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roccuzzo-gambino-orioles-favadi Valeria Grimaldi - 9 gennaio 2014
Gianluca, in macchina per le vie di Catania, racconta che venivano chiamati “I quattro moschettieri”; un’espressione che ti riporta subito al titolo del Direttore, quel 22 dicembre 1982: “I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa”. Questi, però, sono quelli di segno opposto. I quattro moschettieri ce li siamo ritrovati lì, di fronte ai nostri occhi esattamente 30 anni dopo l’omicidio del loro direttore, Pippo Fava. I Siciliani erano molti più di quattro: c’erano donne e giornaliste straordinarie (Graziella, Elena, Cettina e molte altre che non abbiamo conosciuto), c’erano i volontari, i sostenitori, c’erano i lettori (che crescevano di mese in mese). A trent’anni da quel giorno in cui il Direttore, Pippo Fava, venne ucciso da Cosa nostra, si sono dati appuntamento idealmente e sul palco attraverso le parole, gli sguardi e il cuore dei “quattro moschettieri” Una giornata storica, per certi versi. Una giornata che trent’anni fa per ciascuno di loro ha segnato il passaggio definitivo ad altre vite. Diverse, lontane, complesse.

Ci troviamo al Centro Zo di Catania, due passi dal porto e dal mare: Claudio Fava, Michele Gambino, Antonio Roccuzzo e Riccardo Orioles, tutti seduti uno di fianco all’altro, parlano, ridono, scherzano, ricordano. A cercare di tenere a bada i moschettieri (ma poco dopo ne diventa irrimediabilmente il quinto) c’è Maurizio Chierici, lì presente per il conferimento del “Premio Giuseppe Fava” da parte della Fondazione presieduta dalla figlia del Direttore, Elena. Si assiste ad una rimpatriata tra vecchi amici, senza sentirsi fuori posto: ridi alle battute, immagini episodi lontani, cogli le affettuose prese in giro; fai il punto della situazione anche tu, dei trent’anni appena passati o di quelli che devono ancora arrivare: che tu abbia venti o sessant’anni, poco importa. E’ un continuo spostarsi sulla linea del tempo: chi sta ad ascoltare viene spostato su questo filo sottilissimo lungo 30 anni. Prima trasportati nella redazione, in via Umberto 41 a Sant’Agata Li Battiati; e poi subito catapultati nella Sicilia di oggi, nell’Italia di oggi, a chiederci quanto un’eredità del genere ha pesato, se l’ha fatto, come. Sicuramente in tutti e quattro si scorge quella luce negli occhi, la stessa luce di quand’erano ragazzi, e si ha la sensazione, quasi la sicurezza, che questa non li abbia mai abbandonati, nemmeno per un istante, nonostante ragazzi non lo siano più.  Dicevamo, siamo in macchina. Le luci di Catania ci avvolgono, mentre siamo diretti nella sede dell’associazione “Città Insieme”, che ospiterà la nostra riunione. Si perché inspiegabilmente (o forse no), trent’anni dopo una conquista grande, immensa, l’abbiamo ottenuta: i cavalieri sono altrove, ridimensionati e meno potenti, i Siciliani ci sono ancora. E sono di nuovo giovani, come quelli di allora: perché i giovani più di chiunque altro possono essere veramente liberi, come diceva il Direttore. La riunione è un susseguirsi di volti, luoghi, esperienze diverse: una rete che attraversa tutto il Paese e che si incontra lì faccia a faccia a discutere, porre problemi, creare qualcosa; scambiarsi ossigeno per respirare in una realtà circostante che difficilmente ci osserva e che invece noi non smettiamo mai di raccontare.

C’è la cronista milanese, che racconta il lavoro in quella terra lontana e apparentemente cristallina, tra querele, inchieste sul territorio contro i grandi poli economici, come l’Expo 2015. Ci sono i cronisti bolognesi, un misto tra scassaminchia e cuori teneri: raccontano le lancette di un orologio che si è fermato, che da qualche parte dovrà pur ripartire, con l’accensione di ogni singolo ingranaggio, chiedendo l’aiuto di tutti. C’è quello napoletano: tra le strade dei quartieri spagnoli, l’attività nelle scuole e quella documentaristica, creano una finestra che parte dalla città vesuviana e si affaccia sulle storie del mondo. Ci sono quelli di casa, i catanesi, la città da dove tutto è partito e dove quel giorno erano puntati i riflettori: la rete è una risorsa preziosa, dicono, ma le maglie sono ancora troppo larghe; bisogna avvicinarsi, stringere più mani, fra di noi e anche col mondo esterno, con chi ha il dovere di darci ciò che ci spetterebbe di diritto; e parte un simpatico, chiassoso botta e risposta sui beni confiscati presenti sul territorio. Le conclusioni, dense e forti: una boccata d’aria, come qualcuno dice, attraversa la stanza. Una voglia di riscatto e rivincita da parte di una giovane generazione che pure intravedendo un orizzonte incerto e grigio, batte i piedi e alza la voce ancora più forte. “… Hanno rifiutato l’ “ognuno per sè” e “la mia carriera” – ha scritto in un suo articolo Riccardo Orioles - la cifra fondamentale del nostro tempo. Forse con le sconfitte e col tempo cambieranno. Ma ora sono così “. Trent’anni, e siamo ancora qua.

Tratto da: liberainformazione.org

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