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palazzolo-salvoINCHIESTA - La nuova mafia/1
di Salvo Palazzolo
Crediti facili, prestanome e dirigenti complici. A Brancaccio chiusa una filiale. In un anno sequestrati 22 milioni nei conti correnti
QUANTO contano oggi i mafiosi e i loro complici a Palermo? Indagini e processi li hanno relegati ai loro affari criminali — dal racket delle estorsioni al traffico di droga — oppure sono ancora ammessi nei palazzi della buona società e dell’economia palermitana?
TRENT’ANNI fa, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino iniziarono a scrivere la storia dell’antimafia andando a guardare dentro le banche di Palermo: così capirono cos’era diventata l’organizzazione Cosa nostra. Capirono gli affari e la geografia delle cosche a Palermo, capirono soprattutto quanto potere avevano i mafiosi, quanto facevano paura e quanto erano corteggiati dalla cosiddetta città bene. Trent’anni dopo — trent’anni di una lotta durissima — bisogna tornare a guardare dentro le banche di Palermo per capire se davvero la lotta a Cosa nostra è vinta. In questi ultimi anni, alcuni investigatori e magistrati lungimiranti hanno già guardato dentro i forzieri di alcuni istituti di credito — alcune volte di proposito, altre volte ci sono finiti per caso — ed è emersa una drammatica realtà: Cosa nostra resta infiltrata nel sistema bancario. Non sono più i tempi della Cassa rurale artigiana di Monreale, banca che fino all’inizio degli anni ‘90 era punto di riferimento organico per interi clan, ma boss e insospettabili prestanome possono contare ancora su complici eccellenti all’interno di diversi istituti di credito di città e provincia. Per aprire un conto senza problemi, per godere di scoperture e prestiti di favore. E se non c’è complicità, c’è il timore di segnalare operazioni e conti sospetti. Segno di un potere mafioso mai sopito.

CAVEAU SPORCHI
Repubblica ha incontrato i magistrati e gli investigatori che hanno condotto le ultime allarmanti inchieste su funzionari e dirigenti delle banche palermitane, ha potuto consultare gli atti delle loro indagini. Così è nato un viaggio nei segreti della nuova mafia. Perché i soldi di Cosa nostra, gestiti da insospettabili prestanome, non sono mai usciti dalle banche di Palermo — nonostante decine di sequestri e confische — sono cambiati solo gli intestatari dei conti. Lo dice l’ultima rilevazione del comando provinciale della Guardia di finanza, che fra il 2012 e i primi sei mesi di quest’anno ha sequestrato 22 milioni di disponibilità finanziarie. Undici milioni e ottocento mila euro sono stati trovati in conti correnti, due milioni 150 mila erano in depositi titoli, cinque milioni e 400 mila in libretti di risparmio, due milioni 650 mila in polizze assicurative e altri prodotti finanziari. Questi soldi conservati nei caveau delle banche sono la linfa delle aziende di mafia, quelle sequestrate dalla Finanza valgono un miliardo di euro.
Le banche, dal canto loro, hanno spesso (ma non sempre) licenziato i dipendenti spregiudicati e infedeli. Ma è solo questione delle solite mele marce? Dotempo manda che nasce spontanea dopo aver osservato il preoccupante dato registrato dalle indagini antimafia. Anche negli anni ‘80, erano stati sorpresi funzionari di banca con le mani nel sacco. Ma negli ultimi dieci anni, le inchieste hanno scoperto che i mafiosi puntano direttamente ai vertici delle filiali. Perché i controlli alla cassa sono aumentati, ed è necessario avere entrature più in alto per ottenere i favori giusti.

UN DIRETTORE PER AMICO
I prestanome del clan di Brancaccio, quello dei fratelli Filippo e Giuseppe Graviano — i boss delle stragi ‘92-’93 rinchiusi al carcere duro — potevano contare su una grande disponibilità alla filiale di Banca Intesa di via Orsa Maggiore 22. E non solo i prestanome dei Graviano, anche altri gruppi mafiosi avevano un trattamento di favore: potevano andare molto oltre l’affidamento concesso e i prestiti si moltiplicavano a dismisura. Con il beneplacito del direttore e di due funzionari. Questa è una storia davvero emblematica di come la pressione di Cosa nostra sugli istituti di credito palermitani sia ancora forte: neanche la nuova gestione nata il primo gennaio 2007 dalla fusione fra Banca Intesa e Sanpaolo Imi è riuscita a frenare la voracità dei manager di Cosa nostra. E così, a fine 2009, la filiale di via Orsa Maggiore è stata chiusa. All’epoca, venne inviata una lettera dai toni vaghi a tutti i correntisti, per informarli che era in atto una riorganizzazione di Intesa Sanpaolo sul territorio. E sino ad oggi non si è mai saputo nulla delle infiltrazioni mafiose in quella filiale. Adesso, per la prima volta, è possibile raccontarla questa storia che ha dell’incredibile.
Repubblica l’ha ricostruita attraverso quattro fonti, bancarie, investigative e giudiziarie. Perché — ed è l’unico dato positivo della vicenda — qualche prima della chiusura, nel vortice delle pressioni mafiose sulla banca, i vertici siciliani di Intesa Sanpaolo hanno fatto partire delle segnalazioni per operazioni sospette, quelle che non erano mai state fatte nella filiale di via Orsa Maggiore, e il nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di finanza ha subito attivato la Procura. Ma non è bastato per salvare la filiale, che ha dovuto comunque chiudere, per il fardello di 2,7 milioni di euro di crediti in sofferenza.

INSOSPETTABILI PRESTANOME
Le indagini dell’allora procuratore aggiunto Roberto Scarpinato e dei sostituti Vania Contrafatto e Dario Scaletta dicono che era una coppia di insospettabili imprenditori, Angelo Lo Giudice e Rosa Bompasso, a gestire il tesoro dei boss Graviano, una rete di distributori di benzina sparsi per la città (sono stati sequestrati a fine 2011, hanno un valore di 32 milioni di euro). Lo Giudice dialogava senza problemi con il direttore della filiale di via Orsa Maggiore, Lorenzo Mazza. Se ne accorsero presto i vertici siciliani di Intesa Sanpaolo che la gestione del credito in via Orsa Maggiore era alquanto spregiudicata: ovvero, la banca era diventata un bancomat senza fondo per alcuni clienti sempre in cerca di liquidità. Così ha spiegato il direttore dell’area Sicilia di Intesa Sanpaolo, Salvatore Immordino, convocato dalla Finanza nel giugno 2009: «L’ex capo area di Intesa mi riferì circa la complessità storica gestionale della filiale in questione per problemi relativi a clientela sensibile».
Clientela sensibile. Ma fino a quel momento i vertici di Banca Intesa non avevano mai chiamato il direttore Mazza. Cosa che invece decise di fare il nuovo capo area. Ecco come prosegue il suo racconto finito in Procura: «Mazza ci rassegnò l’impotenza nella gestione della filiale, auspicando il suo allontanamento o addirittura la chiusura della filiale». Quel direttore era complice o vittima dei boss? È finito sotto indagine, poi la sua posizione è stata archiviata. Ma è stato comunque allontanato dalla banca. Restano i racconti di quella palude che era diventata la filiale di via Orsa Maggiore.
Nel novembre 2008, la direzione di Intesa Sanpaolo inviò una lettera formale a Mazza, per sollecitarlo al rientro dei debiti del gruppo Lo Giudice-Bompasso. Qualche giorno dopo, il signor Lo Giudice, accompagnato da un’altra persona, si presentò spavaldo nella sede centrale di Intesa Sanpaolo, in via Roma. Con la lettera riservata che la direzione aveva inviato al preposto. Furono momenti di grande tensione. Lo Giudice tolse tutti dall’imbarazzo: disse che al momento non poteva rientrare dalle esposizioni debitorie, perché doveva mantenere alcune persone in carcere, con le relative famiglie. E andò via. Dopo quella visita Intesa Sanpaolo decise che la filiale di Brancaccio andava chiusa. Ed eventualmente in un secondo momento sarebbero partite le operazioni di recupero crediti per via giudiziaria.

