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pizzini-nino-agostino pizzini-coppoladi Pietro Orsatti - 17 luglio 2014
Il pericolo che vada perduto molto di quello pubblicato da Coppola editore è grande. Per questo pubblico qui il pizzino della legalità scritto per lui nel 2012.
Di vita e di morte si parla. Di vita, di una coppia giovane, di una bambina in arrivo, di sogni da realizzare, di fatica – tanta – ancora da fare. Di mare e sole, si parla, e di genitori da andare a trovare in un giorno d’estate lì nella casetta a un tiro di schioppo dalla spiaggia. Un compleanno, una festa, qualcosa per cui brindare. Di vita si racconta, di quella vita che ti preoccupa e ti rasserena, ti riempie i polmoni quando apri gli occhi, all’alba, e ti permette di fare quel lavoro senza pensarci troppo su. Solo perché va fatto.

Di vita racconta la vita. Di un lavoro preso al volo perché altro lavoro non c’è e devi scegliere da che parte stare. E a Palermo le scelte sono chiare. O con la mafia o contro. Non ci sono mezze misure. E quando ci stai da una parte non puoi uscirne, non vuoi uscirne. E capisci che quella è la tua vita, qualcosa di più e di meglio del tuo dovere.

Ida e Antonino, in quella mattina d’agosto, erano la vita. Aspettavano una bambina, Ida era incinta di cinque mesi. Si andava a festeggiare il compleanno della sorella di lui, nella casetta a mare. Ci andarono in parecchi per ammazzarlo. Corpi crivellati all’ingresso di casa. Spararono. E spararono ancora.

Antonino, l’uomo con la giubba blu che non indossava mai, era disarmato. L’arma di ordinanza in quel giorno di festa non si era sentito di portarsela dietro. E poi a che sarebbe servita una pistola davanti a un commando di uomini armati con armi da guerra? Niente.

L’agente Antonino Agostino di stanza alla questura di Palermo e sua moglie Ida Castelluccio e la loro bambina mai nata morirono così, inermi, innocenti, disarmati, il 5 agosto del 1989 a Villagrazia di Carini davanti la casa a mare dei genitori di lui. Si moriva così a Palermo, da anni. Per nulla, apparentemente. Anche quella mattina fu così, ma non certo per nulla.

Te lo immagini uno ammazzato “per nulla” utilizzando un commando di uomini con armi da guerra? Te lo immagini uno ammazzato “per nulla” per il quale ci si affretta a dire che si trattava di un “omicidio passionale” e poi si manda a casa sua, di notte, gente dei servizi segreti a sottrarre carte e documenti, ogni traccia del lavoro che Antonino stava facendo in quei mesi? Te lo immagini uno ammazzato “per nulla” che ai suoi funerali arrivano i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino? No, non era uno ammazzato “per nulla” l’agente Antonino Agostino.

Al funerale Falcone era cupo. Qualcuno lo sentì pronunciare una frase. “Io a quel ragazzo gli devo la vita”. La vita. Si, perché di vita e di morte si parla, e sull’attentato all’Addaura del 21 luglio 1989 che doveva uccidere proprio il giudice Antonino indagava. Il 1989. Che hanno quello. L’anno della ritirata, dello smantellamento del pool di Palermo, dell’isolamento di Falcone e Borsellino, del “corvo”, delle lettere anonime, degli attacchi senza pietà a chi il Maxi Processo a Cosa nostra aveva messo in piedi. Indagava, Antonino. Faceva il suo lavoro di poliziotto. Di bravo sbirro senza giubba blu. Perché non era un semplice agente della questura palermitana, Agostino, ma visto che era bravo assai era stato coptato dal SISDE e si era specializzato nella cattura di latitanti. Di Mafia. Mica gente ricercata per furto di macchina, per abigeato, per una rapina in una tabaccheria. I capi andava a cercare Antonino. E invece sono andati a cercare lui.

Morto per nulla? Uno così?

