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In questi giorni si fa un gran parlare di “famiglia“, con i convergenti sistemi dell’informazione e della politica impegnati a ripristinare un medioevo delle coscienze, attraverso la severa riproposizione del modello pro-contro qualcosa, per una anacronistica suddivisione della società in guelfi e ghibellini e una a-scientifica diluizione della complessità contemporanea.
E, nonostante questo confuso chiacchiericcio mediatico, già da qualche tempo nei miei pensieri c’è un altro modello di “famiglia”: quella mafiosa.

L’occasione per elaborare un pensiero più articolato ed organizzato, in particolare, dopo disordinate e varie riflessioni accumalatesi nei mesi precedenti, fu la (mia) presentazione – lo scorso dieci dicembre a Valenzano – del volume “Fratelli monelli. Alle radici della criminalità minorile“, poi successivamente recensito per Epolis Bari, della stagista al Tribunale dei Minorenni di Bari Emanuela Lovreglio.
nessuno dia per persi i piccoli criminali baresiIn quell’occasione, l’aspirante magistrata sottolineò, con rigore e chiarezza, che nessuno nasce delinquente. I bambini e gli adolescenti lo diventano, semmai, per una pluralità di ragioni. Alcune delle quali risiedono, probabilmente, nel modus vivendi della famiglia nella quale si nasce. Prima ancora di un disagio economico, socio-culturale o ambientale, infatti, ci potrebbe essere un pesante e condizionante degrado domestico che andrebbe esplorato e analizzato. E, successivamente, affrontato. Nelle famiglie mafiose, quelle ‘ndranghetiste specificatamente, la trasmissione dei codici d’onore, del resto, avviene prestissimo. Perché quella stessa organizzazione criminale è fondata, culturalmente e socialmente, sul modello della famiglia. Aspetto che, per anni, a differenza di cosa è successo con la mafia siciliana e la camorra napoletana, ha prodotto un numero irrisorio di collaboratori di giustizia. E chi, per esempio, come la testimone di giustizia Lea Garofalo ha, addirittura, avuto il coraggio di sfidare, per amore di sua figlia Denise, il suo stesso nucleo familiare, ha pagato con la vita la sua scelta.

Eppure oggi, proprio da una regione con tanti problemi come la Calabria e nella quale, forse più che altrove, è ancora vigente l’idea che le donne debbano sottostare e ubbidire come animali a uomini il cui unico vocabolario è quello della violenza e della prepotenza, germogliano semi di speranza. E a seminarli sono proprio le donne. Per amore dei figli.

Da qualche anno, con il loro aiuto e per la prima volta in Italia, il Tribunale dei Minorenni di Reggio Calabria ha scelto di sottrarre i minorenni ai genitori mafiosi. “L’obiettivo è interrompere la trasmissione culturale”, dice Roberto Di Bella, Presidente di quel Tribunale. L’obiettivo deve essere quello di rompere i muri dell’omertà e della complicità. Per aprire nuove strade per l’avvenire a generazioni in grado di scegliere autonomamente quale futuro vivere, nella possibilità di coltivare i propri talenti e realizzare i propri sogni.

E in questa guerra, che non si può combattere da soli se si vuole vincerla – come ci racconta la giornalista Serena Uccello, autrice di “Generazione Rosarno” – la scuola diventa un presidio di legalità e di comunità importante. La scuola come laboratorio di speranza e di rinascita nel quale diffondere “una pedagogia del bene“.minori uccisi dalla mafia

“E, quando funziona, la scuola diventa il volano principale di questa trasformazione positiva, strumento straordinario d’integrazione oltre che di cultura. Non è un caso che la ‘ndrangheta tema la scuola quasi al pari della magistratura. E che abbia paura che la sua forza d’attrazione diventi più forte e dirompente di quella della famiglia. Un’offensiva pacifica che può far passare il messaggio che non esiste una predestinazione al male, ma che ognuno ha, in se stesso, la capacità per ribaltare il proprio destino”.

Principi di ribellione che, in un Mezzogiorno trascurato dalle Istituzioni nazionali e spesso fin troppo sfiduciato per la carenza di opportunità di autodeterminarsi, infondono fiducia e ottimismo. In un Sud che, secondo Save the Children, accoglie quasi il 90% degli oltre 500mila bambini che vivono in un comune commissariato per mafia negli ultimi 17 anni, con 65 Amministrazioni Comunali sciolte per infiltrazione mafiosa dal 2010.


A Bari, infine, se dovessimo valutare solo gli ultimi avvenimenti e le parole del Questore, avremmo di cosa preoccuparci, e molto. E, certamente, occorre restare vigili per evitare che certi episodi si reiterino. Ma, proprio come ha detto lo stesso Questore in altre occasioni, e come lui anche l’amico sociologo Leo Palmisano, non può bastare la soppressione giudiziaria. Occorre sradicare la malapianta dell’illegalità e debellare la malaria della mafiosità attraverso interventi di rigenerazione sociale e di coscientizzazione culturale, per non perdere definitivamente altri giovani. Occorrerebbe un “Piano Urbanistico della Legalità” che metta al centro, dalle periferie, il diritto di chiunque a vivere in contesti eticamente salubri. Ha ragione, perciò, Gianni Spinelli quando scrive, nell’editoriale odierno sul Corriere del Mezzogiorno con il quale idealmente si collega alle tesi di Emanuela Lovreglio, che “Bari è bellissima, non può diventare Far West“. Tocca a ciascuno di noi difenderla e valorizzarla, ogni giorno.

Tratto da: giuseppemilano.wordpress.com

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