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ingroia-c-giorgio-barbagallo-2013VIDEO INTEGRALE DEL CONVEGNO!
di Antonio Ingroia* - 20 luglio 2013

Dopo tanti anni ringrazio Antimafia Duemila che mi ha sempre costantemente invitato, fin dalla prima edizione di questo dibattito; non posso negare che personalmente sono un po’ più emozionato di altre volte, o disorientato, per il fatto che per la prima volta partecipo a questo momento senza indossare la toga di Pubblico Ministero che ho indossato per ventisei anni e per vent’anni consecutivi alla Procura di Palermo.
Una toga che però non mi sono strappato di dosso, ma che mi è stata strappata. Pur condividendo e sostenendo l’impegno che i colleghi della Procura di Palermo stanno proseguendo, mi ritrovo con una dose di raddoppiato pessimismo sulle chance di trovare la verità sulla strage di via d’Amelio e sulla trattativa in un’aula giudiziaria. Ma forse, non avere più la toga mi consente di essere più franco, più schietto, direi anche più libero; quella toga si è trasformata in una camicia di forza rispetto alla mia libertà di espressione, limitata da procedimenti disciplinari che mi sono stati rovesciati addosso quando ho semplicemente esercitato la mia libertà di espressione.

Quindi è una toga che non avrei mai smesso se avessi pensato che indossandola ancora sarei riuscito a trovare la verità su quella stagione. Ma noi quella verità non la possiamo trovare in queste condizioni, con questa politica e con queste istituzioni. Diciamocelo chiaramente! Io non l’avrei mai tolta, come mai l’ha tolta Paolo Borsellino sino all’ultimo giorno della sua vita. Credo che sia successo a me come è accaduto ad altri magistrati e, senza fare parallelismi impropri, è capitato anche a Giovanni Falcone, al quale venne strappata la toga quando andò a Roma perché gli venne reso impossibile il suo percorso professionale.
Perciò ribadisco che non mi sono tolto la toga, è il potere che mi ha strappato la toga, quel potere che non tollerava la mia ribellione, quella di un P.M. che si era ribellato al modello del P.M. che obbedisce e tace. Io non obbedisco e taccio perché non c’è niente a cui obbedire quando l’ordine è un ordine illegittimo. Allora non ho mai taciuto e da oggi potrò finalmente dire più apertamente quello che penso, anche quello che non ho detto negli anni passati quando ero costretto a mordermi la lingua ad ogni incontro e ad ogni dibattito a cui partecipavo. Potrò dire quello che so e di cui ho le prove, ma oggi ho anche la libertà di dire quello che so di cui non ho le prove in senso giudiziario. Allora potrei dire che avermi strappato la toga di dosso potrebbe non essere stato un buon affare per chi l’ha fatto.
Ma non voglio parlare di me, dobbiamo parlare di noi perché sia quelli da questa parte del tavolo che quelli all’altra parte siamo cresciuti, ci sono sempre più giovani, ma molti siamo sempre quelli, siamo gli stessi, siamo certo un po’ più stanchi, un po’ più feriti, invecchiati, un poco anche piegati dalla fatica e dai colpi vigliacchi alle spalle. Ciascuno di noi ne ha subiti tanti, anch’io, anche dai miei colleghi ed ex colleghi, però non siamo piegati, non abbiamo mai piegato le ginocchia e non piegheremo mai la schiena, questo è quello che conta. Siamo ancora qui, irriducibili, con rassegnazione zero, però bisogna vedere come la nostra rassegnazione noi la possiamo trasformare in azione, in impegno. Siamo qui dopo tanti anni, ogni anno a piangere i nostri morti, qualcuno anche in più, come la morte di Agnese Borsellino, che è un fatto nuovo rispetto ai precedenti anniversari. Quel 19 luglio del ’92 ci ha cambiato la vita per sempre, credo a tutti, a ciascuno di noi, certamente a chi è qui. Non abbiamo ancora elaborato il lutto perché non sappiamo la verità sulla strage di via d’Amelio.  Non sappiamo - nel senso giudiziario del termine - perché non si sono raggiunte le prove che fu una strage di Stato. Lo sapevamo fin dal primo giorno, senza avere la prova, perché lo sentivamo; e lo sanno, ma non lo possono dire, Roberto Scarpinato e Vittorio Teresi che con me hanno condiviso quei giorni, come non potevo dirlo io sino all’anno passato, ma noi lo sapevamo perché lo sentivamo che era una strage di Stato, così come Paolo Borsellino sapeva che era una strage di Stato la strage di Capaci. Ed è questa la ragione per la quale con ostinazione, con impegno, con testardaggine, cercava di “scavare” nell’agenda elettronica di Giovanni Falcone, aveva capito che nel lavoro di Falcone c’era la traccia che Giovanni non era stato ucciso perché era il nemico storico della mafia, ma perché c’era dell’altro. Poi come sapete venne cancellato il diario e hanno fatto ancora meglio con l’agenda di Paolo, facendola sparire, questa è la conferma della strage di Stato: depistatori di Stato per una strage di Stato.  
