Questo sito utilizza cookie tecnici e di terze parti per migliorare la navigazione degli utenti e per raccogliere informazioni sull’uso del sito stesso. Per i dettagli o per disattivare i cookie consulta la nostra cookie policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque link del sito acconsenti all’uso dei cookie.

messina-denaro-muralesda professionisti liberi.org - 17 febbraio 2015
Scorta civica, con il comunicato del 27 gennaio 2015, nel rispondere  alle critiche mosse alla «cosiddetta società civile» da parte del Presidente della Corte di Appello di Palermo, ha dichiarato che continuerà a denunciare la latitanza ultraventennale del boss Matteo Messina Denaro, che aggiunge delitti a quelli già commessi e che non viene catturato nonostante sia inserito fra i dieci più pericolosi criminali nel mondo.

Occorre evidenziare che il Capo della mafia, intercettato in carcere, il 25 ottobre 2013, ha affermato “… questo pubblico ministero che mi sta facendo uscire pazzo, per dire, come non ti verrei ad ammazzare a te …”, “ … inizierei domani mattina …, “… io vorrei incominciare di nuovo, vorrei incominciarci di nuovo …”.
Nell’intercettazione del 30 ottobre successivo, il Capo della mafia mette in mora il boss più pericoloso in circolazione affermando “… deve succedere un manicomio, deve succedere per forza …”, “… questo signor Messina, questo che fa il latitante, che fa questi pali …”,  “… questo si sente di comandare, si sente di fare luce dovunque, fa luce, fa pali per prendere soldi ma non si interessa di …”, “..si è messo a fare luce, a fare luce a tutti, in tutti i posti … ed a noi ci tengono in galera, sempre in galera, però quando siamo liberi li dobbiamo ammazzare”.

Poco dopo aggiunge “ Intanto io ho fatto il mio dovere, ma continuate, continuate, qualcuno, non dico magari tutti, ma qualcuno, divertitevi … una scopettonata nella testa di questi cornuti …”, “… se ci fosse stato qualche altro avrebbe continuato e non hanno continuato e non hanno intenzione di continuare, nessuno!”.
Il 16 novembre 2013 torna sull’argomento “Ed allora organizziamola questa cosa! Facciamola grossa e dico e non ne parliamo più … perché questi, Di Matteo non se ne va, ci hanno chiesto di rinforzare, gli hanno rinforzato la scorta, e allora se fosse possibile … ad ucciderlo … una esecuzione come eravamo a quel tempo con i militari …”.
Due giorni dopo conclude: “Ecco perché incominciamo da Di Matteo, perché in questi giorni Di Matteo, Di Matteo perché Di Matteo tutte, tutte, tutte cose le impupa lui”.
Il Capo della mafia non sapeva che le “sue” disposizioni erano già arrivate a destinazione, com’è attestato dalle dichiarazioni del boss dell’Arenella, detenuto dal giugno del 2014, che nel novembre del 2014 inizia a collaborare e fa mettere a verbale che i capi delle famiglie mafiose di Palermo si erano riuniti, nel mese di dicembre del 2012, perché il “fratellone”, Matteo Messina Denaro, aveva recapitato una lettera con l’ordine di organizzare un attentato al magistrato Nino Di Matteo.
A questo proposito, occorre evidenziare che il Procuratore generale di Palermo, in occasione dell’inaugurazione del nuovo anno giudiziario, ha sottolineato, con ricchezza di richiami, che il boss Matteo Messina Denaro ha messo in atto una vera e propria strategia della tensione, per trovare nuovi alleati e punire chi si ribella alla mafia.
Il Procuratore generale ha ricordato gli episodi più eclatanti accaduti fra il 2013 e il 2014: l’incendio appiccato ad un cantiere navale di Trapani, la bomba carta contro lo studio di un geometra di Alcamo, le due bombole lasciate davanti ad un’azienda manifatturiera di Petrosino, l’incendio all’azienda di Alcamo che produce serre, il furto di una grù nell’impianto di calcestruzzi di Salemi, i sette colpi di pistola sparati contro le finestre di una ditta che produce pannelli di compensato a Campobello di Mazara.
Quello che è certo è che Matteo Messina Denaro non è soltanto un pluricondannato che si sottrae all’arresto ma è un pericolosissimo capomafia che continua a commettere gravissimi delitti.
Quello che è ancora più certo è che la latitanza ultraventennale di un criminale inserito fra i dieci più pericolosi nel mondo è una plateale dimostrazione dell’incapacità dei vertici istituzionali  di garantire la sicurezza dei cittadini e di difendere la democrazia in Italia.
IL COMITATO PROFESSIONISTILIBERI

