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cutro-ignazio2di Massimiliano Perna - 5 ottobre 2013
Ignazio Cutrò (foto) è un testimone di giustizia. Vale a dire un uomo che ha deciso di non piegare la schiena dinnanzi alla mafia, ma di reagire e denunciare. Si è schierato con lo Stato e con quellʼidea di giustizia e libertà che il padre gli ha inculcato sin da quando era bambino. Urge premettere una precisazione che lui fa sempre, perché in Italia con le parole si fa spesso confusione: il testimone di giustizia non è il collaboratore di giustizia, il famoso pentito. Non ha niente di cui pentirsi perché non ha alcun legame di appartenenza con un clan. Al massimo può essere un parente dissidente, come sono state Rita Atria o Lea Garofalo, ma non un affiliato, non qualcuno che ha commesso crimini. Il testimone è un individuo onesto e pulito che non accetta il potere mafioso e lo combatte con il sostegno dello Stato, senza ottenere benefici, ma solo protezione. Una protezione che, però, presenta delle lacune, delle pecche che Ignazio denuncia.

Lui, imprenditore edile che ha sfidato il racket, denunciato il clan che comandava a Bivona (Agrigento), paesino dellʼentroterra siculo nel quale ha deciso di restare, mantenendo la propria identità, pur essendo entrato nel programma di protezione. Una scelta coraggiosa, piena di dignità, figlia della volontà ferrea di non vedere la propria vita stravolta per colpa dellʼoppressione mafiosa e della paura. Ha fatto di più, Cutrò. Ha fondato la prima Associazione Nazionale dei testimoni di giustizia, di cui è presidente. Una decisione derivante dalla necessità di portare a conoscenza di tutti le problematiche di chi, per essersi schierato dalla giusta parte, si trova a vivere una vita priva di tutte quelle cose normali, quotidiane che una persona avrebbe il diritto di avere. E, per di più, affrontando situazioni spiacevoli e ricevendo trattamenti ingiusti.

Come ci racconta Ignazio, con un tono che sa di rabbia e di delusione, sentimenti nocivi per chi combatte una battaglia rischiosa, sentimenti che lo portano ad annunciare azioni forti.

Il fatto è accaduto a Milano, la settimana scorsa. La moglie e la figlia di Cutrò, a cui è stata assegnata una protezione, arrivano allʼaeroporto di Linate. Sono dirette in luoghi diversi per impegni diversi. La figlia per lavoro, la moglie per una visita medica in ospedale. Hanno già avvisato di tale circostanza lʼUfficio scorte di Milano alcuni giorni prima. Ad accogliere le due donne però cʼè solo una macchina. Quella per la figlia. La moglie non ha nessuna auto a disposizione. Nemmeno quando arriva la pattuglia che dà il cambio alla scorta: lʼaltra deve andare via vuota e non può portare nessuno con sé. Così la signora resta lì per oltre quattro ore ad attendere una soluzione: “Un gesto bruttissimo – afferma Cutrò -. Quando mia moglie mi ha avvisato ho chiamato il comando provinciale dei Carabinieri di Milano, dove, nonostante mi fossi qualificato, mi hanno trattato male e chiuso il telefono in faccia, rifiutandosi di farmi parlare con il comandante. Poi ho recuperato il numero dellʼUfficio scorte e mi hanno detto che in un quarto dʼora-venti minuti avrebbero mandato una macchina a prelevare mia moglie. I venti minuti si sono trasformati in quattro ore”.