Ora noi conosciamo di più perché sappiamo di quei depistaggi colossali così definiti anche dal Procuratore di Caltanissetta. Nessuno può credere (io non ci credo) che uomini delle istituzioni così importanti abbiano depistato quelle indagini per “entusiasmo investigativo”, per cercare di catturare dei colpevoli a tutti i costi, o peggio per favorire qualche mafioso. Il depistatore di Stato, se è uno che fa carriera, lo fa per depistare la strage di Stato, questo è sempre accaduto nella storia del nostro Paese.  
Se poi il depistatore è un alto funzionario della Polizia, come Arnaldo La Barbera, se il depistatore è un uomo che era a libro paga dei servizi, se i servizi in quel momento erano diretti da Bruno Contrada (che poi è andato in galera), e se il dottor Bruno Contrada a quel tempo collaborava col Procuratore di Caltanissetta Tinebra alle indagini per la strage di via d’Amelio, forse tutte le cose combaciano. E tutto questo coincide con quello che emerge dalle indagini della Procura di Palermo e della Procura di Caltanissetta sulla trattativa, sul ruolo cruciale che ebbe la trattiva e sul ruolo scatenante che questa ebbe rispetto alla strage, una trattativa vera e non teorica, una trattativa provata e non presunta. Ritengo grave, se non è cambiato nell’ultima approvazione al Senato (se è vero quanto ho letto nel comunicato giustamente denunciato dall’associazione dei familiari delle stragi del ’93), che nella legge istitutiva della Commissione parlamentare antimafia, dove finalmente si mette fra le funzioni e gli scopi e le finalità della Commissione parlamentare antimafia l’indagine sulla trattativa, si scrive che la Commissione parlamentare antimafia dovrà indagare sulla “presunta” trattativa fra Stato e mafia.  
Questa Commissione parlamentare antimafia comincia davvero con il piede sbagliato e forse capiamo perché si è creata l’unanimità del Parlamento sulla sua  istituzione.  
In quei giorni del ’92 noi giurammo che avremo fatto di tutto, giurammo sulla bara di Paolo Borsellino e degli uomini e della donna della sua scorta che avremo fatto di tutto perché venisse fuori la verità. E Agnese disse che non avrebbe avuto pace fintanto che non vi fosse stata la verità, come l’ha detto Salvatore, come l’ha detto Rita. Agnese è morta. Possiamo dire che Agnese ha avuto pace perché ha avuto verità, tutta la verità, su quella strage? No, non lo possiamo dire, non prendiamoci in giro. Noi non sappiamo tutta la verità, sappiamo un pezzo di verità e certo è un bilancio sconfortante dopo ventun anni.
