Questo sito utilizza cookie tecnici e di terze parti per migliorare la navigazione degli utenti e per raccogliere informazioni sull’uso del sito stesso. Per i dettagli o per disattivare i cookie consulta la nostra cookie policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque link del sito acconsenti all’uso dei cookie.

vitale-salvo-bestdi Salvo Vitale - 5 dicembre 2014
La strategia mafiosa: accusare come responsabile di un attentato la vittima
In un suo libro Luciano Mirone li ha chiamati “Gli insabbiati, storie di giornalisti uccisi dalla mafia e sepolti dall’indifferenza”. Più recentemente Claudio Fava ha intitolato “I disarmati” il suo libro su tutti quelli che, con i loro poveri mezzi hanno provato a far la lotta alla mafia, trovandosi isolati sia da destra che da sinistra e stritolati dall’indifferenza. Potremmo chiamare “I diffamati” tutte quelle vittime di mafia sulle quali si è provato a gettar fango, in vita e subito dopo la loro morte. L’esempio di Peppino Impastato è forse il più eclatante: da attivista politico schierato all’estrema sinistra, a terrorista che era saltato in aria con la sua bomba. Lo schema della diffamazione non poteva essere migliore, tanto più che il pazzo voleva far saltare in aria gli operai che andavano a Palermo col primo treno. Addirittura, per Sciascia, “se di delitto di mafia si tratta, è un delitto anomalo”. E solo perché c’era alle spalle un nucleo di compagni bene organizzato e deciso, la provocazione non è passata. Ma la strategia di comunicazione mafiosa è arrivata persino a insinuare che potevano essere stati gli stessi compagni a ucciderlo.

