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la barbera arnaldodi Edoardo Montolli
Come faceva Cosa Nostra a sapere dell’arrivo del magistrato a casa della sorella in un giorno non previsto?
Il secondo numero di Crimen, primo mensile ad occuparsi di errori giudiziari e ingiuste detenzioni e in edicola dall’1 settembre, pubblica un’inchiesta sul caso portando alla luce una storia del tutto nuova alle cronache, a firma Edoardo Montolli, già autore del volume Il caso Genchi.
Crimen sostiene che racconterà, a partire da questo numero, vicende e aspetti completamente inediti sulle stragi del 1992.
Pubblichiamo uno stralcio dell’inchiesta.

La strage
Il pomeriggio del 19 luglio 1992 Paolo Borsellino si recò a casa della sorella Rita per prendere la madre e portarla da un dottore. Dopo aver citofonato al civico 19 di via D’Amelio, una 126 imbottita di Semtex – un esplosivo militare ma usato nelle cave nei Paesi dell’est- deflagrò dilaniando lui e la sua scorta. Il primo problema che gli inquirenti si posero è come facesse Cosa Nostra a sapere l’orario d’arrivo del magistrato per piazzare l’auto esplosiva, dato che quella visita era dovuta ad un mero imprevisto e che solo i famigliari ne erano a conoscenza, avendolo appreso al telefono (…).

L’ipotesi
I killer dovevano avere certezze. La cosa più logica era pensare che il telefono di Rita Borsellino fosse stato intercettato, magari in maniera rudimentale. La Procura di Caltanissetta incaricò il commissario Gioacchino Genchi si svolgere una perizia sul telefono di casa della sorella del giudice: dalle testimonianze emerse che in effetti c’erano stati precedentemente dei rumori di fondo nelle telefonate. Questo, “alcuni squilli anomali” e altri dettagli fecero ritenere al consulente che in effetti il telefono poteva essere stato intercettato. Si scoprì altro: tre o cinque giorni prima dell’attentato, la nipote di Borsellino vide un uomo in tuta blu lavorare all’interno delle cassette delle linee telefoniche. Secondo il portiere dello stabile si trattava di operai della Sielte, intenti a fare lavori ad un inquilino dell’ottavo piano, o meglio una ditta di costruzioni trasferitasi lì un mese prima. Vennero anche ritrovati residui di “filo di permutazione” che si sarebbe potuto usare per realizzare un “circuito parallelo” della linea telefonica. Fu da queste indagini che si arrivò ad un operaio della Sielte, Pietro Scotto, fratello di un boss, Gaetano Scotto. E fu allora che arrivò il falso pentito Vincenzo Scarantino (…)

O​ggi​ che tutto è da rifare e che è emerso il depistaggio, bisogna tornare a porsi la domanda di allora: come faceva Cosa Nostra a sapere dell’arrivo di Borsellino in un giorno non previsto?

Il palazzo
Secondo l’ultimo grande pentito Gaspare Spatuzza, killer dei Graviano, notizie sugli spostamenti del giudice arrivavano da Salvatore Vitale, il proprietario del maneggio dove fu sequestrato il piccolo Giuseppe Di Matteo. Vitale, morto nel 2012, abitava infatti al piano terra del civico 19 di via D’Amelio. Non che si sappia da ora. Lo aveva riferito già il pentito Salvatore Cancemi vent’anni fa e ne aveva parlato Giovanni Brusca. Vitale fu condannato nel processo di via D’Amelio, ma non per la strage, solo per associazione mafiosa. Graviano ha aggiunto che fu nel maneggio di Vitale che venne cambiata la targa alla 126 esplosiva e che fu lui a fare da talpa per l’arrivo di Borsellino. Ma se guardiamo le foto che pubblichiamo qui, non possiamo non nutrire enormi perplessità: il primo piano di via D’Amelio fu letteralmente sventrato dall’esplosione. Chi si farebbe sventrare la casa per compiere un attentato? Di più: dato che il giudice arrivava in un giorno imprevisto, il problema su come Cosa Nostra fu avvertita della sua visita, resta. Non è che guardando dalla finestra lo puoi immaginare (…)

 
Il telefono
Il telefono di casa Borsellino, se intercettato, poteva essere sentito, secondo la relazione Genchi, pure nello stesso stabile. Uno stabile dove hanno vissuto altri, legati in qualche modo ai boss. È il caso, ad esempio, del costruttore Federico Amato, conoscente fin dall’infanzia del boss Antonino Vernengo, e che fu imputato proprio al maxiprocesso. Dall’accusa era considerato un suo prestanome (…)

 
L’inquilino
Nel 1986 Amato abitava proprio al civico 19 di via D’Amelio. Lui disse di aver chiesto la protezione dei Vernengo per poter lavorare come imprenditore. E fu sfortunato: nel maggio 1987 gli uccisero un figlio di 33 anni, Pietro, con una pallottola in fronte. Nove anni più tardi il pentito Giovanni Drago raccontò che l’omicidio fu dovuto al fatto che Pietro non era ossequioso come il padre e faceva di testa sua. Ma il problema è un altro. Ricorda Rita Borsellino, contattata da Crimen: «Prima di diventare imprenditore Federico Amato era capomastro del cantiere del palazzo. Quando andai a viverci nel 1977, lui abitava già lì. Ed è morto lì uno, forse due anni fa. Ne parlai ovviamente agli inquirenti, che fecero uno screening di tutti i residenti del palazzo». Dunque non c’è alcun giallo? Non proprio. Amato, il cui nome non compare nella relazione Genchi, è un nome nuovo soprattutto al consulente. Genchi, ora avvocato, cade infatti dalle nuvole: «Che un imputato del maxiprocesso abitasse al civico 19 di via D’Amelio lo apprendo solo ora. Dello screening dei residenti dello stabile se ne occupava il capo del gruppo d’indagine Falcone-Borsellino Arnaldo La Barbera. Escludo che me ne abbia parlato lui o qualcuno dei magistrati incaricati dell’indagine, altrimenti avrei ovviamente approfondito. Il nome di Federico Amato, fino ad ora, non mi diceva nulla».

Per chi volesse leggere l’articolo integrale, può trovare Crimen, oltre che in edicola, in versione digitale qui: frontedelblog.it

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