Come ti sei mosso e in che modo hanno motivato questo disservizio?
Ho chiamato il comando provinciale in Sicilia, parlando con il capitano Vincenzo Bulla, il nostro punto di riferimento, persona squisita che ci è stata molto vicina. Ho raccontato tutto e lui ha subito contattato il capo dellʼUfficio scorte milanese chiedendo spiegazioni. Questʼultimo avrebbe detto che con me non ci voleva parlare perché non è lui il mio referente. Avrebbe aggiunto che macchine libere non ne aveva e che mia moglie avrebbe dovuto aspettare. Quando se ne fosse liberata una, lʼavrebbe mandata. Sono passate quattro lunghissime ore! Pare, comunque, che il disagio causato a mia moglie fosse dovuto allʼarrivo del presidente della Repubblica a Milano. Sono rimasto deluso. Capisco che il Capo dello Stato sia la massima autorità, ma ritengo che mia moglie vada tutelata, in quanto coniugata con un testimone di giustizia sotto protezione. Credo che se il Presidente avesse saputo di un episodio simile non lo avrebbe mai consentito.

Hai fatto delle denunce formali di questo episodio?
Abbiamo fatto denuncia alla polizia e informato il procuratore generale antimafia, il questore e il nucleo scorte di Milano. Poi abbiamo spedito la denuncia, con lettera accompagnatoria, al servizio centrale protezione.

Vuoi andare fino in fondo, insomma.
Per forza. Non possiamo andare più avanti così. Nella mia città siamo malvisti da chi non è certo contento che abbiamo denunciato, poi ci spostiamo altrove e ci troviamo in queste condizioni. E questo non è il primo caso. Qualche mese fa è già accaduto e mia moglie si è dovuta spostare per Milano in taxi. Avevo segnalato anche quella circostanza. Per tale ragione, visto quanto già successo, il capitano Bulla, con premura, tramite il maresciallo competente che si occupa della nostra scorta, aveva preventivamente chiamato lʼUfficio scorte di Milano avvisando della necessità di due macchine per via dei due diversi percorsi che i miei familiari avrebbero dovuto fare. Io stesso avevo mandato la mail otto giorni prima, comunicando il tutto. Malgrado queste premure, però, me ne hanno combinata unʼaltra.

Come ti spieghi questo trattamento, che è comune anche ad altri testimoni di giustizia?
Semplice. Perché siamo solo testimoni di giustizia. Non contiamo nulla. Loro tengono di più ai politici, al servizio per i politici, perché di loro hanno paura, di noi non gliene importa.

Se davvero fosse così, sarebbe preoccupante.
È così. Io sono il presidente dellʼAssociazione Nazionale testimoni di giustizia e posso dirti che le ingiustizie che abbiamo subito sono vere, comprovate e continuano ad essere commesse. Eppure esiste un dispositivo U.C.I.S. (Ufficio Centraleinterforze per la sicurezza personale) che afferma che io ho gli stessi diritti del presidente della Repubblica e che mi devono trattare allo stesso modo. Il dispositivo parla di tutelati, non discrimina tra loro, ma recita che testimoni di giustizia, onorevoli, il presidente della Repubblica, i magistrati hanno un tipo di tutela, mentre i collaboratori di giustizia ne hanno un altro. Questo vuol dire che i testimoni di giustizia sono uguali a magistrati, onorevoli, Capo dello Stato e così via. Invece avviene il contrario. Vorrei capire una cosa: io ho perso la mia libertà per lo Stato e una parte delle istituzioni mi sta ripagando così, solo perché non gli servo alla carriera, non ho agganci politici e quindi devo arrangiarmi? A me la scorta è stata data per poter continuare ad avere una vita quasi normale. Lo Stato ogni giorno spende dei soldi per darmi un servizio decente. Sulla carta, perché poi nei fatti non va come dovrebbe.

Cosa chiedi oggi alle istituzioni?
Io chiedo al ministro dellʼInterno di prendere posizione pubblicamente e riconoscere che i testimoni di giustizia devono essere trattati come gli altri, perché è un nostro diritto, visto che non siamo carne da macello né merce di scambio.