Vogliamo parlare di Beppe Alfano? Dopo la sua morte, scrive Mirone: “Uno strisciante tam tam si diffonde con rapidità incredibile: Alfano è stato ucciso per questioni di  donne o di debiti di gioco. Qualcuno parla addirittura di stupro di minorenni e al processo qualche avvocato lo ribadisce. Dice il pentito Maurizio Bonaceto: “Spesso, quando si verificava un omicidio nel barcellonese, veniva fatta girare la voce che si trattava di storie di donne, per nascondere la provenienza e la matrice mafiosa del delitto”. (pag. 247)
Ma passiamo a Mauro Rostagno: “Un delitto in famiglia” lo definì il giudice Garofalo, che curò le indagini per diverso tempo: Rostagno sarebbe stato ucciso a seguito di una sorta di triangolo amoroso che vedeva sua moglie Chicca Roveri essere amante del socialista Cardella, amministratore e finanziatore della comunità “Saman”: Rostagno drogato, scoppiato, sovversivo, forse ucciso dai suoi ex compagni di Lotta Continua o dagli stessi tossicodipendenti della comunità di Lenzi. Per avviare le indagini  come delitto di mafia consumato dal mafioso trapanese Virga sono dovuti passare 22 anni e c’è voluta in mezzo la testardaggine del giudice Ingroia.  
Vogliamo citare Giuseppe Fava? Sin dal primo giorno venne avviata una campagna di delegittimazione con la quale il giornalista veniva dipinto come donnaiolo, incallito giocatore di carte, ricattatore. Perquisita la casa di Fava, la sede de “I Siciliani”, sospettati gli stessi collaboratori di Fava. Indagini ferme per otto anni, fino a quando il pentito Giuseppe Pellegriti e dopo di lui Maurizio Avola non hanno fatto precisi nomi di mafiosi facenti capo a Nitto Santapaola.
Su Mauro De Mauro è stato detto tutto: che era un fascista della decima Mas, che aveva scoperto l’inghippo dietro il delitto di Enrico Mattei, che sapeva molte cose del delitto Tandoy, (un commissario PS assassinato ad Agrigento), che era a conoscenza della preparazione del golpe poi fallito di Junio Valerio Borghese, che era rimasto vittima del mondo del traffico degli stupefacenti. Anche qua una catena di depistaggi, mai finita, per tenere lontana la mafia.
Potremmo continuare all’infinito: Placido Rizzotto, la cui fidanzata sarebbe stata amante del suo assassino Luciano Liggio, Cosimo Cristina, giovane giornalista che si sarebbe gettato sotto un treno per delusione amorosa, per arrivare a don Diana, che un’ottusa campagna di diffamazione che ha tentato di far passare per prete mafioso. Perché questa è una delle regole cardini di Cosa Nostra nei confronti dei suoi nemici: la delegittimazione: è il primo gradino, fatto di fango, di calunnie, di voci messe abilmente in giro, spesso a conferma che tu sei colluso con coloro che fingi di combattere: chi non ricorda la “stagione dei veleni” al Palazzo di giustizia di Palermo e le lettere del “corvo” contro Giovanni Falcone? Adesso qualcuno ci sta provando con Piero Grasso, reo di avere barattato la sua nomina a Procuratore Antimafia con la rinuncia a indagini che riguardassero i presunti rapporti tra Forza Italia e Bernardo Provenzano. Ma anche il tenace procuratore Messineo, è entrato nel mirino dei diffamatori, a causa di un suo fratello implicato in vicende di mafia. Per non parlare di Roberto Saviano che, nel suo ultimo libro, “la Bellezza e l’inferno” accenna al calvario di menzogne, accuse indimostrate, illazioni, carognate, dette nei suoi confronti anche attraverso giornali nazionali. Il fango che viene ad arte diffuso, prima da “radio ombra”, poi dai mass media, diventa una sorta di cortina fumogena che allontana l’immagine reale e la sostituisce con quella dei comuni mortali, felici di coinvolgere nella propria mediocrità, nella merda e nella menzogna coloro che cercano di trasmettere un messaggio diverso e più nobile. Solo qualche altro esempio di un infinito elenco:
- 1996 a San Giuseppe Jato, al sindaco Maria Maniscalco viene bruciata l’auto e subito circola la voce che è stata lei stessa a darle fuoco.
- 1980: Michele Pantaleone riceveva e denunziava di avere ricevuto lettere minatorie, ma si disse che era stato lui stesso a scriversele e spedirsele.
- 1985: a Giovanni Impastato, vengono uccisi a colpi d’arma da fuoco, per una strana analogia, due cani, davanti alla porta del suo negozio, lo stesso che, nel 2010 prende fuoco, con ogni probabilità per un attentato, ma in paese si dice che l’autore è lo stesso Giovanni, che vuole alimentare, a livello nazionale, la sua condizione di vittima della mafia.
- 4-12-2014: L’ultimo caso di questa strategia mafiosa, gestita da mafiosi e alimentata dalla cultura mafiosa che circola in modo sotterraneo e che trova sempre spontanee adesioni, specie da parte di coloro che pretendono di sapere tutto, anche stando lontani dai fatti su cui esprimono disinvolti giudizi, si è verificato qualche giorno fa a Partinico, con la barbara impiccagione di due cani, dei quali si cui si occupava il direttore di Telejato Pino Maniaci. Allo stesso era stata bruciata una vecchia macchina qualche giorno prima, ma già un’altra macchina, anch’essa dismessa, gli era stata bruciata tre anni fa. In mezzo tutta una serie di piccoli attentati, minacce, avvertimenti, telefonate, intercettazioni, gomme tagliate, che hanno indotto il Comitato per la Sicurezza e l’Ordine Pubblico a dare una tutela al giornalista. Il commento che gira a Partinico, alimentato da distorte informazioni date disinvoltamente in pasto all’opinione pubblica, è che a bruciare le macchine e, persino, ad uccidere i suoi cani, sia stato lo stesso Maniaci, per accreditarsi, a livello nazionale, come un grande giornalista antimafia sotto minaccia. Addirittura, tanto per dire una sciocchezza che poteva creare prese di distacco nei confronti  di un paladino della legalità, si è insinuato che il recinto in cui erano custoditi i due cani fosse “abusivo” L’abusivismo, rilevato per un piccolo recinto realizzato con il consenso di tutto il condominio, è veramente il massimo. E così la vittima, non solo patisce l’offesa, ma l’offesa è usata come arma contro di essa per consumare la delegittimazione totale. E infine la condanna a morte è l’ultima soluzione, quando i mafiosi  si accorgono che non c’è niente da fare. E quando non c’è nulla da escogitare, c’è la sentenza finale: la colpa è sua, se l’è cercata, non si faceva i fatti suoi. C’è una sorta di inconscio collettivo che porta all’assoluzione della mafia e alla ricerca di altre motivazioni.
La grande mobilitazione per Maniaci arrivata da ogni parte d’Italia, persino da Matteo Renzi, lascia sperare che, come spesso succede nei confronti di certe azione criminose di stampo mafioso, tutto ciò possa essere un boomerang che ricadrà sulla testa dei balordi che lo hanno perpetrato.

ANTIMAFIADuemila
Associazione Culturale Falcone e Borsellino
Via Molino I°, 1824 - 63811 Sant'Elpidio a Mare (FM) - P. iva 01734340449
Testata giornalistica iscritta presso il Tribunale di Fermo n.032000 del 15/03/2000
Privacy e Cookie policy

Stock Photos provided by our partner Depositphotos