Conosciamo chi sono i mandanti a volto coperto? Non li conosciamo. Non siamo riusciti a tirare via quella maschera e perché non ci siamo riuscii? Perché siamo stati incapaci? Perché la magistratura è stata incompetente? No, perché i complici, i mandanti, erano dentro lo Stato, dove stavano coloro che hanno depistato le indagini sulla strage di via d’Amelio perché quello Stato non è cambiato, è lo Stato di Portella della Ginestra, è lo Stato del depistaggio sulla strage di Portella, è lo Stato del depistaggio sulla morte di Salvatore Giuliano, è lo Stato dell’assoluzione dell’onorevole Palazzolo per l’omicidio Notarbartolo, è lo Stato dei depistaggi sull’omicidio La Torre, è lo Stato dei depistaggi sull’omicidio Dalla Chiesa e così via. E’ sempre lo stesso Stato italiano nel quale noi siamo stati corpi estranei. E dove un certo tipo di magistratura, Falcone e Borsellino ieri e oggi i colleghi che coraggiosamente proseguono su questa strada (non voglio sconfortarli) sono ancora oggi corpi estranei.
Non solo Paolo Borsellino non è stato protetto da quello Stato che non protegge i suoi uomini, ma è uno Stato che uccide i suoi uomini migliori che non si omologano; uccide, elimina in un modo o nell’altro i suoi uomini migliori che si ribellano all’ordine costituito e l’ordine costituito è quello dello Stato che tratta con la mafia, dello Stato che convive con la mafia. Questa è la ragione, questa è la cultura politica giuridica istituzionale prevalente nel nostro Paese dall’Unità d’Italia ad oggi ed è quella che ispira illustri giuristi e tanti politici.  
E noi questa cultura dobbiamo combatterla, se non combattiamo e non battiamo questa cultura non si riuscirà ad avere una magistratura autonoma e indipendente che possa, nelle aule giudiziarie, condannare gli uomini dello Stato. Di questo amaramente mi sono convinto in questi ultimi anni. È il detto del cane che non mangia cane, anzi direi il cane che non mangia il padrone, la magistratura deve essere soltanto un cane da guardia dell’ordine costituito e il padrone è quel potere politico della classe dirigente che è stata borghesia mafiosa, che perciò vuole la magistratura subordinata.
Se la magistratura prova invece - con la dovuta ingenuità istituzionale di un uomo dello Stato – ad applica la costituzione a cominciare dal principio di eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, arriva prima l’avvertimento e poi la punizione, in cui lo Stato si comporta esattamente come la mafia. La mafia è Stato, lo Stato è mafia, questa equazione purtroppo è diventata una realtà sempre più inestricabile, difficilmente oggi rescindibile, è un nodo indissolubile rispetto al quale dall’interno delle istituzioni statali non si può da soli, senza un movimento di massa di rottura dell’ordine costituito, cambiare le cose.
Credo che tante vicende ne siano la dimostrazione, come la vicenda professionale di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. Falcone e Borsellino hanno rischiato la carriera più volte quando hanno dimostrato “insubordinazione”. Ricordiamo il procedimento disciplinare minacciato a Paolo Borsellino per un’intervista nella quale aveva lanciato l’allarme sul calo di attenzione alla lotta alla mafia e ricordiamo che poi Paolo dovette andare a Marsala. Seppe trovare anche a Marsala la forza e l’energia per continuare a occuparsi di mafia, lì dove lo incontrai, ma intanto il percorso del pool antimafia (al quale aveva dedicato quasi dieci anni della sua attività) era stato spazzato dall’azione combinata del Consiglio Superiore della Magistratura e della Prima Sezione della Cassazione presieduta da Carnevale. Non dimentichiamolo, magistratura e politica alleate contro gli eversori: Falcone e Borsellino. Il cliché si è ripetuto, i procedimenti disciplinari nei confronti di Di Matteo, Scarpinato, il procedimento per incompatibilità ambientale nei confronti del Procuratore Messineo hanno la stessa matrice, perché sono magistrati, alcuni perché parlano. Abbiamo visto la lettera di Scarpinato il 19 luglio scorso: il magistrato che parla e svela la verità va punito. Nel caso di Messineo sono stati ripescati fatti vecchi nel momento in cui Messineo ha messo piede nell’aula giudiziaria del processo “trattativa o ricatto allo Stato”.