BOSS AL BANCOMAT
Più di ogni altro racconto, una tabella di Intesa Sanpaolo con alcuni numeri racconta come alcuni gruppi imprenditoriali erano riusciti a impossessarsi della filiale. E in quei numeri c’è anche un pezzo di geografia della mafia palermitana, che sembra tutt’altro che ridotta all’angolo da inchieste e sequestri. Il gruppo Lo Giudice- Bompasso aveva un flusso canalizzato di quasi 24 milioni di euro annui su 14 conti correnti: aveva una affidamento di 365 mila euro, ma in realtà aveva uno scoperto di un milione 700 mila euro. Stesso trattamento di favore aveva il gruppo “Vernengo Pennino”, impegnato nel commercio di alimenti: le indagini dicono che è vicino a esponenti mafiosi di Santa Maria di Gesù. Aveva un affidamento di 99 mila euro, lo scoperto ammontava invece a 217 mila euro. Il direttore Mazza chiudeva un occhio anche per gli scoperti del gruppo “De Simone”, riconducibile Giovanni De Simone, di Branspetti caccio, arrestato nel blitz di squadra mobile ed Fbi fra Palermo e New York. Il gruppo gestiva bar e forniture di caffè.

SEGNALAZIONI SOSPETTE
La Sicilia è solo al nono posto per la segnalazione di operazioni sospette. Le banche dell’isola e in generale del meridione non brillano proprio per cultura antimafia, lo dice l’ultima relazione della Direzione nazionale antimafia presentata al Parlamento: La Sicilia è davanti solo alla Calabria. Ma la lotta finanziaria all’Ndrangheta è comunque assicurata, perché fra la Lombardia e la Calabria sono arrivate nel 2012 rispettivamente 79 e 27 segnalazioni riguardanti movimenti so in banca di ndranghetisti. Le banche siciliane ne hanno evidenziate solo 42 su un totale di 3003 (il 4,66 della cifra nazionale, pari a 64 mila segnalazioni).

INCHIESTE E SPORTELLI
L’ultimo direttore di filiale finito in manette, due anni fa, si chiama Igor Mazzola, dal 2003 al 2007 ha diretto l’agenzia della Banca Intesa di corso Calatafimi: nel dicembre dell’anno scorso è stato condannato per favoreggiamento a due anni, pena sospesa. La storia di Mazzola — scritta nell’indagine del pm Carlo Marzella, dei finanzieri del Valutario e dei carabinieri del nucleo Investigativo — è stata liquidata velocemente sui giornali, lui si è difeso dicendo che aveva paura e soggezione di alcuni clienti che si presentavano in banca, certi brutti ceffi di corso Calatafimi. Ma è davvero così? Diceva il direttore Mazzola a un imprenditore vicino ai boss di Altofonte, Giovanni Vassallo: «Lei ha un conto da pensionato. Lei questi movimenti così grossi non li deve fare perché prima o poi sono costretto a farle chiudere il conto, me lo imporranno: ma perché dobbiamo arrivare a questo punto, io mi sento pure mortificato, quante volte glielo devo dire, pure lei gioia mia». Alla filiale non era solo Vassallo ad avere un trattamento di favore, anche i boss del pizzo. Lo ha raccontato il pentito Angelo Casano: «Quando mi serviva molto contante andavo direttamente da Mazzola».

INVITO A CENA
Sono davvero tante le storie di piccole grandi complicità di bancari finite nelle intercettazioni della Procura di Palermo. La più curiosa ci porta a una sontuosa cena. «Ciao compà, per domani sera dieci persone, però mi raccomando il pesce, sono persone che ci teniamo in modo particolare». Era il 3 gennaio 2002. Il boss di San Lorenzo Giovanni Niosi diceva al suo amico ristoratore, molto noto in città: «A nome Ciulla. E’ il direttore della Bnl questo, tu falli mangiare bello sistemato, ci facciamo fare un prestito buono». Due giorni dopo, il ristoratore chiamò il boss: «Vedi che quelli ieri sera se ne sono andati contentissimi compa’, io ho fatto quello che hai detto tu». Niosi chiosò: «Perché questi sono direttori di banca, gente che possono interessare».
11 ottobre 2013


Aziende e soldi all’estero i patrimoni nascosti gestiti ancora dai boss
I tesori occultati da Riina, Graviano e Lo Piccolo
La nuova mafia/2
di SALVO PALAZZOLO - 12 ottobre 2013
CERCANDO il filo dei soldi sporchi, si ritorna sempre nel ventre molle di Palermo. All’appello mancano anche i patrimoni della vecchia mafia, quella scalzata dalla guerra del 1981 voluta dai Corlonesi. Se ne rammaricava persino un capomafia di peso come Antonino Rotolo, che nel 2006 si oppose con tutte le sue forze al ritorno a Palermo degli “scappati”, i superstiti degli anni Ottanta che avevano trovato rifugio negli Stati Uniti. «A loro sono rimasti i beni, a noi li hanno levati», diceva Rotolo, e non sospettava di essere intercettato dalla squadra mobile. Poi, nel luglio 2006, il blitz “Gotha” bloccò entrambi gli schieramenti. In cinquanta finirono in carcere. Ma molti altri ormai ex “scappati” hanno continuato a fare la spola fra gli Stati Uniti e la Sicilia: sono quarantenni che apparentemente non hanno mai commesso reati, ma negli ultimi anni si sono trovati spesso nelle vicinanze di summit e incontri fra i padrini ufficiali di Palermo. Qual è il ruolo di questi giovani? Quali patrimoni custodiscono?

IL TESORO DI LO PICCOLO
Sommando tutti gli incassi segnati nei pizzini trovati dalla polizia nel covo dei boss Salvatore e Sandro Lo Piccolo, il 5 novembre 2007, si arriva a circa un milione e mezzo di euro. Solo per quell’anno. Erano i soldi pagati dai commercianti del centro città. Pagavano anche di più negli anni precedenti. Quei soldi non sono stati mai trovati. Impossibile che siano serviti solo per gli stipendi dei mafiosi, per il sostentamento delle famiglie dei carcerati, o per la bella vita di qualche giovane padrino. Lo dice anche uno di quei ragazzi terribili, oggi collaboratore di giustizia, si chiama Angelo La Manna: «In alcuni conti correnti dell’agenzia di Villagrazia di Carini della Banca di Lodi è transitato quasi un milione di euro appartenuto a mafiosi legati a Lo Piccolo. C’era un direttore che favoriva Cosa nostra, tale Bruno, che dava anche soldi ad usura». Naturalmente, alla filiale, non andavano mai i padrini, solo i loro prestanome, una schiera di imprenditori impegnati nel campo dell’edilizia e della grande distribuzione. Il pentito sostiene pure che c’era un tale ragioniere La Porta ad occuparsi del reclutamento dei prestanome: «E’ una persona di fiducia della famiglia di Carini e si occupa di gestire i soldi di questa, attraverso l’apertura di conti correnti intestati a persone sconosciute presso le agenzie di Carini degli istituti Carige, Banco di Sicilia, Banca Nuova e Banca di Lodi». Questa volta, però i vertici della Banca di Lodi sono arrivati prima della magistratura, si sono accorti per tempo della gestione spregiudicata della filiale di Villagrazia. E dopo un’ispezione, che metteva in risalto «rilevanti anomalie», sono arrivati anche alcuni licenziamenti, «per giusta causa». Ma il tesoro di Lo Piccolo continua a non trovarsi.

UNO SPALLONE IN SVIZZERA
Nel 2006, la caccia alle ricchezze dei boss di San Lorenzo è ripresa quasi per caso. I sostituti procuratori Gaetano Paci e Nico Gozzo, con i finanzieri del Gico, indagavano sul re dei supermercati Sisa, l’imprenditore palermitano Paolo Sgroi: fu pedinato a Milano fino a quando consegnò a uno spallone 450 mila euro che dovevano partire al più presto per una banca svizzera. Poi, i militari sequestrarono il denaro.
Il giorno prima, una microspia aveva sorpreso Sgroi mentre parlava col fratello di un articolo uscito su Repubblica: «Mi ficiru lieggiri ddoco un pizzino scritto chi me manu». Era preoccupato Paolo Sgroi per un bigliettino trovato nel covo di Bernardo Provenzano, chissà perché. Il giorno dopo partì per Milano. E i finanzieri lo seguirono. Nella borsa sequestrata, dieci mazzette da cento banconote di 50 euro avevano una fascetta con l’intestazione della Banca popolare di Lodi. Gli accertamenti della Procura hanno scoperto che quei soldi provenivano proprio dalla filiale di Villagrazia di Carini, già finita nell’occhio del ciclone qualche tempo prima. Secondo i magistrati, che hanno analizzato le operazioni della banca, quei 50 mila euro erano riferibili a mafiosi di Carini legati ai Lo Piccolo. Di sicuro, Sgroi non ha mai avuto alcun conto corrente presso la filiale di Villagrazia della Bpl. Così, dunque, quella strada verso la Svizzera può essere stata utilizzata chissà quante altre volte per far espatriare patrimoni sporchi, grazie alla complicità di insospettabili imprenditori.

