmodica del contatto col potere al fine di garantirsi protezione e appoggio per il compimento di attività illecite. E così la violenza prevale sulla volontà e sull’impegno di chi vuole raggiungere i propri obiettivi secondo giustizia e attraverso il rispetto delle regole.
A seguito di questa premessa è stata ricordata Rita Atria, ed il suo gesto estremo a seguito della morte di Paolo Borsellino, perché occorre farci tutti un autoesame di coscienza. E ancora Rocco Chinnici, primo caduto a causa delle autobombe quando il PM era ancora uno studente universitario. Il primo ad aver capito quali fossero i legami tra le grandi organizzazioni, la politica, l’alta finanza, così vale la pena oggi, a distanza di tanti anni, di capire l’importanza del suo ruolo su questi temi ancora tragicamente attuali.
Quando era in vita nell’81, insieme anche a Falcone, venne chiamato dal Pres. Corte d’Appello di Palermo, il quale gli disse che stavano rovinando l’economia siciliana. Aggiunse che il giudice istruttore non ha mai scoperto niente e non doveva scoprire niente. In particolare Falcone stava rovinando l’economia palermitana doveva essere impegnato in “processetti” tali da non consentirgli di occuparsi delle indagini di mafia. Quei pochi uomini che si occupavano di queste cose a Palermo venivano considerati una anomalia, dei fastidi, definiti giudici sceriffi, politicizzati o comunisti. Venivano visti come i protagonisti dell’antimafia.
Qualcuno finge di ricordarli mentre non ha neanche il pudore di ammettere che mentre erano in vita li attaccava. Si sa poco dei processi di mafia e dei rapporti collusivi stato-mafia perché in questo momento non è ritenuto opportuno parlarne. L’input per le stragi dato a Riina non è solo un fatto di mafia, ma come emerso nelle indagini ed accertato nella sentenza, è un fatto maturato in un ambiente non esclusivamente mafioso. E’ stato appurato che i due cugini Salvo nel 1982 chiesero a Riina di eliminare Chinnici poiché aveva scoperto in loro l’anello di collegamento tra gli ambienti criminali e la DC. Gli omicidi infatti sono sempre avvenuti quando Cosa Nostra capiva che vi erano ostacoli sul percorso di chi li appoggiava politicamente, in caso di convergenza di interessi con la politica, o in caso di divergenza di interessi che rendeva opportuno eliminare alcuni problemi al fine di poter raggiungere lo scopo principale. Il rapporto della mafia col potere è stato decisivo anche se a livelli diversi.
Il PM a chiusura della prima parte dell’intervento si è soffermato sul metodo utilizzato per informare l’opinione pubblica sulle più recenti e note sentenze in fatto di mafia, passate in malo modo attraverso i media. Le sentenze sono banalizzate e stravolte, mentre solo chi sa dove andarle a cercare e può accedervi sa davvero quale ruolo abbiano giocato personaggi come Dell’Utri. Pochi sanno che quest’ultimo ha avuto un ruolo determinante per il mantenimento del vincolo associativo ed il perseguimento degli scopi mafiosi sia pur rimanendo estraneo all’associazione e non partecipandovi come affiliato.
di matteo verticale c paolo bassaniPurtroppo si riscontra che molta gente non mafiosa è restata indifferente, tanta gente non amica dei  mafiosi ha preferito voltarsi dall’altra parte e dire: “io non sto con i mafiosi, né con i non mafiosi”, ha adottato un ruolo neutrale. Dove la neutralità è stato il terreno fertile per la crescita e la diffusione del fenomeno criminale. Contro questa indifferenza ci si può scagliare e ci si deve scagliare con la forza della volontà e dell’informazione. Bisogna ritrovare la memoria sulla storia italiana contemporanea e sui fatti criminosi che hanno cambiato la storia del Paese.
Come esempio del modo mediante il quale classicamente si creano intrecci tra mafia-tessuto produttivo-Stato si è ricordata l’infiltrazione mafiosa in materia di appalti pubblici mediante anche il racconto delle inchieste di Ninni Cassarà.
Il relatore ha poi continuato ad enumerare rapidamente molte vicende sanguinose e di mafia vissute nei decenni passati e generate grazie alla collusione politica con la mafia, perché bisogna conservare la memoria di questi fatti perché non si ripetano e si preservi la democrazia ed i suoi valori. Infatti, si informa troppo poco a riguardo, mentre si viene sempre bombardati attraverso i media da fatti di banale cronaca nera che ben poca rilevanza pubblica hanno.
Per concludere l’incontro è stato lasciato ampio spazio alle domande della platea e degli organizzatori dell’evento. Certamente alcune questioni sollevate hanno avuto più interesse di altre, ma già il fatto stesso di aver potuto avere anche a Bari (città che ancora, contrariamente alle altre, non si è espressa su un odg riguardante il sostegno al PM della procura di Palermo) una occasione di dialogo e di apertura verso questi temi, così vicini a noi e così delicati, costituisce sicuramente un primo passo verso un cambiamento culturale e sociale più concreto ed insieme un tentativo ed una speranza di costruzione di una città e di un futuro migliore. Il prossimo passo allora sarà continuare a discutere in modo più approfondito e con più attenzione le vicende giudiziarie in corso al fine di capire quali fossero state e quali siano le reali ragioni che inducono ad un perenne ritardo della giustizia e ad un continuo ostacolare i magistrati che con tenacia si occupano di questi problemi.
Perché avviene tutto questo? Questa è la domanda fondamentale. Non è certo vero che non sia stato fatto nulla, ma è certo che la mafia non è affatto sconfitta, ma continua ad intessere rapporti e relazioni per i propri scopi grazie al silenzio della stampa e della politica, ma anche per la colpevolezza di tutti coloro che “antidoverosamente” si sono tirati indietro. E ancora bisogna chiedersi perché una procura che ha agito correttamente e secondo legge deve essere messa a tacere e bloccata motivando effimeramente che non abbia agito secondo criteri di opportunità politica. Una magistratura che agisca piegando la testa davanti a criteri di opportunità politica sarebbe schiava della politica e mero strumento manipolabile da essa, mentre sarebbe auspicabile una azione congiunta nell’ottica del perseguimento della giustizia e della verità.

* Agende rosse Prov. di Bari

Foto © Paolo Bassani

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