La responsabilità di questo a chi la addebiti? Alle istituzioni centrali o agli organi di polizia?
Io ho fatto una domanda al presidente del Senato chiedendo perchè non ci sono leggi a favore dei testimoni. Lui mi ha risposto che le leggi in Italia ci sono e che anzi abbiamo la migliore normativa a tutela dei testimoni di giustizia, solo che poi si trovano i cavilli e gli ostacoli burocratici per metterci il bastone tra le ruote. Me lo ha detto unʼistituzione. Dovrei dedurre che allora lo fanno apposta. Io non vorrei pensare che sono diventato una spesa, che ci si dimentica di quello che ho fatto, che ho denunciato e fatto denunciare persone, che la mia famiglia sta soffrendo in silenzio, ha perso la propria libertà, abbiamo perso gli amici, ma che malgrado questo abbiamo continuato a rimanere a Bivona, dove veniamo ogni giorno evitati, schifati. Non vorrei che si dimenticasse che ho lottato per far approvare dopo tanti anni la legge a livello regionale per lʼequiparazione dei testimoni di giustizia alle vittime di mafia. Non merito e non meritiamo di essere trattati così. Il riscatto non deve essere per la famiglia di Ignazio Cutrò, la vittoria di domani è la vittoria di tutti.

Ci sono, oltre a te, altri testimoni di giustizia che vivono situazioni negative?
Riceviamo telefonate ogni giorno. Oggi ho ricevuto la chiamata di un testimone, un commerciante sotto protezione, che mi ha comunicato di volersi suicidare. Non ce la fa più, si sente abbandonato. Ho cercato di dissuaderlo promettendogli che ci incontreremo presto. Si sentono lasciati totalmente soli, perché il programma non viene applicato a dovere, i testimoni non vengono ricevuti, sono trattati come nemici, quando invece siamo amici dello Stato. Io ho scelto di rimanere nella mia terra per fare una lotta spalla a spalla insieme alle istituzioni. Non mi devono far sentire avvilito, altrimenti è impossibile continuare a combattere. Il servizio centrale di protezione non funziona, perché quando il testimone si lamenta o scrive, si arrabbiano e ti rispondono con le piccole ripicche. Bisogna smetterla con questi giochetti. Il testimone che entra in un programma di protezione ha già lasciato la propria terra, il proprio lavoro, tutto. Non devono farci vivere ulteriori disagi, altrimenti andiamo a incatenarci davanti al ministero e ci diamo fuoco, ci autodistruggiamo.

Speriamo non si arrivi mai a questo punto…
Lo so, ma siamo stanchi, stufi, esasperati. Non ci considerano, non considerano anche che molti di noi, denunciando, hanno perso il proprio lavoro. I soldi ci sono, gli appalti vengono assegnati a destra e a manca, solo per i testimoni di giustizia non cʼè niente, nessun lavoro. Soltanto solitudine.

Tu sei un testimone che ha preso posizione, si è esposto, ha creato lʼassociazione. Questo, a tuo avviso, ti ha reso scomodo?
In Commissione, lo scorso marzo, mi è stato detto che dovevo star zitto, che non dovevo andare in tv, né fare conferenze, che dovevo dimenticarmi di fare lʼassociazione. Io ho risposto che, fino a quando non ho creato lʼassociazione, nessuno mi aveva mai fatto un richiamo, nonostante fossi già stato in tv e mi fossi esposto molto. Ho ricordato a tutti che io sono rimasto in loco e non possono farmi alcun tipo di contestazione. Ho fatto anche il passaporto mentre ero già sotto protezione, quindi io, a differenza degli altri testimoni a cui hanno tolto tutto, libertà, identità, futuro, sono rimasto per difendere gli altri. Lʼho pure mostrato quel passaporto e si sono arrabbiati. Mi hanno urlato contro, mi sono alzato e stavo per andarmene. Poi mi hanno fermato, valutato il mio fascicolo e riconosciuto che avevo ragione, che io sono un libero cittadino, sottoposto al programma di protezione speciale, ma rimasto in loco e quindi con facoltà di agire liberamente.

Prima di salutarci ti chiedo: di chi ha paura oggi Ignazio Cutrò?
Io di certo non ho paura della mafia. Io ho paura del silenzio dei cittadini onesti.

Tratto da: ilmegafono.org

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