BUONI CONSIGLI IN BANCA
Sgroi, dal canto suo, si è difeso all’italica maniera, spiegando che si era rivolto al «dottore Francesco Grillo della Unicredit private banking di piazza Croci» per «fare del nero». Come fanno tutti in Italia, e pure a Palermo. «Mi fu prospettata l’apertura di un conto in una banca svizzera consociata, la Unicredit Suisse». Non era solo Sgroi ad avere voglia di Svizzera. Leggete cosa ha detto ai pm di Palermo il direttore generale delle sede di Lugano della Unicredit Suisse, Alberto Lotti: «Alla fine del 1999 venni a Palermo con i miei collaboratori con l’obiettivo di conoscere potenziali clienti per la banca. A Palermo il signor Grillo ci ha presentato 6 o 7 clienti tra i quali Sgroi». Persino il bancario svizzero ha dovuto ammetterlo: «Premetto che Palermo non è un luogo a rischio secondo l’applicazione interna dell’ordinanza sul riciclaggio di denaro. Tuttavia ritengo che la clientela palermitana, in via teorica, presenti maggiori rischi di quella genovese, in quanto sappiamo che in alcune zone d’Italia è più probabile la connessione con la criminalità organizzata. Per questo vogliamo che i clienti ci vengano presentati in modo forte». Così fu per Sgroi, presentato con tutte le referenze. Ma tante referenze non sono bastate alla magistratura, che due anni fa ha sequestrato il patrimonio di Paolo Sgroi, un impero da 250 milioni di euro.

L’OSPEDALE DELL’ARCHITETTO
Un’altra pista ha riportato in Svizzera il sostituto procuratore Francesco Del Bene, che non ha mai smesso di cercare il tesoro di Lo Piccolo. Tre anni fa, i finanzieri del nucleo speciale di polizia valutaria trovarono un appunto importante sulla scrivania dell’architetto Giuseppe Liga, il successore di Salvatore Lo Piccolo, arrestato per associazione mafiosa. In un foglio c’erano riferimenti a conti esteri: in Svizzera, Lussemburgo e Gran Bretagna. Su quei conti sarebbero passati quasi 70 milioni di euro. Così almeno diceva l’appunto di Liga, che segnava pure una divisione per quattro. Una quota era probabilmente per lui, «la mente finanziaria del clan Lo Piccolo» l’ha chiamato il pentito Isidoro Cracolici in tempi non sospetti, nel 1998. Ma i numeri trovati non hanno portato ad alcun sequestro. In Svizzera, il conto era vuoto. Lussemburgo e Gran Bretagna hanno risposto ai pm di Palermo che le indicazioni fornite erano troppo poche per risalire a un conto. E le indagini si sono arenate.
Così il mistero sul tesoro dei Lo Piccolo è rimasto. Alimentato da alcune intercettazioni: l’architetto diceva di voler finanziare la costruzione di un grande ospedale in Africa. Un altro mistero. Di certo, lui viaggiava spesso all’estero. Ufficialmente, per impegni legati al suo ruolo di reggente siciliano del movimento cristiano lavoratori. In realtà, faceva affari.

I GRAVIANO IN SOCIETÀ
L’ultimo sequestro ai boss delle stragi risale a due anni fa: le indagini della Finanza, coordinate dai pm Dario Scaletta e Vania Contrafatto, hanno fatto scattare un provvedimento da 32 milioni di euro, tanto valevano i distributori sequestrati in città. Loro, i fratelli Graviano, sono al carcere duro ormai dal 1994, ma i familiari continuano a fare una vita agiata a Palermo. Questo dicono le indagini della squadra mobile coordinate dal pm Francesca Mazzocco. La sorella Nunzia abitava in una bella palazzina di via Randazzo 6, zona via Archirafi. Per una curiosa coincidenza — ha rilevato lo Sco della polizia — a quell’indirizzo c’era anche la sede palermitana del “Consorzio stabile Miles servizi integrati”: la società si è aggiudicata diversi appalti di pulizia negli anni scorsi (alla stazione di Palermo, al comando dei vigili del fuoco di Enna, all’azienda ospedaliera di Messina). Uno dei dipendenti del Consorzio era il signor Salvatore Pilastro, il suo cellulare lo usava Giuseppe Faraone, uno dei principali prestanome dei Graviano. E anche Faraone ha lavorato per qualche tempo per il consorzio Miles. Faraone utilizzava pure un altro cellulare, intestato alla “Immobiliare Milanese Carlero”, una holding che controlla 21 società: fra queste la “Realizzazione tecno edili R. T. E.” con sede a Roma, anche questa società ha avuto Faraone fra i suoi dipendenti, fra il 2007 e il 2008. Le analisi della polizia dicono pure che nel 2010 Faraone ha lavorato per l’impresa “Cooperativa compartimentale siciliana”, impegnata nel settore delle pulizie in ambito ferroviario. Oggi Faraone è in carcere. E conserva ancora molti segreti economici dei boss di Brancaccio.


Energia, edilizia e market la mafia spa vale un miliardo
La nuova mafia/3
SALVO PALAZZOLO - 15 ottobre 2013
C’È UNA fabbrica a Palermo che lavora giorno e notte, 365 giorni all’anno. E’ una fabbrica che non sembra conoscere crisi. Anzi, continua a fare continue assunzioni, a tempo indeterminato. E’ la fabbrica dei prestanome e dei soci di Cosa nostra. Una fabbrica che conta nella città. Perché i numeri dei prestanome restano rilevanti: quasi trecento negli ultimi due anni. E la qualità dei soci è sempre più in crescita, come se fosse scoppiata un’insopprimibile voglia di mafia nell’imprenditoria siciliana, per accaparrarsi capitali sporchi.
I DATI del Comando provinciale della Guardia di finanza di Palermo parlano di 120 aziende sequestrate fra il 2012 e primi sei mesi del 2013: valgono un miliardo di euro. La maggior parte non sono imprese mafiose in senso stretto, ovvero gestite direttamente dai prestanome dei boss, ma sono imprese di insospettabili imprenditori, a partecipazione mafiosa. Si tratta di numeri rilevanti, che descrivono la persistenza dell’inquinamento mafioso nell’economia palermitana. A Trapani, la gestione del superlatitante Matteo Messina Denaro ha portato agli insospettabili soci dividendi anche maggiori: il bilancio dei sequestri effettuati nell’ultimo anno e mezzo dalla Direzione investigativa antimafia parla di aziende che hanno un valore di tre miliardi. E’ il fatturato di pochi gruppi imprenditoriali. «E’ la holding di Matteo Messina Denaro — spiega il colonnello Giuseppe D’Agata, il capocentro della Dia di Palermo — quegli affari sono la linfa vitale per una latitanza ormai diventata ventennale. Ecco perché l’obiettivo primario delle indagini è ormai diventato quello di mettere in crisi il polmone finanziario di Messina Denaro, colpendo i suoi interessi economici».

