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fiandaca-travagliodi Angelo Cannatà - 11 giugno 2014
Ho sul tavolo due libri: La mafia non ha vinto, di Giovanni Fiandaca e Salvatore Lupo edito da Laterza; E’ Stato la mafia, di Marco Travaglio, Chiarelettere. Ho finito di leggerli da qualche giorno. Li riprendo in mano per evidenziare come la realtà possa essere manipolata nonostante le annunciate/ostentate/cattedratiche dichiarazioni di scientificità. Il tema è la trattativa Stato-mafia. Le conclusioni, opposte. Fiandaca-Lupo: Cosa nostra non è stata salvata. Travaglio: c’è stata una resa ai boss delle stragi. Dove sta la verità?
Il contributo dello storico – scrive Lupo – non può ridursi alla constatazione che la trattativa Stato-mafia c’è sempre stata. “La storiografia deve spiegare come le cose sono cambiate, indicare le linee di continuità ovvero discontinuità” (pp. 16-17). Lo storico mette le mani avanti, pone questioni metodologiche e si apre alla letteratura: Leonardo Sciascia, Filologia (pp. 12-14). Poi arriva al dunque: nel processo della cosiddetta trattativa mancano le prove. La reazione stragista? “E’ possibile che la leadership mafiosa sia stata incapace di calcolare gli effetti di questa iniziativa perché in preda a una sorta di coazione a ripetere che prevedeva un’unica tattica: colpire e poi colpire ancora.

Così d’altronde aveva conquistato il potere” (p. 22). Come dire: Lupo accusa i magistrati di partire da ipotesi precostituite, ma usa – di fatto – tesi (“E’ possibile che…”) aprioristiche… precostituite. Quando si dice la scientificità! Di più. Lupo “sa” che una parte d’Italia “ha bisogno di convincersi che nel passaggio cruciale del 1992-‘93 ci siano state non solo trattative tra apparati di sicurezza, gruppi politici, esponenti mafiosi, ma ci sia stata la Trattativa tra Stato e mafia” (p. 66). Siamo alla psicologia: al racconto dei bisogni (segreti) degli italiani. Il sospetto che vogliano semplicemente conoscere la verità sulle stragi non lo sfiora nemmeno.

Dal saggio di Fiandaca mi attendevo – lo confesso – maggiore scientificità. I presupposti c’erano tutti. Studi. Cattedra. Pubblicazioni. Prestigio accademico. Ma i conti non tornano. Troppa dottrina. Pochi fatti. L’avvio è (ancora) metodologico: “Il giudice e lo storico – scrive – anche quando indagano sulle medesime materie sono portati a impiegare – a causa della diversità del mestiere – criteri di giudizio in parte comuni, in parte divergenti” (p. 69). Dopo questo dato essenziale – si fa per dire – Fiandaca arriva alla sostanza: la tesi dell’inaccettabilità etico-politica di una trattativa Stato-mafia è smentita dalla storia. Trattare con la mafia non è reato (come se l’accusa – detto per inciso – trovasse qui il suo fondamento). Poi ragiona su “l’interazione tra condanna morale e paradigma vittimario”. Rimane aperta la domanda – osserva – “se e fino a che punto sia compatibile con i principi di un moderno Stato di diritto che la giustizia penale si atteggi in qualche misura a ‘giustizia di emozioni’ sotto la prevalente angolazione della opinione pubblica e/o delle vittime dirette” (p. 72). L’attacco è alle associazioni antimafia “Agende Rosse” che acriticamente, “fideisticamente” (è la tesi di Fiandaca) sostengono i magistrati dell’accusa. Domanda: sarà per giudizi come questo che i siciliani per bene – quelli che per davvero odiano la mafia – non l’hanno votato alle elezioni europee? Ancora: quanto suonano strane (rivelatrici?), dopo la candidatura nelle liste del Pd, le sue frasi sulla trattativa “utilizzata come un’occasione di grande notorietà spendibile in arene diverse da quella giudiziaria” (p. 127).