Uno così, si. Uno che con il suo collega Emanuele Piazza, anche lui nel SISDE, la mattina del 21 luglio non era andato a pescare o a mangiarsi una brioche a Mondello, ma c’è chi racconta che fosse all’Addaura e che ebbe un ruolo, e non marginale, nello sventare l’attentato a Falcone. Un attentato strano, quello dell’Addaura. Falcone disse che si erano messe all’opera “menti raffinatissime” a Palermo.

Oreste Pagano, pentito di mafia, disse ai magistrati anni dopo che Agostino era “stato ucciso perché voleva rivelare i legami mafiosi con alcuni della questura di Palermo. Anche sua moglie sapeva: per questo hanno ucciso anche lei”. Sapeva, aveva capito, Antonino. E non gli hanno consentito di finire il suo lavoro, di consegnare alla giustizia i servitori infedeli dello Stato. Di quello Stato che si accendeva intermittente in furore antimafioso e poi si ritirava, silenziosamente complice, a normalizzare quelle fiammate. A garantire affari, potere politico e status quo.

Anche il suo collega, Emanuele Piazza, con cui stava cercando di svelare la rete di infiltrazioni e complicità fra mafia e pezzi dello Stato venne ucciso. L’anno successivo, a Sferracavallo. Dove i palermitani vanno a mare e a mangiare pesce. Lo andarono a prendere a Casa il 16 marzo 1990, lo fecero uscire con l’inganno utilizzando un suo conoscente. Sparì. Sciolto nell’acido a poche centinaia di metri da casa sua. Emanuele aveva continuato a indagare su chi aveva ucciso Antonino e Ida. Anche se la linea era quella di insabbiare, di far scivolare via la memoria. E un altro ragazzo in giubba blu se ne andò così. Perché non si doveva sapere, non si doveva scoperchiare la pentola fangosa degli interessi e delle complicità innominabili.

Di vita e di morte si parla. Di amicizia e amore. Di sole e pioggia. Di mare che riempie gli occhi e di violenza che li chiude. Di memoria cancellata con un colpo di penna. E un timbro. Segreto di Stato.

Di amore e di memoria si vive. E l’amore ha portato un padre ogni mattina che Dio mandava in terra davanti alla questura di Palermo. Per anni. Lui e e la sua barba candida lì, dignitosi, terribili. La barba che ha giurato di non tagliare fino a quando non verrà rivelata la verità sulla morte di suo figlio. A chiedere giustizia. A chiedere che fosse detta la verità su chi erano stati Antonino e Ida. Un padre. Perché Vincenzo Agostino non poteva dimenticare. Lui no. Né sua moglie Augusta. Per loro Antonino era quel ragazzo sugli scogli che raccoglieva i ricci di mare e cadeva sempre dalla bicicletta. Per loro Antonino era l’orgoglio, e lo spavento, di vederlo entrare in Polizia. Per loro Antonino era la felicità di quando portò a casa Ida per la prima volta. Per loro Antonino e Ida non erano quei corpi straziati davanti alla porta di casa. Per loro quella coppia e la loro bambina non nata erano il futuro.

E mentre Vincenzo era lì, a fissare fermo il palazzo della Questura, all’interno sparivano identikit di killer e prove, verbali di testimonianze e rilievi della scientifica. Mentre i giorni diventavano mesi, i mesi anni e gli anni decenni la barba di Vincenzo si è fatta sempre più lunga e bianca. Segreto di Stato. Questo è stato frapposto a chiunque si avvicinasse a questa storia di vita e di morte. Segreto di Stato. Talmente segreto che perfino dentro Cosa nostra in pochi ne sanno qualcosa e perfino Totò Riina, che dicono i pentiti non fosse a conoscenza di quel duplice omicidio che non aveva ordinato, tentò un’indagine interna alla mafia senza arrivare a nulla. Chi aveva ordinato quelle morti? Perché? Segreto di Stato, segreto di mafia. La stessa cosa, forse, in questo lurido caso.