LE LINEE DI INVESTIMENTO
Nei provvedimenti di sequestro c’è soprattutto la geografia delle infiltrazioni mafiose nell’economia siciliana. Secondo i dati del comando provinciale della Guardia di Finanza di Palermo, il settore più a rischio resta quello della grande distribuzione: le 14 imprese sequestrate negli ultimi due anni valgono 640 milioni di euro. Segue l’ambito energetico e ambientale, con tre società sequestrate che hanno un valore di 283 milioni. Poi, quello delle strutture turisticoalberghiere, con tre società da tre milioni di euro. Un rilevante rischio di infiltrazioni resta anche nell’edilizia: sono 16 le ultime società mafiose individuate in città dai finanzieri del Gico della Finanza, hanno un valore di quasi 20 milioni di euro. Sei sono le società operanti nel settore dei trasporti, per un valore di 10 milioni. Valgono invece 8 milioni le aziende sequestrate nel settore del commercio e dei servizi, sono ben 17. Otto gli ultimi bar e i ristoranti tolti ai boss, valgono un milione e trecento mila euro. Sette i distributori di benzina, valore quattro milioni di euro. Due le sale scommesse. In questi dati ci sono le linee strategiche di investimento adottate ormai da Cosa nostra, anche nel territorio trapanese, dove c’è però una netta prevalenza di sequestrati nell’ambito dell’energia pulita e del turismo. «In questi settori — spiega il colonnello D’Agata — l’organizzazione mafiosa investe riciclando il danaro sporco. Il nostro obiettivo è quello di restituire alla collettività i patrimoni acquisiti illecitamente». Ma Cosa nostra è sempre alla ricerca di nuovi settori di investimenti, questo dicono le indagini del comando provinciale dei carabinieri: nella rete dei sequestri milionari sono finite anche aziende che commercializzano fiori o cereali. Il business non può fermarsi. Il questore Nicola Zito ha disposto il sequestro anche di una gioielleria, che era nel patrimonio dei capimafia di Brancaccio.

IL POPOLO DEI PRESTANOME
«Attraverso due sistemi l’organizzazione mafiosa si infiltra nella società», spiega il generale Stefano Screpanti, comandante provinciale della Guardia di finanza di Palermo. «Il primo è quello in cui il mafioso si spoglia della titolarità formale della propria ricchezza e delle proprie imprese, e le intesta fittiziamente a un prestanome, ma continua comunque a esercitarne occultamente la gestione e a percepirne i proventi. E’ un metodo che generalmente viene applicato ad attività svolte in forma di ditte individuali o società di capitali a ristretta base azionaria e con capitale minimo iniziale». Le analisi della Guardia di finanza dicono che in queste società i prestanome sono giovani o
molti anziani: «In entrambi i casi sono privi di adeguate risorse finanziarie proprie — aggiunge il generale Screpanti — e anche delle competenze tecnico-professionali tipiche del settore in cui opera l’impresa».
Le indagini degli ultimi anni dicono che la categoria dei prestanome guadagna da 800 a 2500 euro al mese. Con la possibilità di fare carriera nella catena di montaggio mafiosa, ma anche con il concreto rischio di finire in manette per intestazione fittizia di beni. In tempi di crisi, però, il lavoro del prestanome sembra riscuotere successo. I boss di Brancaccio ne avevano reclutati addirittura una quarantina per gestire una rete di distributori in città. I boss della Noce avevano assunto quindici persone per mandare avanti una ben avviata catena di centri scommesse in centro. La moglie di Salvo Madonia, temuto capo e killer di Resuttana, poteva contare su una rete di dieci incensurati per gestire i beni di famiglia. Si sono difesi tutti allo stesso modo, invocando lo stato di necessità e spiegando soprattutto che quel «posto di lavoro» gli era stato offerto da un amico o al massimo da un conoscente, «una persona per bene, non potevo certo immaginare che fosse un mafioso». Ma 90 volte su cento i prestanome vengono smentiti dalle intercettazioni.

LA RIVOLTA DELLE TESTE DI LEGNO
Le microspie raccontano pure l’altra faccia di questa storia, che non è fatta solo di feconto assoluta ai boss. Il signor Gaspare Bonura, ad esempio, aveva accettato di gestire tramite la moglie due negozi di abbigliamento in corso Camillo Finocchiaro Aprile — Uomo in e Donna in — per conto del capomafia della Noce Fabio Chiovaro, con la concreta speranza di costruire qualcosa per i propri figli. Ed era disposto a fare le cose per bene, come fosse un imprenditore impeccabile. Ma accadde un imprevisto: la moglie del boss Chiovaro voleva gestire le attività più da vicino. E Bonura iniziò a protestare: «C’erano dei patti, che lui non ha mantenuto». Lui è il boss Chiovaro. «Lui si doveva stare zitto, i negozi erano miei e basta». Alla fine Bonura assunse la moglie del capomafia. Ed evitò spiacevoli conseguenze. Anche perché, generalmente, i datori di lavoro mafiosi non vanno per il sottile quando ci sono di mezzo le loro aziende. Ne sa qualcosa Michele Cardinale: prima, uno dei riciclatori più fidati del mandamento di Salvatore Lo Piccolo, qualche anno dopo finì sul lastrico perché la società che gestiva per dei boss era fallita. Un fallimento pilotato dai padrini, perché i soldi dei clan dovevano essere dirottati su altre attività. E il prestanome non aveva altro. Se ne accorsero i poliziotti che la mattina del blitz lo cercavano per arrestarlo: lo trovarono su una panchina dell’ospedale Civico, era diventato un barbone.

L’IMPRESA MAFIOSA
Il secondo sistema attraverso cui Cosa nostra si infiltra nell’economia siciliana è quello della cosiddetta «impresa a partecipazione mafiosa», così la chiama il comandante provinciale della Guardia di finanza Stefano Screpanti. Spiega: «Si tratta di un’impresa, a volte anche di complessa struttura societaria, costituita in maniera del tutto legale da un normale imprenditore, che già all’inizio dell’attività, o anche dopo, instaura rapporti di cointeressenza o di compartecipazione con esponenti mafiosi. Sia per ottenere fonti di finanziamento, evidentemente di origine illecita, sia per affermarsi ed espandersi sul mercato grazie alla forza di intimidazione propria dell’organizzazione mafiosa e al controllo da questa esercitato sul territorio». In questo caso l’imprenditore non può essere definito un prestanome: «Piuttosto, è un operatore economico che persegue i propri obiettivi imprenditoriali — spiega il generale Screpanti — e soprattutto conserva la titolarità ufficiale e la gestione di fatto del suo patrideltà monio e della sua impresa, scegliendo di creare un rapporto stabile con l’organizzazione mafiosa e quindi operando anche nell’interesse dell’organizzazione stessa, con cui spesso concorda le scelte strategiche».
Così sono scattati maxi sequestri per imprenditori che vent’anni fa erano titolari di piccole ditte, poi hanno fatto una grande fortuna, non è ben chiaro come. Non certo perché si è avverata la favoletta del self made man, ma perché mafiosi di rango hanno offerto capitali e soprattutto protezione, anche per consentire agli imprenditori di gestire in regime di monopolio in un dato territorio della Sicilia. E’ la storia di un pezzo di imprenditoria di casa nostra, che in questi anni ha visto finire nelle indagini antimafia nomi simbolo. E un settore più di tutti è stato colpito in modo pesante dalle indagini, quello della grande distribuzione: da Palermo a Trapani, da Agrigento a Catania. I sequestri sono scattati per Sgroi, patron dei supermercati Sisa; Ferdico, altro simbolo della grande distribuzione palermitana; per Giacalone, instancabile animatore degli Eurospin; per Grigoli e Scuto, fino a qualche anno fa giganti del marchio Despar. Tutti hanno iniziato con una bottega e poi all’improvviso hanno fatto il grande salto imprenditoriale con capitali freschi la cui origine rimane oscura dentro bilanci confusi e pasticciati, per questa ragione scattano i sequestri e le condanne. Anche se qualcuno continua a difendersi con i denti: è il caso di Giuseppe Ferdico, che sostiene di essere solo vittima dei mafiosi. Ammette di avere pagato il pizzo, attraverso qualche assunzione, «ma solo per il quieto vivere», nega però con decisione di avere mai riciclato soldi dei Lo Piccolo. Dalla grande distribuzione al commercio: la Dia ha sequestrato di recente anche il patrimonio del patron di Bagagli, marchio leader nella pelletteria. E adesso, le ultime indagini stanno cercando di scavare nelle storie e nei bilanci di imprenditori palermitani che hanno sfondato nel settore degli abbigliamenti.