La verità è che Fiandaca ha una tesi da sostenere alla quale piega i fatti: è “verosimile – scrive – che l'inclinazione giudiziaria a rileggere gli anni ‘92-‘94 alla luce dell’influenza esercitata dai poteri criminali rifletta una tendenza semplificatrice, dovuta all’ottica professionale, in qualche misura deformante, della magistratura impegnata nel contrasto alla criminalità mafiosa” (p. 88). E’ un’accusa pesante, esposta con cattedratica sapienza, ma priva di una prova che la giustifichi. E’ questa la sensazione che emerge dalla lettura di Fiandaca. C’è, nel libro, come un desiderio di occultare i fatti, coprendoli con la dottrina (leggiamo: Ingroia si è laureato con un docente di diritto penale, “il Fiandaca che del presente volume è co-autore”, p. 23). Siamo al principio d’autorità. L’auctoritas di Aristotele contro gli ottusi galileiani che si ostinano a guardare la realtà e indicare i fatti.

I fatti però ci sono. Ostinati. Basta aprire il libro di Travaglio, E’ Stato la mafia, per ritrovarli tutti elencati in rigoroso ordine cronologico. La prima trattativa. L’incipit è il 1991 (dicembre): “Cosa nostra attende la sentenza della Cassazione sul maxiprocesso, quello istruito dal pool di Falcone e Borsellino, il primo che ha condannato i boss della Cupola dopo decenni di impunità” (p. 17). Le condanne bruciano: “Dobbiamo fare la guerra per fare la pace”, dice Riina ai suoi. “Lo sventurato, cioè lo Stato, rispose” (p. 20). C’è stile nelle parole di Travaglio. Ma è ciò che conta meno. La narrazione si basa su fatti e documenti: una nota riservata del capo della polizia Vincenzo Parisi (p. 22); l’incontro del capitano dei Ros Giuseppe De Donno sull’aereo Roma-Palermo con Massimo Ciancimino (“lo prega di perorare la causa presso il padre per un incontro. Comincia di fatto la trattativa Stato-mafia” p. 28); eccetera. Il libro procede con rigore, citando fatti, circostanze, date: “21 giugno 1992: Riina, felicissimo per i primi contatti con il Ros, confida a Brusca: ‘Si sono fatti sotto’. E inizia a preparare il ‘papello’ con le richieste della mafia allo Stato” (p. 33). Non ci sono preamboli metodologico-scientifici nel libro di Travaglio. Si raccontano fatti. Quelli che mancano o sono oscurati/manipolati/distorti nel libro di Fiandaca. “15 gennaio 1993. Sorpresa: proprio nel giorno dell’insediamento ufficiale di Gian Carlo Caselli come nuovo capo della Procura di Palermo, viene arrestato Totò Riina. Da chi? Altra sorpresa: dagli uomini del Ros, gli stessi che fino a qualche mese prima trattavano con lui tramite Vito Ciancimino. Questi però si dimenticano di perquisire il suo covo. Guarda tu, alle volte, le combinazioni” (p. 54). E poi ancora le pagine sulla seconda trattativa, e il “Romanzo Quirinale” con le note telefonate di Mancino a D’Ambrosio e Napolitano, le intercettazioni, la guerra del Presidente della Repubblica contro la Procura di Palermo… (pp. 98-153). Si evidenzia, tra l’altro, che la trattativa ha salvato la vita di qualche politico ma ne ha sacrificate molte altre, come quella di Borsellino considerato un ostacolo, e delle vittime delle stragi del ‘93. E’ un libro che parla, con ragionevolezza, a chi voglia intendere la realtà senza pregiudizi.

Ma è proprio questo il punto. L’impressione – molto forte – è che Travaglio racconti fatti; Fiandaca interpreti e faccia filosofia del diritto, alla luce di una tesi giustificazionista che, proprio perché procede “ignorando” scientificamente i dati reali, si scontra con la loro oggettività. L’esimio penalista cita un testo di Ferraioli, Nuove massime di deontologia giudiziaria. In verità, un libro molto utile – contro gli eccessi del giustificazionismo – è I limiti dell’interpretazione di Umberto Eco. Scrive: “Le congetture andranno provate sulla coerenza del testo e la coerenza testuale non potrà non disapprovare certe congetture avventate.” Si parla di ermeneutica dei testi, certo, ma il discorso vale anche in ambito giudiziario. Le interpretazioni non possono prescindere dai fatti. Lo consiglio per l’estate al professor Fiandaca.

Fonte: temi.repubblica.it

Tratto da: 19luglio1992.com

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