LE CONFESSIONI DEL DIAVOLO

Precedenti:
L’anno giudiziario di SCORTA CIVICA
CRITICHE AL PROCESSO TRATTATIVA

Lettera aperta al Presidente del Consiglio dei Ministri, al Ministro dell’Interno, alla Commissione parlamentare antimafia ed al Procuratore nazionale antimafia


le-repubblica-diretta-ita

La strategia di Messina Denaro: logge massoniche coperte e raid per diffondere il terrore
La nuova tattica del superlatitante per non perdere terreno dopo gli arresti Il procuratore generale Scarpinato: “Un vero e proprio disegno eversivo”. Il progetto di alcune logge coperte a Mazara
di SALVO PALAZZOLO
Quasi ogni notte un rogo, un danneggiamento, un’intimidazione. C’è un’aria pesante nel regno del “fantasma” di Castelvetrano. Il procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, è preoccupato. Nelle 600 pagine della relazione che ha consegnato al presidente della corte d’appello per l’inaugurazione dell’anno giudiziario, avverte che il superlatitante Matteo Messina Denaro ha già varato una nuova pericolosa strategia per cercare di far fronte all’emorragia creata dai continui arresti e sequestri. Una strategia fondata su due pilastri: stringere nuove alleanze attraverso ambienti della massoneria e punire in modo esemplare chi nella società trapanese si ribella a Cosa nostra. Al punto da creare quella che Scarpinato chiama «una vera e propria strategia della tensione».


livesicilia

"C'è l'ordine del 'fratellone', Di Matteo deve morire"
Martedì 16 Dicembre 2014 - di Riccardo Lo Verso Riccardo Lo Verso

ESCLUSIVO. Vito Galatolo, boss dell'Acquasanta, racconta le fasi preparatorie dell'attentato in cui doveva essere ucciso il pubblico ministero di Palermo. I verbali sono zeppi di nomi. Su tutti, quello di Matteo Messina Denaro.

PALERMO - Le indiscrezioni lasciano spazio ai verbali. Verbali in cui Vito Galatolo, boss dell'Acquasanta, nella veste di dichiarante, racconta ai magistrati di Palermo e Caltanissetta, passaggio dopo passaggio, le fase preparatorie dell'attentato in cui doveva essere ucciso il pubblico ministero Antonino Di Matteo. Ora ne conosciamo il contenuto perché le sue dichiarazioni sono confluite nel fermo di Vincenzo Graziano eseguito all'alba dagli uomini del Nucleo speciale di Polizia valutaria, coordinati dal colonnello Calogero Scibetta e dal colonnello Claudio Petrozziello, e dai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria, agli ordini del colonnello Francesco Mazzotta e del tenente colonnello Giuseppe Coppola. A loro spetta verificare la ricostruzione del resoconto di Galatolo. A cominciare dalla presenza del tritolo, di cui finora non è stata trovata traccia, da utilizzare per l'attentato.

Il primo input arriva il 13 settembre 2012: “Posso riferire che, appena scarcerato, mi venne imposto l'obbligo di presentazione al commissariato di San Lorenzo a Palermo. Durante questi trasferimenti per raccordarmi con i miei familiari, mio padre mi riferì che Vincenzo Graziano, sottocapo della famiglia dell'Acquasanta, mi doveva parlare. In occasione di questo incontro mi disse che Girolamo Biondino voleva organizzare un incontro urgente”. Nei mesi precedenti le microspie, dicono oggi gli investigatori, avevano captato la continua ricerca di denaro. Tra i più attivi c'era proprio Vincenzo Graziano.

Lo step successivo è dell'8 dicembre dello stesso anni, quando nell'abitazione di Galatolo, nel rione Marinella, si sarebbe fatto vivo Alessandro D'Ambrogio, capomafia di Porta Nuova: “In quella occasione mi disse, ma Ciresi (Nino Ciresi ndr) rimase fuori di casa con mio suocero, che bisognava fare una riunione con Biondino nella quale si doveva affrontare l'argomento dell'attentato nei confronti del dottore Di Matteo voluto dal 'fratellone' e cioè da Matteo Messina Denaro”.

E si entra nella fase operativa: “Ci siamo dati appuntamento per la mattina del giorno seguente al porticciolo dell'Acquasanta da dove poi avremmo raggiunto gli altri alla gelateria 'Al tuo gelato' alla Marinella... ho atteso l'arrivo del D'Ambrogio al porticciolo ove giunsi accompagnato da Santo Graziano. Sopraggiunse Nino Ciresi, il quale mi disse che D'Ambrogio era in ritardo. Dopo aver atteso un po', mi avviai poiché non volevo far aspettare gli altri e nel frattempo arrivò anche Alessandro D'Ambrogio a bordo di una Smart, se mal non ricordo, guidata da altro soggetto che ora non ricordo chi fosse... mi accorsi della presenza di auto delle polizia in zona, sicché, feci cenno sia al D'Ambrogio che al Biondino di allontanarsi... Io poi assieme a Santo Graziano tornai a casa mia a vicolo Pipitone, sempre seguito da una vettura della polizia in borghese”.