La “nuova” Cosa nostra ha un esercito di 2 mila affiliati
La nuova mafia/4
di SALVO PALAZZOLO - 16 ottobre 2013
NEGLI ultimi cinque anni, i boss delle famiglie palermitane hanno cercato due volte di ricostituire la commissione provinciale di Cosa nostra, la direzione strategica dell’organizzazione che per una lunga stagione è stata la vera forza della mafia siciliana. La Cupola non si riunisce dal 1992, per l’assenza forzata del suo capo, Totò Riina, e di molti rappresentanti. Nel 2008, alcuni autorevoli padrini della vecchia guardia — Benedetto Capizzi e Salvatore Adelfio, di Villagrazia; Giuseppe Scaduto, di Bagheria — fecero la prima mossa. Diceva Scaduto: «Ci mettiamo insieme, quattro o cinque o sette cristiani come si faceva una volta, e la responsabilità ce la prendiamo tutti. Però facendo il conto, quelli che possiamo prendere cristiani belli sistemati, possiamo essere una cinquina». Diceva Capizzi, che si faceva forte dei contatti della sua famiglia con il latitante Matteo Messina Denaro: «C’è decadenza morale negli uomini d’onore, prima avevamo l’onore ora è vergogna».
NEI discorsi di Scaduto e Capizzi non c’era soltanto la nostalgia dei vecchi tempi, emergeva la concreta necessità di creare una cabina di regia per coordinare e rilanciare le tante iniziative portate avanti dai numerosi clan che continuano a resistere sul territorio. Dal 2008 a oggi i mandamenti sono ancora 8 in città e 7 in provincia, in totale 78 famiglie. Grazie a una recente rilevazione riservata del ministero dell’Interno, che Repubblica ha potuto consultare, è possibile quantificare in modo più preciso la presenza mafiosa, fra arrestati e soggetti in libertà: l’esercito di Cosa nostra a Palermo è composto da 2366 persone. Il clan più numeroso è quello di San Lorenzo (322 affiliati), seguono Brancaccio (313), Porta Nuova (245), Santa Maria di Gesù (177), Resuttana (136), Noce (151), Passo di Rigano-Boccadifalco (102) e Pagliarelli (94). In provincia, il mandamento più numeroso è quello di Belmonte Mezzagno, con 208 affiliati. Seguono Partinico (125), Caccamo (99), Bagheria (99), San Giuseppe Jato (82), Corleone (74) e San Mauro (53).

PROGETTI DI RINASCITA
Nel dicembre 2008, le indagini dei carabinieri e della Procura fermarono in tempo i protagonisti della riorganizzazione, e pure quelli che si opponevano al progetto perché ritenevano che i capi in carcere non potessero essere sostituiti senza una loro esplicita delibera. Fu il blitz “Perseo”. Ma dopo diverse altre operazioni e un ricambio quasi totale dei capifamiglia, nel febbraio 2011 il progetto della nuova Cupola è tornato in primo piano, con un grande pranzo a Villa Pensabene, una delle sale trattenimento più note della città. Ma questa è una storia ancora misteriosa, anche se i principali protagonisti sono stati messi fuori gioco, pure questa volta dalle indagini di carabinieri, squadra mobile e guardia di finanza, coordinate dalla Procura di Palermo.
Però, non tutti i protagonisti dell’ultima riorganizzazione mafiosa sono in carcere. E qualcosa si agita ancora nella palude della città mafiosa: al di sopra della vita quotidiana dei clan, che si alterna fra una nuova stagione di racket e traffico di droga, ci sono infatti relazioni e affari a tanti zeri, sono il patrimonio di una élite ristretta di mafiosi vecchio stampo, alcuni scarcerati di recente, altri liberi già da qualche anno. Sono i vecchi boss a portare avanti il progetto della nuova Cupola, perché non si sono rassegnati. Ma questa volta sono più prudenti, questa volta mandano avanti giovani ambasciatori, che hanno poteri di amministratori delegati. Mentre i consiglieri di amministrazione restano nell’ombra.

PORTE APERTE
Periodicamente, la Direzione investigativa antimafia segnala la lista degli scarcerati. Quasi ogni famiglia ne ha uno da festeggiare, anche in modo solenne. Perché si tratta di nomi pesanti della geopolitica di Cosa nostra: Girolamo Biondino, fratello di Salvatore, l’autista di Totò Riina, è ancora un’autorità a San Lorenzo, come nei ruggenti anni Ottanta? E a Bagheria, cosa fanno adesso Nicola Greco e Giuseppe Di Fiore, gli uomini più fidati di Bernardo Provenzano, che negli anni Novanta erano il terrore dei commercianti e la delizia di politici e imprenditori collusi? Stanno cominciando a uscire anche alcuni degli arrestati eccellenti di “Perseo”: a Belmonte Mezzagno è già tornato a fare affari nel campo dell’edilizia quel Filippo Bisconti che era uno dei principali ambasciatori di Benedetto Capizzi, il grande regista della riorganizzazione della Cupola. Di recente, un’altra scarcerazione eccellente ha fatto tornare indietro le lancette di Palermo, addirittura a prima delle stragi Falcone e Borsellino: ha finito di scontare i suoi 22 anni di carcere Giuseppe Giuliano, detto “Folonari”. La notte del 25 marzo 1991, fu bloccato da una volante della polizia lungo viale Regione Siciliana: nel suo furgone nascondeva una 357 Magnum, una tanica di benzina e un casco. Folonari si fece arrestare, salvando i suoi compagni che lo precedevano, su una Fiat Uno e una moto di grossa cilindrata. Quello era un commando di Cosa nostra. Lo si scoprì dopo le stragi, quando i pentiti raccontarono che Giuliano era un killer della famiglia di corso dei Mille. Ma le dichiarazioni dei pentiti non sono bastate, e Giuliano è stato sempre assolto dall’accusa di omicidio, ma non da quelle di mafia ed estorsione. E adesso ha scontato il suo debito con la giustizia.
Fino a qualche mese fa, fra gli scarcerati eccellenti c’era anche un tale Antonino Sciortino, di Camporeale, cuore della provincia palermitana: era stato addirittura incaricato dai padrini in carcere prima ancora di lasciare la cella. Aveva il compito di riorganizzare la mafia della provincia, che è tutta un’altra cosa rispetto a quella di città. Sciortino non deluse, nonostante avesse sulle spalle 12 anni di carcere. Lavorò cinque mesi, ridisegnando la struttura delle cosche nel Palermitano: prima accorpando mandamenti, poi spostando famiglie. Come fosse un manager alle prese con la riorganizzazione di un’azienda che deve tagliare costi inutili e ridare efficienza alla macchina. Ma i carabinieri del Gruppo di Monreale avevano già compreso tutto, Sciortino era già sotto intercettazione il giorno della sua scarcerazione. E di recente, anche questa riorganizzazione di mafia è stata bloccata con un maxiblitz.

PENE BASSE PER LE RECIDIVE
«Dopo ogni operazione di polizia, Cosa nostra continua ad avere una grande capacità di sostituire i propri quadri dirigenti — dice Maurizio de Lucia, sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia — troppo spesso ci ritroviamo a indagare su soggetti che hanno già scontato una pena per associazione mafiosa. Perché dall’organizzazione non si esce se non in due modi, come aveva detto Buscetta: o con la morte, o collaborando con la giustizia. Bisognerebbe allora prenderne atto in maniera chiara, anche perché la modifica che ha innalzato le pene per la recidiva viene di fatto attenuata dal meccanismo della continuazione dei reati». E così, tornare a delinquere non comporta di fatto pene gravi. I mafiosi lo sanno. Dice de Lucia: «Alla terza condanna bisognerebbe prevedere un sistema punitivo davvero rigoroso e severo».
I mafiosi sanno anche altro. E approfittano pure dei benefici offerti dalla legge: scegliendo il rito abbreviato hanno lo sconto di un terzo della pena. E poi c’è la possibilità di beneficiare dei premi previsti dall’ordinamento penitenziario, ad esempio la liberazione anticipata per buona condotta. I mafiosi che si comportano bene in carcere hanno anche usufruito dei permessi premio, lo denuncia la relazione 2012 della Direzione nazionale antimafia.

