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atria-rita-web1di Nando dalla Chiesa - 28 luglio 2013
Un violino che suona su una tomba. Può succedere solo in Sicilia. E può succedere solo se chi suona il violino gli spreme l’anima e ne fa tutt’uno con la sua. Nadia ci è riuscita l’altro ieri su una tomba nel piccolo cimitero di Partanna, in provincia di Trapani. Cinque e mezzo del pomeriggio del 26 luglio. Sono partiti in duecentocinquanta giovani dal campo nazionale di Libera di villa Genna a Marsala. Hanno lasciato in pullman le saline e il mare sfolgorante che “ferisce gli occhi”, come quello di Lisbona nei romanzi di Tabucchi. Sono arrivati a Partanna e da lì, dalla piazza Falcone e Borsellino, sono andati a piedi verso il cimitero con i membri del comitato “Rita Atria”.

IL 26 LUGLIO nella storia dell’antimafia è una data importante, strettamente intrecciata con il 19 luglio. Perché a una settimana esatta di distanza dalla strage di via D’Amelio, la domenica dopo alla stessa ora, una ragazza di diciassette anni si gettò dal settimo piano dell’appartamento in cui era tenuta sotto protezione a Roma. Non aveva retto alla notizia che fosse stato ucciso il giudice buono e affettuoso che l’aveva portata dall’altra parte della barricata. Si chiamava Rita Atria. Diventata giovanissima collaboratrice di giustizia per vendicare padre e fratello, boss di mafia uccisi dalla mafia, era stata condotta per mano da quel giudice a innamorarsi della legalità. Così da essere maledetta dalla madre anche da morta e lasciata per punizione eterna in una tomba senza nome.
Per questo il 26 luglio i giovani dell’antimafia hanno voluto ricordarla e sono andati insieme a trovarla. Nadia in realtà ci va tutti gli anni. Ma il pezzo di violino suonato nel silenzio solenne di centinaia di ragazzi le ha chiesto una forza speciale. Nadia Bertuglia, violinista diplomata al Conservatorio di Torino e insegnante a Torino nel progetto Abreu (formare orchestre di musicisti con i ragazzi a rischio) ha un viso dolce e bruno. Nel 1992 aveva otto anni. “Ma di Rita Atria ho saputo solo nel 2007. Partecipavo come musicista a uno spettacolo teatrale dedicato a Peppino Impastato. Lo portammo in diverse città d’Italia. E arrivammo anche a Partanna. Qui mi venne raccontato di Rita. Provai una tale emozione a sentire la sua storia che decisi da allora che la mia musica avrebbe avuto un senso solo se avessi scelto di non dimenticare mai quella ragazza e la sua domanda di giustizia, la sua solitudine disperata. Andammo sulla sua tomba con la nostra piccola carovana, eravamo circa una decina. Allora un’amica di Torino mi chiese di suonare l’Ave Maria di Schubert. Lo feci. Ne afferrai subito il senso. Vede, noi musicisti siamo spesso richiesti di suonare in un posto senza sapere perché. Io invece lo voglio sapere sempre. Da quell’anno vado ogni estate al cimitero a trovare Rita, mi è facile perché mio padre è originario di Campobello di Mazara. A volte arrivo con il mio fidanzato o con i miei genitori; a volte da sola. Porto il violino e suono qualcosa. Mi intrattengo con lei, mi sembra di ripagarla di quella tomba su cui fino a venerdì non solo non c’era il nome ma anche la foto era irriconoscibile, pareva quella di un bambina già vecchia”.

STORIA DOLOROSA e nobile sin dall’inizio, questa del camposanto di Partanna. Il giorno dei funerali, quando fu chiaro che la madre l’aveva ripudiata anche da morta e non sarebbe venuta a salutarla, e di fronte al parroco che parlò di una Rita “morta nel peccato” perché suicida, furono circa duecento donne venute da tutta la Sicilia a farle da madri e a portarla sulle proprie spalle verso la sepoltura, in una stagione in cui il protagonismo femminile contro la mafia fu massimo, dalle donne del digiuno ai lenzuoli bianchi di Palermo.
Ma dopo quella straordinaria manifestazione di solidarietà, mentre Rita diventava un simbolo in tutta Italia, la sua tomba è stata quella che tocca ai rinnegati, oggetto frequente di sfregi tangheri. “Che cos’ho provato l’altro giorno ad andarci con tutti quei giovani? E’ stato un pugno nello stomaco, un bel pugno, da toglierti il fiato. Arrivare tutti insieme, invadere pacificamente Partanna con le bandiere colorate di Libera, far capire a tutti che per noi lei è importante, restituirle l’onore davanti alla sua città è stata un’emozione indescrivibile. E ancor di più lo è stata suonare in mezzo alla folla, in quel tipico cimitero di Sicilia privo di geometrie, le note de Il canone inverso di Morricone, colonna sonora di un film d’amore malinconico, che è poi il brano con cui inizia Picciridda, lo spettacolo teatrale che abbiamo dedicato a Rita con Orme, l’associazione di Pietra Selva. Alla fine Piera Aiello, la cognata con cui lei condivise fino all’ultimo le sue scelte, ha posato la nuova lapide. E ora finalmente per Rita c’è un nome, e c’è la sua foto vera”. Succede anche questo nell’Italia assolata di fine luglio. Pezzi di civiltà in cammino che l’informazione globale ingoia come fossero quisquilie. E invece quel violino ha suonato per tutti. Grazie a Nadia, musicista semplice, per avere avuto la forza di un gesto immenso.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano

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