Il 5 agosto del 2011 davanti al luogo dove sono stati uccisi Antonino e Ida è stata posta una stele di marmo bianco sulla quale spicca una scritta: “Qui il 5 agosto del 1989 venne ucciso l’agente di polizia Nino Agostino, giovane servitore dello Stato, insieme alla sua sposa Ida Castelluccio ed al figlio che portava in grembo. Da quel tragico giorno la famiglia attende verità e giustizia”. È stato lo Stato? No, il sindaco di Carini, Giuseppe Agrusa, il quale ha accolto l’istanza ufficiale presentata da Umberto Di Maggio, coordinatore regionale in Sicilia di “Libera”, allegando una raccolta di firme, assieme a quelle di Vincenzo e Augusta, alla quale ha partecipato anche AddioPizzo ed altre associazioni per impedire che i “silenzi di Stato” avvolgano la morte di Nino e Ida.

Ora le indagini sembrano avviarsi a un nuovo sviluppo, certo. Ma la verità è ancora lontana, e la barba di Vincenzo cresce e si fa di giorno in giorno sempre più bianca. Si indaga dal 2011 su due pezzi da novanta. Non mafiosi. Uomini dello Stato. Antonio Daloiso ex prefetto di Messina e Reggio Calabria e ex capo di gabinetto dell’Alto Commissario Antimafia (figura che dal 1992 dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio non esiste più) e poi l’ex funzionario della polizia Guido Paolilli. Non sono gli unici, ma i loro nomi spiccano fra quelli dei mafiosi, perché mafiosi non sono. E all’epoca avevano funzioni e incarichi di peso. Risulteranno colpevoli? E se si, di che cosa? Si arriverà a una sentenza, a una verità? Troveranno pace, e residua consolazione, Augusta e Vincenzo? A questa domanda, a 23 anni da quel duplice omicidio, non c’è risposta.

E al centro di questa brutta storia di vita e di morte c’è quell’anno. Il 1989, l’anno dei veleni e dell’attentato all’Addaura. Di quell’attentato che pare venne sventato da due ragazzi in giubba blu che la notte prima, travestiti da sommozzatori, disinnescarono la dinamite stipata in un borsone. Come lo avevano saputo di quella bomba? Chi l’aveva messa? Chi aveva ordinato? Quali erano gli interessi coincidenti che avevano portato a quell’atto? Antonino e Emanuele, quei due ragazzi in giubba blu, sono stati ammazzati. Possiamo solo fare ipotesi aspettando che la giustizia accerti un verità. Sperando che quella verità, come purtroppo spesso accade in questo paese, non si inceppi.

Mentre si conferma per l’ennesima volta la sentenza a Bruno Contrada ex numero due del SISDE, lo stesso servizio per il quale lavoravano Antonino e Emanuele, qualche timida speranza si riaccende. Perché la memoria è tutto. La memoria della vita ancor più del ricordo della morte.

A noi piace ricordare la vita. Quella mattina del 5 agosto, Ida e Antonino che prendono la macchina e si avviano verso la casa dei genitori di lui a Villagrazia di Carini. La pistola l’hai lasciata a casa? Si. Chi se ne importa. Guarda che bella giornata che è. Che vuoi che succeda in una giornata del genere? Una mano che tocca la pancia della donna. Una carezza a una bambina che cresce nel ventre della madre. Un sorriso che si incrocia con un sorriso gemello e la paura sfugge via dal finestrino aperto sull’estate. Che bella giornata che è. Una giornata di festa. A farsi una gran mangiata di pesce, a ridere, a fare progetti, a babbiare, a guardare al futuro. Il futuro, l’unica cosa che conti insieme all’amore. Che sono la vita. Perché di vita si parla. Chiudi gli occhi, ora, e cambia il finale.

Tratto da: orsattipietro.wordpress.com

Nella foto il primo bozzetto della copertina

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