PRANZO A VILLA PENSABENE
«Riorganizzazione»: è dunque questa la parole chiave dei padrini in libertà. Per capire cosa sta accadendo oggi bisogna tornare alle ultime grandi manovre — quelle note — di Cosa nostra. C’è un video che può aiutare a capire. E’ stato fatto dai carabinieri del Reparto Operativo il 7 febbraio 2011: quattro uomini passeggiano con aria spavalda dentro il maneggio di Villa Pensabene. Quel giorno — doveva essere giorno di chiusura — qualcuno ha prenotato per tredici persone. Che arrivano alla chetichella, con piccole utilitarie e in moto. I carabinieri hanno saputo per tempo di quella riunione e hanno piazzato una telecamera su un palo della luce, così da riprendere tutto ciò che avviene nel giardino. Si rivelerà una grande intuizione. Perché a Villa Pensabene arrivano i rappresentanti di tutte le famiglie di Palermo: da Tommaso Natale a Brancaccio, da Boccadifalco a Torretta, a Cruillas. Uno dei primi ad essere inquadrati dalla telecamera nascosta è Giuseppe Calascibetta, il capo di Santa Maria di Gesù, il cuore della vecchia mafia palermitana, lo stesso Calascibetta è un pezzo di storia della mafia che cammina.
Cammina nel giardino della sala trattenimenti e accanto a lui ci sono tre uomini. Ma si capisce subito che è soprattutto l’uomo accanto a Calascibetta, un giovanotto dall’aria distinta, ad avere più confidenza con il padrino di Santa Maria di Gesù, perché lo tiene a braccetto. E sorride. Sorride mentre il vecchio boss racconta chissà cosa.
Il giovanotto si chiama Michele Sciarabba, è figlio d’arte, suo padre Salvatore era il capo della cosca di Misilmeri, un fedelissimo di Bernardo Provenzano. Ma Sciarabba junior non ha alcun precedente di rilievo, ufficialmente non avrebbe alcun titolo per stare in quell’autorevole consesso di mafia. Eppure, il video mostra una complicità particolare fra Calascibetta e Sciarabba. Chissà, forse perché Calascibetta padre ha trascorso all’inizio del 2000 un lungo periodo della latitanza a Villagrazia, praticamente a due passi da Santa Maria di Gesù. Chissà, forse. Ma in quel momento la passeggiata in giardino passa quasi in secondo piano rispetto a tutto il pranzo. E così sarà fino al pomeriggio del 20 settembre 2011, quando Giuseppe Calascibetta viene ucciso da due killer mentre sta tornando a casa. E dopo non accade assolutamente nulla. Come se quell’omicidio fosse solo l’ultimo atto di un copione già scritto e accettato, che necessitava solo del suggello di cinque colpi di pistola.

IPOTESI PER UN DELITTO
Forse, Calascibetta aveva maltrattato un imprenditore edile, pretendendo una mazzetta eccessivamente esosa per alcune villette che stavano sorgendo a Santa Maria. Quell’imprenditore abita a pochi passi da casa di Benedetto Capizzi, uno degli uomini d’onore più autorevoli di Villagrazia, quello che alla fine del 2008 cercava di riorganizzare la commissione di Cosa nostra. Ma la storia del pizzo, rimbalzata in alcune intercettazioni, può essere stata solo il pretesto.
Perché ci vuole ben altro per fare fuori un capo mandamento. In altri tempi, sarebbe stata una dichiarazione di guerra. E, invece, adesso non accade nulla. E se non accade nulla è difficile capire quali trasformazioni attraversano davvero Cosa nostra.
E’ necessario allora rimandare indietro il nastro delle indagini per cercare un indizio. Ma Calascibetta faceva vita riservata, l’unica uscita pubblica fu quella di Villa Pensabene. Dunque, diventa importante l’uomo che camminava a braccetto con lui, Michele Sciarabba: qualche giorno dopo Villa Pensabene, sale in macchina e va verso le campagne di Agrigento. Lì incontra un altro vecchio mafioso, Leo Sutera, anche lui un pezzo di storia della mafia che cammina. I carabinieri del Ros iniziano ad avere il sospetto che la partita in gioco sia molto più alta: non solo la costituzione della commissione provinciale di Palermo, ma il raccordo delle province della Sicilia occidentale. E nei giorni seguenti, arriva una conferma importante: Sutera incontra anche mafiosi che arrivano da altre parti della Sicilia. E il pensiero va subito al superlatitante Matteo Messina Denaro, l’unico che avrebbe titolo a dirigere una nuova cabina di regia della mafia in Sicilia occidentale.
Ma in questa storia, Sciarabba resta ancora un’anomalia fra i vecchi che incontra. Lui si muove comunque bene: a Palermo non usa mai la macchina, cammina sempre a piedi. E non usa cellulari. Un giorno, lo chiamano addirittura a comporre una controversia fra due mandamenti, la Noce e Porta Nuova, per un debito relativo a una partita di droga. Chi aveva dato tanta autorità a questo giovanotto di 34 anni? Calascibetta è morto, Sciarabba e Sutera sono stati arrestati, forse un po’ frettolosamente, prima che si riuscisse a capire chi avessero dietro. I misteri della nuova mafia restano fra Santa Maria di Gesù e Villagrazia, il regno della vecchia mafia palermitana, un tempo regno di Stefano Bontate. Le lancette del tempo sembrano davvero tornate indietro nella Palermo
mafiosa.


Tassa sui cantieri e raffinerie di droga la manovra di Cosa nostra per fare cassa
I boss a caccia di liquidità. Meno negozi e più imprese nel mirino del pizzo
La nuova mafia/5
di SALVO PALAZZOLO - 18 ottobre 2013
LA RICHIESTA dei boss agli imprenditori edili parte da 6.000-7.000 euro a cantiere, ma dopo la solita trattativa si arriva a 1.500 euro. Così, nella zona di San Lorenzo: questo hanno raccontato alcuni imprenditori a Repubblica.
Sembra che in altre parti della città, alcuni imprenditori si siano addirittura fatti avanti con il mafioso di zona prima ancora dell’arrivo degli esattori. Niente di nuovo a Palermo, nonostante i pesanti colpi inferti da indagini e processi: alcune cosche mantengono ancora un forte potere di intimidazione sulla traballante economia cittadina. E allora, è meglio mettersi a posto con la tassa mafiosa che rischiare danni. Raccontano che qualche tempo fa, un imprenditore impegnato in un grosso cantiere nella zona orientale della città abbia addirittura offerto un piccolo appartamento alla cosca competente per territorio.
Qualche richiesta d’aiuto è arrivata ai giovani di Addiopizzo: «Ma sono timidi segnali rispetto alla recrudescenza del fenomeno racket», ha detto Daniele Marannano, presidente del comitato durante la commemorazione di Libero Grassi, l’imprenditore che nel 1991 fu ucciso per il suo «no». Nel campo dell’antimafia è scesa anche l’Ance, l’associazione nazionale costruttori edili, con due costituzioni di parte civile. «Il nostro obiettivo — dice il presidente Fabio Sanfratello — è quello di restituire rigore e credibilità ad un comparto da troppo tempo nel mirino della malavita».
Con l’arresto di Salvatore Lo Piccolo, nel 2007, sembrava essersi chiusa una stagione di terrore, ma da qualche tempo le visite di certi signori continuano a ripetersi con insistenza. Perché la raccolta del pizzo assicura la liquidità necessaria al funzionamento dell’organizzazione e soprattutto della cassa assistenza dei familiari dei detenuti. Così, non c’è operazione antimafia che non metta in risalto le pressioni dei boss su commercianti e imprenditori. Ogni volta, con qualche spunto criminale nuovo. L’ultimo riguarda il mandamento di Resuttana: secondo quanto risulta a Repubblica, nella zona dell’Arenella molti commercianti sono stati presi di mira dagli esattori del pizzo come non accadeva da anni. Non si paga più solo per Pasqua e Natale, gli esattori sono tornati a passare ogni mese. E chiedono anche 500 euro a visita.

PAROLA D’ORDINE: ADATTAMENTO
Dice il colonnello Pierangelo Iannotti, comandante provinciale dei carabinieri di Palermo: «Nonostante i duri colpi inferti da magistratura e forze dell’ordine, Cosa nostra continua ad essere un’organizzazione criminale temibile, perché in grado di rimodulare con rapidità le proprie compagini, per assicurarsi il controllo delle più significative realtà economiche e sociali del territorio». Cosa nostra dimostra oggi «grande capacità di adattamento», così la chiama il colonnello Iannotti. «L’assetto verticistico dell’organizzazione non è stato mai messo in dubbio, è scattata piuttosto una rimodulazione delle competenze territoriali, poi una rapida affiliazione di nuovi sodali, mentre emerge il rinnovato interesse verso settori criminali accantonati da tempo».

