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fabbretti-federica-2di Federica Fabbretti - 13 aprile 2015
Due giorni fa, l’11 aprile, è stato il venticinquesimo anniversario dell’omicidio di Umberto Mormile e la famiglia ha scelto di ricordarlo per la prima volta pubblicamente, a Palermo, nel luogo dell’ultimo discorso pubblico di Paolo Borsellino, Casa Professa.

Quella di Umberto è una storia come tante altre storie di vittime di mafia, la storia di quelle vittime che vengono uccise due volte, dalla mafia che spara sei proiettili, di cui tre al volto, e poi dallo Stato che getta fango sul morto invece che sugli assassini. Una storia che riporta alla mente le notizie girate dopo la morte di Peppino Impastato, terrorista e poi suicida, o di Beppe Alfano, professore con il vizio delle scappatelle, o di Attilio Manca, medico drogato e suicida, o di Nino Agostino, poliziotto in attesa del primo figlio con amanti a destra e a sinistra. Ci vollero anni, lacrime e lotte senza sosta (delle famiglie), in quasi completa solitudine, perché si affermasse finalmente la verità sulla loro morte e si restituisse dignità ai loro nomi.

Umberto Mormile e la sua famiglia quella verità la stanno ancora aspettando.

Umberto era un educatore carcerario, una di quelle figure che cercano di applicare ciò che venne scritto nella Costituzione riguardo la funzione delle carceri, le quali dovrebbero avere l’obiettivo non solo di punire il colpevole ma anche di rieducarlo per facilitarne il reinserimento nella società. Era un servitore dello Stato onesto e preparato, che vide quello che non avrebbe dovuto vedere: boss della ‘ndrangheta ricevere premi e favori dopo aver avuto incontri in carcere – non nelle regole e, quindi, non registrati – con, presumibilmente, uomini dei Servizi. Ma è molto meno problematico “dimenticare” le confessioni di un pentito, Antonino Cuzzola (ritenuto peraltro totalmente attendibile dai giudici), che chiama in causa le istituzioni, e usare invece quelle di un altro pentito, Emilio Di Giovine, finendo per dare ad Umberto l’etichetta del corrotto. Poco importa se gli asseriti tentativi di corruzione non vennero mai verificati nè, tantomeno, confermati.

Stefano Mormile, il fratello di Umberto, ha raggiunto Salvatore Borsellino nemmeno tre mesi fa e, tramite lui, ha avuto la possibilità di conoscere il suo avvocato, Fabio Repici, e, successivamente, Giovanni Spinosa, il magistrato che condusse le indagini sulla cosiddetta “banda della Uno Bianca” ed uno dei pochissimi che parlò esplicitamente delle “zone grigie” che circondavano non solo quell’indagine ma anche quella sull’omicidio Mormile, accomunate dalle rivendicazioni della sigla “Falange Armata“.

Stefano e la sua famiglia conobbero il vero significato della parola “solitudine” e, forse anche per questo, non si erano mai sentiti di commemorare il loro caro pubblicamente. Ma poi accadono incontri inaspettati, si conoscono persone non soltanto competenti e preparate ma con un carico di umanità, coraggio e desiderio di affermare la giustizia che ti toccano nel profondo. Fatto sta che, dopo nemmeno un mese da quegli incontri, Stefano ci chiede aiuto nell’organizzare la prima commemorazione pubblica, un giorno per ricordare Umberto ma anche per chiedere finalmente giustizia: “M’è tornata la voglia. Voglio dire quello che so e quello che penso, anche a chi non vuol sentire, soprattutto a chi non vuol sentire.”

Sabato siamo entrati nella sala dove si sarebbe svolto di lì a poco l’incontro e, per un momento, un senso di sconfitta e impotenza (e di colpa, verso Stefano e la sua famiglia) si è impossessato di me, alla vista della poca partecipazione della gente, seppur preventivata. Ma è proprio in questi casi che si ricevono le migliori lezioni di vita: Stefano ha preso le sedie dei relatori, le ha avvicinate a quelle del pubblico e si è seduto, esattamente come aveva fatto Salvatore Borsellino sette anni prima, quando aveva parlato ad una platea di sei persone (“una in più dei ragazzi che sono morti per proteggere mio fratello,” disse quel giorno). Gli altri relatori, Fabio Repici, Giovanni Spinosa, Giuseppe Lo Bianco e la sorella di Stefano, Nunzia, lo hanno imitato. Ció che ne è seguito è stato uno degli incontri più interessanti, formativi e sentiti a cui abbia mai partecipato.

Tutte le persone che hanno parlato hanno dovuto convivere, nella loro vita, con la solitudine e l’isolamento, hanno dovuto affrontare battaglie che, a volte, sembravano più grandi di loro, nelle quali ad ogni passo avanti sembrava se ne facessero due indietro. Uno stato d’animo che, in piccolo, proviamo spesso anche noi semplici cittadini, che non siamo magistrati, avvocati, giornalisti o familiari di vittime di mafia ma che investiamo tempo, energie e speranze cercando di fare la nostra parte per migliorare questa società. Lo scorso sabato, ascoltando le persone presenti e guardandole interagire e prendere l’impegno l’una con l’altra di andare avanti, insieme, quel senso di solitudine e di essere fuori posto, che spesso porto dentro di me, é scomparso ed ho avuto la sensazione, spero con tutta me stessa fondata, che anche quelle persone si sentissero un po’ meno sole.

P.S. per l’11 aprile Giovanni Spinosa, Fabio Repici, Antonella Beccaria e Stefano Mormile hanno pubblicato un documento (scaricabile gratuitamente qui dal sito di Antimafia Duemila) che propone una nuova lettura sul caso dell’omicidio Mormile, evidenziando i vuoti delle indagini e le ambiguità delle sentenze emanate a seguito dei processi a carico dei mandanti e degli esecutori; dall’omicidio Mormile il documento analizza il ruolo della Falange Armata all’interno dell’azione degli stragisti della “Uno Bianca”, proponendo una lettura dell’operato di quest’ultima decisamente diversa da quella su cui si basarono le successive risultanze processuali; il tutto sarà inquadrato, nell’ultima parte di questo lavoro, in un’analisi che delineerà i collegamenti tra criminalità organizzata, destra eversiva, massoneria e mafia, dimostrando come queste realtà, storicamente, siano sempre andate a braccetto.

Tratto da: ilfattoquotidiano.it

In foto: Federica Fabbretti

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