Il vertice viene fissato al pomeriggio: “Attorno alle ore 17.30-18.00, ricordo che pioveva, venne a casa mia Nino Ciresi che mi diede appuntamento, dopo mezz'ora, a Corso Tukory, ove andai accompagnato o da mio suocero o da Santo Graziano. Lì mi venne a prendere Onofrio Lipari, detto Tonino, uomo d'onore della famiglia di Palermo centro, e ci recammo al quartiere Ballarò ove salimmo in un appartamento sito all’ultimo piano. Lì c'era Alessandro D'Ambrogio, che era quello che aveva la disponibilità dell'appartamento, Masino Contino capofamiglia di Partanna Mondello, Silvio Guerrera, capofamiglia di Cardillo e successivamente ci raggiunse Girolamo Biondino. Ricordo che vi era anche Vincenzo Graziano”.

Quel giorno su Palermo si abbatte un violento temporale che impedisce agli investigatori di stare sulle tracce dei mafiosi pedinati. C'è, però, un dato certo: una delle macchine viene localizzata la via Michele del Giudice, ad angolo con via Albergheria, dove rimane parcheggiata fino 19.29. Ed è nel corso dell'incontro che salta fuori la seconda missiva scritta dal padrino di Castelvetrano: “Il Biondino, riprendendo la lettera che gli fu inviata da Matteo Messina Denaro, disse che bisognava fare un attentato al dottore Di Matteo”. I boss palermitani si mettono a disposizione: “In occasione della stessa riunione nei pressi di corso Tukory, decidemmo di dare una risposta affermativa a Messina Denaro e decidemmo anche, vista l'impossibilità di quest'ultimo ad approntare il denaro necessario, di esporci economicamente per la preparazione e dell’attentato. In particolare io mi impegnai con 360.000 euro mentre le famiglie di Palermo Centro e San Lorenzo, si impegnarono per 70.000 euro. L’esplosivo sarebbe stato acquistato in Calabria da uomini che avevano della cave nella loro disponibilità e trasferito a Palermo”.

E l'esplosivo arriva a Palermo: “Dopo seppi che Biondino definì l'acquisto dalla Calabria di 200 kg di tritolo e, una volta arrivato a Palermo dopo circa 2 mesi dopo la riunione, fu affidato a Vincenzo Graziano. L’esplosivo, che io vidi personalmente in occasione di una mia presenza a Palermo per dei processi, era conservato in dei locali all'Arenella nella disponibilità di Graziano Vincenzo ed era contenuto in un fusto di lamiera e in un grande contenitore di plastica dura. Sopra questi bidoni vi era uno scatolo di cartone con all’interno un dispositivo in metallo della grandezza poco più piccola di un panetto”. In un successivo interrogatorio preciserà che il tritolo fu nascosto "in un appartamento dell’Arenella, di mia proprietà ma intestato alla società di Graziano Camillo, figlio di Domenico".

Galatolo ricorda tutto con dovizia di particolari: “All'interno era composto da tanti panetti di colore marrone avvolti da pezze di tessuto. Ricordo inoltre che all'esterno, la parte bassa del contenitore di plastica blu era umida e con tracce di salsedine. Per tale motivo infatti Graziano mi disse che questo contenitore umido doveva essere sostituito. So che l'esplosivo è stato spostato da Graziano e penso che sia custodito in una sua abitazione con del terreno intorno in località Monreale".

Il rischio attentato, secondo il neo dichiarante, sarebbe ancora attuale: "L'intento di organizzare l'attentato non è mai stato messo da parte; una volta ne parlai con Graziano Vincenzo all'interno del Tribunale ed avevamo pensato di posizionare un furgone nei pressi del Palazzo di Giustizia ma non ritenemmo di procedere perché ci sarebbero state molte vittime. Pensammo anche, data la disponibilità della famiglia mafiosa di Bagheria, di valutare se procedere in località Santa Flavia, luogo dove spesso il dottore Di Matteo trascorre le vacanze estive... la presenza di tritolo sul territorio palermitano rende ancora attuale, a mio avviso, il pericolo dell’attentato nei confronti del dottore Di Matteo”. Ecco perché al pubblico ministero di Palermo è stata rafforzata la scorta fino ad un livello mai visto prima.