Chi tocca quel processo deve saltare, questo è il messaggio che arriva forte e chiaro. È un messaggio di intimidazione nei confronti della magistratura inquirente, della magistratura giudicante e del prossimo Procuratore di Palermo, in modo tale che sappia a cosa va incontro se dovese sostenere certe indagini e certi processi.  
È già successo a Caselli, ed è già accaduto che il successore di Caselli per prudenza abbia deciso di non vistare l’appello per il processo Andreotti contro la sentenza di assoluzione di quest’ultimo. E’ una storia che si ripete. Ebbene, la verità è che uno Stato in queste condizioni non può e non deve processare se stesso, guai a chi ci prova. Ricordo in questi incontri (quando ancora svolgevo le funzioni di procuratore aggiunto a Palermo e mi occupavo dell’indagine sulla trattativa con i colleghi del pool che oggi coordina Vittorio Teresi) che cominciammo a parlare due anni fa con una certa emozione del fatto che si erano aperti degli spiragli, io dissi che eravamo nell’anticamera della stanza della verità e c’era l’emozione del vedersi profilare all’orizzonte quella verità imbarazzante, quella verità negata, quella verità che l’omertà di Stato ci aveva precluso. Andammo avanti per un altro anno, dissi l’anno scorso che eravamo entrati nella stanza della verità, ma che con un po’ di delusione avevamo trovato una stanza al buio, una stanza che non aveva la luce della verità, perché qualcuno aveva spento le luci. Successivamente mi sono convinto che in quei mesi è accaduto di peggio, che non solo è stata spenta la luce nella stanza della verità, ma è stato ricostruito il muro di gomma fatto di omertà di mafia e omertà di Stato che ha impedito alla verità di emergere in questi vent’anni. Per una serie di coincidenze (alcune fortunate, altre dovute alla caparbietà di qualche investigatore) si era aperta una falla e in quella falla, un po’ tumultuosamente, sono passate notizie, rivelazioni, improvvisi ritorni di memoria di uomini delle istituzioni smemorati, che per la prima volta hanno avuto paura di essere scoperti e di rispondere dei fatti che stavano venendo fuori per effetto delle rilevazioni combinate di Spatuzza da una parte e di Massimo Ciancimino dall’altra. Ma poi quel muro di gomma è stato chiuso e (tutti lo pensano, nessuno lo dice, ed è bene che qualcuno lo dica) per effetto di un atto della Presidenza della Repubblica con il quale è stato sollevato un conflitto di attribuzione che, al di là del valore che aveva e al di là del significato che quelle intercettazioni telefoniche avevano (l’abbiamo detto e ripetuto tante volte, non avevano alcuna rilevanza penale), è stato un segnale, un segnale di isolamento, di presa di distanza, anzi di conflittualità del palazzo sino ai più alti vertici nei confronti di una piccola istituzione, come è ovviamente la Procura di Palermo, a fronte della Presidenza della Repubblica.
E immediatamente (al di là che quella fosse o non fosse l’intenzione di chi ha avviato il conflitto di attribuzione) il muro di gomma si è richiuso, la falla si è tappata. Io non so, mi auguro (naturalmente non ho più accesso al segreto investigativo della Procura di Palermo e delle altre Procure) che così non sia, ma la mia sensazione, dall’esterno, è esattamente questa. E così è, non solo rispetto alle chance di accertamento della verità, ma rispetto al clima politico culturale e istituzionale che si respira nel Paese e si respira nelle istituzioni, perfino nelle istituzioni giudiziarie, un clima di cui è frutto la sentenza con la quale è stato assolto il generale Mori.  
