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battaglia letizia int 2016Intervista a Letizia Battaglia
di Daniela Gambino
“Ho sempre pensato - spiega - che la fotografia avesse attinenza con me, con la mia vita, umori, amori, figlie, nipoti e amanti e con il pane che mi guadagnavo, nessuna apparenza ma tutta sostanza”.

Palermo deve tanto a Letizia Battaglia. Deve una testimonianza, un’arte, deve una possibilità: ecco cosa crea una donna, nata e cresciuta in un mondo di uomini, di mafie, di preconcetti. Lei si schermisce e lo fa anche con me. La casa dà su un piccolo terrazzo e Letizia mi ascolta con i suoi occhi che sorridono, i suoi occhi che hanno guardato attraverso mille obiettivi e mi chiede come sto, cosa faccio adesso. Quando l’ho conosciuta avevo poco più di vent’anni.  La guardavo e pensavo, visto? Si può fare. Si può essere interi, bellissimi, dire come stanno le cose, avere consapevolezza di sè. Sì, anche con una punta di tristezza e di malinconia, senza paura di come si sta. Per questo ci chiediamo come viviamo adesso e che progetti abbiamo. Perché la vittoria è continuare a ripartire. Continuare a tessere relazioni e avere voglia di parlarne.

Letizia racconta questo, mette in scena la sua anima ferita, la sua anima risorta, la sua anima che ricerca, tra le pieghe di questa città, eternamente sospesa tra miseria e nobiltà. Eppure questa donna ha lavorato con L’Ora il quotidiano del pomeriggio uscendo di casa con la sua macchina fotografica, per guadagnarsi il pane. Fotografando l’umanità che rimane, come un alito di fumo, a soffiare dopo attentati, scene del delitto raccapriccianti, corpi crivellati riversi dentro auto, mani sul viso, lacrime. La guerra di mafia. “Ho sempre pensato che la fotografia avesse attinenza con me, con la mia vita, umori, amori, figlie, nipoti e amanti e con il pane che mi guadagnavo, nessuna apparenza ma tutta sostanza”.

Quando era fotografa di cronaca nera, non sapeva, non poteva sapere che sarebbe diventata la fotografa italiana più famosa al mondo. Nasce nel ’35, si sposa a 16 anni, ha tre figlie, nel ’71 si trasferisce a Milano, qui, con il compagno Santi Caleca, impugna la macchina fotografica, guarda nel mirino, crea un mondo espressivo in cui fotografare può aiutarla a rimettere ordine, chiedere giustizia, tracciare un percorso di verità. Fioccano i premi, tra i quali il Premio Eugene Smith (1985), il Premio Dr. Erich Salomon (2007) e il Cornell Capa Infinity Award (2009).

Il suo ultimo lavoro è Diario, “Una specie di compendio, ho ottanta anni, ci sono cose che ho scritto io e cose che hanno scritto gli altri”, il libro esce edito da Castelvecchi.

“La fotografia – mi dice –  non è più considerata nell’economia di un giornale, non viene stanziata alcuna somma, ormai tutti si mettono in mano una macchinetta e scattano, ma questo è differente, non è fotografia”. Ma cos’è una fotografia, chiedo, rispetto a scattare un’immagine in digitale, magari con lo smartphone? “una fotografia è quel che scegli, fra gli scatti, il momento supremo, se io fotografo te, io fotografo anche me, così come mi serve per quietare la mia inquietudine, il mio desiderio di raccontarmi, la buona fotografia è quando riesce a raccontare del fotografo, non solo del mondo fotografato, a volte si dice: che bella sta fotografia, ma è bello il paesaggio o la modella, ma non c’era il fotografo, i maestri sono quelli che sono riusciti nell’arco di un po’ di tempo a mantenere un certa coerenza di politica, di filosofia, di emozione e raccontarla con il loro lavoro.  Non ci possono essere inganni in una buona fotografia. Perché se devo valutare un fotografo lo devo vedere nel tempo”.

Ma  adesso come si lavora con la fotografia?
I ragazzi non ce la fanno ad avere buoni maestri che ad avere spazio nelle redazioni, già ai miei tempi, lottavamo, per essere riconosciuti giornalisti, ma era più facile.

Le tue foto vengono continuamente condivise sui social, che ne pensi?
Mi sento impotente, ogni tanto le vedo, è un furto, non si potrebbe e non si dovrebbe, penso che verrà regolamentata, non si può prendere una foto e non pagarla, quando un fotografo campa di fotografia. Dire che sono mie non è sufficiente, oltretutto quei venti, trenta scatti che girano, sono conosciutissime si sa che sono mie, ma mica mi serve la pubblicità a ottant’anni.