le-repubblica-diretta-ita

Si pente don Vito Galatolo silenzio e rabbia nel fortino della dynasty
SALVO PALAZZOLO
IL SILENZIO assordante di vicolo Pipitone è rotto dalla voce di un uomo, che sbuca all'improvviso sul balcone. «Non si permetta più di avvicinarsi a quel citofono — urla — vada via, altrimenti...». Inutile spiegargli che sto cercando la signora Vincenza, l'anziana della famiglia. Un anno fa, era stata lei ad accogliere il cronista in vicolo Pipitone, all'indomani della notizia del pentimento di Giovanna Galatolo. Un'accoglienza inaspettata. Con estrema gentilezza invitò ad entrare a casa sua, riunì attorno al tavolo del soggiorno tutte le donne della famiglia e poi sentenziò: «Giovanna è una pazza, lei non lo sa, ma quando era piccola combinava sempre guai». Un'altra zia chiosò: «Mi tirava sempre i capelli, rompeva i piatti. Una vera calamità». Erano i giorni in cui Giovanna Galatolo stava iniziando a raccontare i segreti dell'Acquasanta, che sono i segreti di Riina e Provenzano.
Adesso, le donne dei Galatolo sembrano scomparse. Ma sono dietro i vetri, dietro altre serrande abbassate in fretta. Perché questa volta, la faccenda è da uomini. Èdaverimafiosi.Perché Vituzzo era l'orgoglio di suo padre al 41 bis e di una intera dinastia. Era soprattutto la speranza di tutti i duri di Cosa nostra. Speranza di riorganizzarsi. Ma, adesso, Vito Galatolo ha fatto un'altra scelta: la settimana scorsa ha svelato il progetto di attentato nei confronti del pm Nino Di Matteo, «per togliersi un peso dalla coscienza ». E ieri pomeriggio si è trovato davanti al procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Teresi e al procuratore capo di Caltanissetta Sergio Lari. Così, il rampollo della dynasty più antica di Cosa nostra potrebbe dare un colpo decisivo all'organizzazione mafiosa. E ora, all'Acquasanta, il tam tam che gira insistente infarcisce il cognome Galatolo degli epiteti più pesanti. Perché in settant'anni di mafia, mai nessun Galatolo aveva varcato la soglia di un ufficio di polizia, se non in manette, anche quando i killer delle cosche avverse sterminavano i boss dell'Acquasanta.
Correvano gli anni Cinquanta: la dynasty dei Galatolo rischiò di finire davvero, perché don Gaetano Galatolo entrò subito in conflitto con i mafiosi di tutta la città quando il mercato ortofrutticolo fu trasferito dalla Zisa a via Monte Pellegrino. Lo chiamavano Ta-no Alati, fu ucciso nel maggio 1955, il giorno del suo compleanno, proprio all'interno del mercato: un killer gli sparò una fucilata in faccia. E dopo di lui, toccò a decine di amici e parenti dei Gala- tolo. Ma nessuno della famiglia manifestò mai un segnale di cedimento verso la giustizia. E Totò Riina se ne ricordò, all'inizio degli anni Ottanta, quando fondò la nuova Cosa nostra.
Subito dopo, arrivarono gli omicidi eccellenti preparati nel quartier generale dei Galatolo. Dalla Chiesa, La Torre, Cassarà. Vincenzo Galatolo, il padre di Giovanna e Vito, era il padrone di casa a fondo Pipitone, si occupava di tutte le necessità dei sicari fidati dei corleonesi, da Pino Greco a Giuseppe Lucchese. Il pentito Giovanni Brusca ha ricordato in un processo la bottiglia di acqua freschissima che Galatolo gli offrì la mattina che si preparava l'attentato al consigliere Rocco Chinnici, luglio 1983.
Vito giocava a pallone fra i sicari di Riina. È cresciuto alla scuola degli irriducibili: negli anni Novanta, era lui ad occuparsi di recapitare pesanti minacce a Gioacchino Basile, il sindacalista che per primo denunciò le infiltrazioni mafiose all'interno dei Cantieri Navali. E fu ancora Vito a mandare il messaggio del clan al nuovo parroco Gregorio Porcaro, appena arrivato da Brancaccio, dove era stato vice parroco di don Puglisi. Vito era davvero il pupillo di suo padre, il pupillo del clan e il pupillo di Cosa nostra. Conosce tanti segreti, sulle stragi di mafia e soprattutto sugli affari dei boss.

Tratto da: professionistiliberi.org

ANTIMAFIADuemila
Associazione Culturale Falcone e Borsellino
Via Molino I°, 1824 - 63811 Sant'Elpidio a Mare (FM) - P. iva 01734340449
Testata giornalistica iscritta presso il Tribunale di Fermo n.032000 del 15/03/2000
Privacy e Cookie policy

Stock Photos provided by our partner Depositphotos