VECCHI E NUOVI AFFARI
Le estorsioni, però, non fruttano più come un tempo. Neanche il nuovo ricatto sull’edilizia ha riportato i bilanci delle cosche mafiose alla stagione d’oro dei Lo Piccolo. E poi le famiglie dei carcerati aumentano sempre di più. Ecco perché Cosa nostra è ormai tornata con decisione all’unico grande affare che non conosce rallentamenti, il traffico degli stupefacenti. In soli otto mesi, da agosto 2012 al marzo scorso, le forze dell’ordine hanno sequestrato a Palermo quasi 15 chili di cocaina e 557 chili di hashish, il doppio di quanto ritrovato nello stesso periodo fra il 2011 e il 2012. Valore di mercato: quasi 600 mila euro per la cocaina sequestrata. 850 mila per l’hashish. Era tutta merce che arrivava da Napoli, affidata a insospettabili corrieri palermitani, quasi tutti incensurati. Loro, naturalmente, sono solo la punta di un nuovo iceberg: i capimafia sono tornati alle scelte dei primi anni Ottanta. Probabilmente, anche con una grossa raffineria, che le forze dell’ordine cercano da mesi. Ma fino ad oggi sono spuntati solo due piccoli laboratori, nella zona fra Santa Maria di Gesù e Villagrazia, che di raffinerie hanno una lunga tradizione.

IL SUMMIT DELLA SPARTIZIONE
Di droga si parlò anche al grande summit di Villa Pensabene intercettato da carabinieri e polizia nel febbraio 2011. È il summit che dopo anni vide la partecipazione di quasi tutti i rappresentanti delle famiglie mafiose palermitane. Non c’erano microspie dentro il ristorante, ma alcuni di quei boss, tornati a casa, parlavano proprio di droga. Parlavano della vendita di grandi partite alle bande di spacciatori disseminate per Palermo. Ai prezzi imposti da Cosa nostra.
«Com’è finita? Tuo fratello con quello? — urlava Cesare Lupo a Giuseppe Arduino, mafiosi di Brancaccio — Minchia mi ha fatto incazzare, con Piero com’è andata a finire?». Pietro Arduino aveva piazzato una partita di droga della famiglia a un prezzo inferiore. Evidentemente, lo spacciatore era stato più bravo del venditore all’ingrosso. E il capomafia di Brancaccio, Cesare Lupo, era andato su tutte le furie: «Due e cinquanta?». Arduino aveva provato a mettere una buona parola per il fratello: «Glielo ha passato a prezzo di costo, e gli hanno portato 250 euro di meno». Lupo insisteva: «Gli devi dare dieci a 250…Minchia gliel’ho detto dieci volte a tuo fratello, per cortesia».
E’ tempo di spending review anche per i mafiosi. Nel mercato all’ingrosso gli sconti sono temporaneamente sospesi. Perché i nuovi prezzi imposti sul mercato sono ritenuti già abbastanza buoni per i capimafia. Il consumatore finale spende fra 50 e 100 euro per un grammo di cocaina, in base alla qualità. E fra i cinque e i 10 euro per una dose di hashish. Eccolo il prezziario degli ultimi sei mesi, scoperto dagli investigatori della Narcotici della squadra mobile.

SPACCIO IN FRANCHISING
Un confidente ha raccontato alla polizia che i capimafia hanno varato anche un nuovo piano commerciale per la droga a Palermo, che prevede l’apertura di nuove piazze di spaccio. L’obiettivo: controllare non soltanto la vendita all’ingrosso, ma anche la grande distribuzione, attualmente gestita da agguerrite e attrezzate bande di spacciatori, soprattutto in due grandi poli, lo Zen e la Guadagna. Sono soprattutto i pusher della Guadagna a fare paura ai mafiosi: sono fra i più attrezzati di Palermo, la loro rete commerciale è antica e capillare. Ma i mafiosi di Brancaccio hanno avuto un’idea (criminale) geniale per impossessarsi della distribuzione all’ingrosso di cocaina e hashish: limitare le forniture alla Guadagna. Così da mettere in crisi la rete più efficiente dello spaccio a Palermo. E i mafiosi ci sono riusciti. Raccontano che qualche mese fa, all’improvviso, la cocaina non si trovava più sugli scaffali dei supermarket di Bonagia. Era finita già a metà mese.

GLI OMICIDI
L’intelligence antimafia sospetta che i mafiosi di Brancaccio abbiano fatto anche dell’altro per imporre il loro mercato della droga, e soprattutto i loro prezzi. Avrebbero dato ordine di uccidere un capomafia che da troppi anni flirtava con gli spacciatori della Guadagna: Giuseppe Calascibetta, il capo del mandamento di Santa Maria di Gesù. Per un pesante contrasto sui prezzi sarebbe stato ucciso anche Francesco Nangano, che puntava ad abbassare i prezzi delle sue forniture all’ingrosso di cocaina. Ma al momento queste sono solo ipotesi investigative. Ipotesi che polizia e carabinieri fanno sottovoce, perché il ritorno della droga a Palermo, in un mercato ancora instabile, potrebbe portare presto ad altri morti.

L’ARRIVO DEGLI STRANIERI
L’ultimo problema che i boss di Cosa nostra devono risolvere per tornare a pieno titolo nel mercato della droga è la concorrenza dei ghanesi e dei nigeriani, che hanno la forza di gestire gli approvvigionamenti in proprio. Due anni fa, i poliziotti del commissariato Libertà scoprirono che a Palermo arrivavano decine di corrieri, uomini e donne, con ovuli di droga in pancia. Arrivavano in aereo e in treno. Qualcuno si sentiva male, qualcuno veniva scoperto, tanti altri sono riusciti a passare.
Nei mesi scorsi, fra Ballarò e il Capo, italiani e africani si sono contesi la piazza, a colpi di prezzi riabbassati e di offerte speciali. Proprio come nei supermercati: «Prendi tre, paghi due». Raccontano che i momenti di tensione non sono mancati. E alla fine, come spesso accade negli ultimi tempi, i capimafia hanno mediato. E Ballarò sarebbe già diventato un laboratorio di nuove sinergie criminali fra Cosa nostra e mafie africane.


Campagne elettorali e assunzioni al tavolo della “zona grigia” i rapporti dei boss con la politica
La strategia di Cosa nostra per lavori, affari, appalti
La nuova mafia/6
di SALVO PALAZZOLO - 19 ottobre 2013
LA STAGIONE delle stragi del 1992 è stata solo una parentesi. I padrini sono già tornati alla loro vocazione di sempre: mediare, risolvere, facilitare. Così, in città, il colore predominante è ancora il grigio, il colore di quella zona indefinita dove i mafiosi incontrano gli insospettabili di Palermo e fanno scambi di reciproco interesse.

CAMPAGNE ELETTORALI
I voti di Cosa nostra vengono ormai pagati con le assunzioni nelle cooperative sociali finanziate dagli enti pubblici. Lo conferma l’ultima inchiesta della Procura di Palermo che sta indagando sull’accordo che un candidato di “Cantiere popolare”, Giuseppe Bevilacqua, avrebbe fatto con alcuni personaggi vicini alle cosche durante la campagna elettorale per le Comunali 2012. Lo conferma soprattutto la lista di mafiosi che figurano nelle fila della “Social Trinacria onlus” in qualità di ex Pip: uno dei più autorevoli era Tonino Seranella, braccio destro del capomafia di Porta Nuova Alessandro D’Ambrogio. Non ha fatto neanche un giorno di lavoro alla Social Trinacria, ma non mancava una sola firma nel foglio delle presenze. Tanto i picciotti si sentivano sicuri delle loro coperture, quelle che hanno fatto della Social Trinacria un carrozzone elettorale. E nelle intercettazioni è finito pure un riferimento a un esponente politico, Mimmo Russo. Biagio Seranella telefonava al fratello e gli diceva: «Ho due moduli io da farti firmare, il presidente ti ha fatto il trasferimento ». Tonino rispondeva: «In questo minuto sono vicino al tribunale». I fratelli convenivano: «Ci vediamo da Mimmo Russo, il tempo della strada».