Quanto c’entra la maternità, il tuo essere madre, donna, nel tuo lavoro, nel mondo che tu rappresenti?
Quasi sempre quando il lavoro è buono percepisci che dietro c’è una donna. C’è quella delicatezza, quell’entrare dentro le cose. Secondo me si percepisce, se i risultati sono buoni, la vedi e la senti, la riconosci perché io so che cosa mi attraversa, quando scelgo tra le mie le fotografie.

Ma cos’è che crea una vera foto?
L’empatia. Certe volte anche la fortuna, ma la fortuna non arriva per caso. Io e Franco Zecchin (fotografo ed ex compagno della Battaglia) andavamo a fotografare insieme, ma i risultati erano diversi. Lui riusciva sempre a tirare fuori un po’ di ironia da ogni situazione, e io drammatica. La sua chiave forse era più giusta, ma la mia più diretta.

La foto dipende da chi fotografa. Ti faccio un esempio: se tu hai amato i pittori del ‘500, l’arte, è chiaro che ti porti dietro tutte queste cose mentre scegli una foto.

Quindi si capisce chi c’è dietro, anche una donna…
Le donne sono più emotive, materne, solidali.

Io non ho mai voluto fare foto di guerra. Si va lì perché era un buon luogo per farsi pubblicità, rischi, ma quando torni hai un racconto particolare del mondo, un racconto in cui puoi contribuire fino a un certo punto, io non sono mai andata, mi fa paura essere al centro di un odio. In una guerra, io mi metterei da una parte, magari con chi mi fa simpatia, ma comunque anche quelli sparerebbero ad altri esseri umani.

Ma tu sei stata in una guerra di mafia
Io sono stata col mio popolo però. Io non vado lì a difendere qualcuno, in quegli anni era me che difendevo, con i risultati che ho avuto. La fotografia non cambia il mondo.

Ma ha cambiato il tuo mondo
Ma non sono interessata al mio mondo, è troppo piccolo, man mano che progredivo i vantaggi erano di meno, e gli interessi erano sempre più staccati da me. Con Gli Invincibili mi sono chiesta: ma cos’è che mi ha sostenuto in questi anni?

Sono venuti fuori 12 personaggi, Pasolini, che io ho fotografato, Ezra Pound, che ho conosciuto a Venezia…, Letizia comincia a raccontarmi le sue emozioni, quelle che l’hanno portata a intessere il progetto, in cui poi, hanno fatto parte Joyce, Gabriele Basilico, Paolo Borsellino, Che Guevara, Giovanni Falcone, Sigmund Freud, Rosa Louise Parks, Luisa Senzani, Il Crocifisso di Santo Spirito, la Venere di Urbino. La mostra si intitola, appunto, Gli invincibili.

Alcune foto del progetto sono nel libro, che è un Diario un po’ anarchico, senza date, che si chiude con i ringraziamenti “Dedico con gratitudine questo libro alla mia famiglia che mi ha sostenuta e ricambia il mio amore”. Letizia è piena di gratitudine, lo dice più volte, è bello sentirlo ripetere da lei.

A fronte un autoscatto di Shoba, Letizia fra le sue figlie, gli occhi chiusi, l’abbraccio di un bacio.

Mentre sfogli il volume vedo le foto di nera che corredavano L’Ora, in una Letizia stringe la mano a Giovanni Falcone, in un’altra, si scorge lo sguardo struggente di Paolo Borsellino, alcune ritraggono stragi, e chiedo: ma tu quando entravi in queste situazioni, in queste stanze, come ti sentivi?

Mi tremavano le gambe.

Poi ci sono molto foto di ragazzine, per strada, che lavorano, per loro è stato bello il momento in cui venivano fotografate?
Penso di sì. Ci sono molte immagini di bambine, è come se io avessi bisogno di ritrarre i miei 10 anni, chissà perché sono così importanti per me i 10 anni.

Ma come funzionava?
Si fermavano e mi guardavano, qualche volte funzionava sì, è un attimo, sai.

Ma cosa consiglieresti a un giovane fotografo?
Bisogna insistere, non guadagnerai mai soldi, su centomila ne escono fuori due che riescono a campare, alla fine troverà se stesso nelle foto che fa, è un lavoro che dev’essere intrapreso, non viene dal caso, devi sapere cosa ti fa soffrire cosa ti fa gioire. Avere la coscienza di sé. Deve essere umile, subito non farà belle fotografie, deve studiare molto, sentire che quelle foto lo rappresentano, senza vanità.

Cosa ti fa soffrire e cosa gioire?
Mi fa soffrire l’indelicatezza, la mancanza d’amore, la rozzezza. Gioire non lo so… non sono vanitosa, accetto i premi, ma con umiltà.. ecco, le carezze. Quelle le vorrai sempre, le carezze. Anche a ottant’anni, le carezze sono la bellezza.
(15 febbraio 2016)

Tratto da: cosedafareinsicilia.it

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