UN POSTO DI LAVORO
Il “tavolino” del lavoro ha sistemato davvero tanti uomini dei clan. E non solo nel settore pubblico. Perché, in fondo, al mafioso il lavoro serve come copertura. E va bene anche un buon contratto privato, giusto per mostrare ai giudici di essere degni di un permesso o di un beneficio. Così accadde al trafficante di droga Pietro Scotto: nel febbraio 2007, Franco Mineo, consigliere comunale e poi deputato regionale di Grande Sud oggi sotto processo, garantì un contratto in un locale in vista dell’Arenella. Gli investigatori della Dia hanno ascoltato in diretta il dialogo fra Scotto e Mineo grazie alla microspia piazzata nell’agenzia di assicurazioni del politico. Annota la Dia (citando le parole di Scotto): «Non gli interessava lo stipendio, il lavoro gli serviva per “dimostrare agli sbirri che stava lavorando”». E Scotto, per ricambiare, offrì il suo contributo per la campagna elettorale del fratello di Franco Mineo, Rosario, poi eletto al consiglio comunale per Forza Italia. «Franco — diceva il pregiudicato — tuo fratello con me prende i voti, non le chiacchiere».

AFFARI E FAVORI/1
Naturalmente, la parola d’ordine dei “tavolini” di Palermo è flessibilità. Perché i mafiosi non hanno bisogno solo di posti di lavoro, ma anche di favori. E i politici di lungo corso hanno tante campagne elettorali da sostenere, per sé e i propri fedelissimi.
Così, il capomafia dell’Arenella, Salvatore Lo Cicero, non ci pensò due volte quando la figlia di annunciò che stavano arrivando i vigili urbani nel capannone della loro azienda, che si occupa di edilizia e di servizi funerari. «Non ti preoccupare, c’è Mineo che sistema tutto», rassicurò u zu Totò Lo Cicero, classe 1931. Il boss si mosse subito, con la solita discrezione. Ma quella volta servì a poco, perché era intercettato. Così, i carabinieri del nucleo Investigativo seppero in diretta dell’incarico assegnato dal boss a uno dei suoi ambasciatori, Letterio Ruvolo, detto Ettore: incontrare Franco Mineo, all’epoca assessore ai Mercati. Era l’11 gennaio 2008. La cronaca di quella giornata è in un rapporto finito in Procura. «Ore 16,47: Ruvolo telefona a Mineo e gli annuncia che si trova davanti al mercato ortofrutticolo». Il tono è confidenziale: «Franco, Ettore sono». Mineo, che si trova nel suo ufficio all’interno del mercato, risponde: «Gioia, ti faccio entrare fra dieci minuti». Il telefono di Ruvolo è sotto intercettazione. Intanto, in via Montepellegrino, i carabinieri seguono tutti i movimenti. Alle 17,38 il telefono di Ruvolo squilla. È il boss Lo Cicero a chiamare. «Sono in compagnia di Franco — gli dice Ruvolo — te lo passo». Ma il capomafia cambia tono di voce, quasi rimprovera il suo collaboratore. «Al telefono no», taglia corto. E Ruvolo chiude la conversazione. Poi, qualche minuto dopo chiamò la figlia del boss, per informare: «I tecnici torneranno venerdì».

AFFARI E FAVORI/2
A un “tavolino” degli affari si sono invece seduti il deputato regionale Riccardo Savona e l’imprenditore Vito Nicastri, il re dell’eolico ritenuto uno dei manager fidati di Matteo Messina Denaro. Le indagini della Dia dicono che il politico si dava un gran da fare per seguire le pratiche dell’imprenditore. E l’imprenditore cercava di ricambiare per alcuni affari che interessavano direttamente il politico. Anche in questo caso, il tavolino è stato svelato dalle intercettazioni. Il 31 agosto di tre anni fa, Nicastri chiamò Savona: «La settimana prossima il notaio è pronto», gli comunicò. Il 9 settembre, Savona e i suoi familiari erano dal notaio indicato da Nicastri per acquistare un terreno in contrada “Costa d’ape” di Alcamo. «Savona fece l’acquisto per il tramite di Nicastri», scrivono i giudici del tribunale Misure di prevenzione che hanno sequestrato all’imprenditore un miliardo e mezzo di beni. Su quel terreno, la società Atos, intestata alla moglie e alla figlia del deputato, avrebbe dovuto avviare probabilmente un piccolo parco eolico. Ma non ci fu il tempo. Proprio il 9 settembre, la Dia notificò il provvedimento di sequestro a Nicastri. Il giorno dopo, Savona non sapeva ancora nulla dei guai giudiziari dell’imprenditore. Alle 9,07 chiamò Nicastri, e la risposta fu disastrosa. «Ieri è stata una brutta giornata — disse l’imprenditore — sono venuti quelli della Dia». Decisero di vedersi.

CENTRI COMMERCIALI
Negli ultimi anni, uno degli affari che hanno moltiplicato i “tavolini” di Palermo è quello dei centri commerciali. Imprenditori, faccendieri, professionisti e mafiosi si sono incontrati spesso per definire l’acquisto dei terreni. I carabinieri del Ros hanno documentato cosa avvenne per la costruzione del centro Poseidon di Carini: il pagamento di una maxi tangente da 130 mila euro sulla vendita del terreno da 35 ettari. Il vecchio barone Guido Calefati Canalotti lasciò addirittura in eredità al figlio il compito di pagare, al momento della conclusione dell’affare. Il capomafia di Carini, Vincenzo Pipitone, si è difeso quasi con tono sdegnato in tribunale, rivendicando il suo ruolo di sensale per la vendita del terreno alla società. E il giudice Marina Petruzzella, che ha poi condannato quattro mafiosi per estorsione, ha chiesto alla Procura di fare nuove indagini, per approfondire la vicenda, perché quel grande terreno a ridosso dello svincolo autostradale di Carini era fino al 2000 non edificabile, poi fu approvata una variante. E anche sui tempi della variante i mafiosi sembravano informati.

I MISTER X
Cosa nostra ha sempre avuto degli uomini particolari per la zona grigia degli affari. Il più celebre è Angelo Siino, un tempo lo chiamavano il ministro dei lavori pubblici di Totò Riina, oggi è un collaboratore di giustizia. Poi, il suo posto fu preso da Pino Lipari, il consigliere di Bernardo Provenzano. Sono mafiosi sui generis i procacciatori di affari e accordi. L’ultimo finito in manette è ancora un mistero: si chiama Giorgio Cannizzaro, è stato arrestato ad aprile dalla Procura di Catania. Ha detto il pentito Eugenio Sturiale: «Cannizzaro fu inviato a metà degli anni Ottanta a Roma per conto della famiglia Santapaola da Aldo Ercolano. Teneva rapporti importanti con politici, onorevoli, avvocati e anche con il Vaticano». Cannizzaro aveva rapporti anche con esponenti di Cosa nostra palermitana, da Franco Gnoffo di Borgo Vecchio a Francesco D’Agati di Villabate. E uno dei referenti di Cannizzaro, Angelo Santapaola, era di casa a San Lorenzo, nei covi dei Lo Piccolo. Riparte dunque da Catania il filo per individuare il ruolo degli ambasciatori dei boss. Cannizzaro vantava anche rapporti con esponenti della massoneria siciliana, questo dicono le intercettazioni. Cannizzaro frequentava l’avvocato Corrado Labisi, responsabile della casa di cura “Lucia Mangano” (si trova a Sant’Agata Li Battiati) e soprattutto Gran maestro della “Serenissima Gran Loggia del Sud”. A maggio è stato conferito a Labisi un premio intitolato al giudice Rosario Livatino. «Per l’impegno a favore della legalità». Eppure, qualche mese prima, i pm scrivevano di Labisi: «E’ legato al Cannizzaro da un rapporto che va al di là della mera conoscenza e che sottintende una comunanza di interessi per certi versi inquietante ». Al telefono, si chiamavano «fratelli ». Evidentemente anche l’uomo di Cosa nostra è un massone. E Catania è sempre più vicina a Palermo. Chissà se è un caso che negli ultimi anni quasi tutti gli appalti importanti del Comune di Palermo sono stati vinti da aziende o di Catania o di Alcamo.

Tratto da: La Repubblica

In foto: il giornalista Salvo Palazzolo

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