Per riprendere Saverio Lodato che parlava dei commenti giornalistici, ho letto alcuni commenti alla sentenza Mori: “Si sgretola un pilastro del processo trattativa”, ma di quale pilastro stiamo parlando? Il processo trattativa si fonda (lo sanno meglio di me i colleghi che se ne occupano) su ben altri elementi, rispetto al quale il favoreggiamento di Provenzano a Mezzojuso costituiva un piccolo episodio che noi ritenevamo una appendice, una applicazione del patto politico mafioso che era stato stipulato per effetto della trattativa, la cui prova rimane forte e non è in alcun modo intaccata da questa sentenza. Sia chiaro, e questo lo dico ai giornalisti un po’ distratti. Per altro è una sentenza di primo grado, che già la Procura ha detto che impugnerà. Si dice che avrebbe segnato un cambio di marcia della magistratura giudicante, che sarebbe stata fino a oggi troppo indulgente dei confronti della Procura. Non so quale sia questa indulgenza della magistratura giudicante, non credo che segnali un cambio di marcia, credo che sia un ritorno indietro, rappresenta un vecchio modo di valutare le prove che noi c’eravamo dimenticati e questa è la dimostrazione. Sono gli effetti di quella cultura politico giudiziaria e istituzionale che è in involuzione, un passo alla volta, un giorno alla volta, anche per effetto di quel conflitto di attribuzione. “Bocciatura dei P.M.”, ho letto su qualche altro titolo di giornale, innanzitutto, con tutto il rispetto della magistratura giudicante, come una sentenza può bocciare una posizione del Pubblico Ministero, un Pubblico Ministero può bocciare il risultato di una sentenza, non esiste la supremazia della magistratura giudicante nei confronti della magistratura inquirente. Quindi i colleghi nell’atto di appello potranno bocciare la sentenza di assoluzione Mori. Tanto meno è un segnale ai P.M. per il quale i P.M. dovrebbero imparare a costruire in altro modo le inchieste. Io direi che forse bisognerebbe, in un rapporto biunivoco, anche dare indicazioni ai giudici su come modificare il loro modo di valutare le prove. Come si fa? Ci sono anche qua degli esempi, noi la storia dobbiamo ricordarla, anche questo è già successo. Certo, dobbiamo tornare a quarant’anni fa, perché l’Italia di oggi assomiglia a quella di quarant’anni fa, è già successo ad un grande magistrato, Pubblico Ministero e giudice istruttore, anche lui impertinente, anche lui che a un certo punto decise di fare politica. Quel magistrato si chiamava Cesare Terranova il quale da Pubblico Ministero prima e da giudice istruttore poi, mise in piedi delle straordinarie inchieste che misero alla sbarra per la prima volta la mafia corleonese del tempo, di Luciano Liggio e dei suoi sodali, ma ebbe due insuccessi gravi, al processo dei centodiciassette di Catanzaro, del dicembre del ’68 e al processo di Bari del ‘69 dove vennero tutti assolti. Cosa accadde? Che queste sentenze di assoluzione erano una indicazione a Cesare Terranova che doveva trovare come cambiare il modo di fare inchiesta? O Cesare Terranova capì che quella magistratura giudicante del tempo non era all’altezza di valutare le prove, o non c’era la cultura giuridico istituzionale per fare quel tipo di processi in cui i mafiosi erano impuniti. Allora erano i mafiosi con la coppola ad essere impuniti.
Cesare Terranova capì che dall’interno del palazzo di giustizia di Palermo non ci riusciva, si candidò in politica. Si candidò da indipendente nelle file del P.C.I. (ho detto che l’Italia di oggi assomiglia a quella di allora, mi sbaglio: l’Italia di oggi è peggiore dell’Italia di allora, perché nell’Italia di allora Cesare Terranova si candidò in una lista comunista che più rossa non si può) e nessuno si permise di mettere mai in dubbio il suo lavoro e la sua professione di magistrato quando era Pubblico Ministero e giudice istruttore a Palermo.
Cesare Terranova dimostrò che poteva essere più utile in quel momento da politico anziché da magistrato partecipando ai lavori della relazione della Commissione parlamentare che fu relazione di minoranza: denunciò Gioia, Lima, Ciancimino, quando la D.C. li difendeva, e quella relazione di minoranza fece storia. Fece storia, cambiò il modo di pensare degli italiani e cominciò anche a cambiare il modo di pensare dei magistrati e della magistratura giudicante. Fu un primo passo. Cesare Terranova capì che poteva tornare a fare il magistrato e nessuno, quando lui chiese di tornare a fare il Giudice a Palermo, pensò di spedirlo né ad Aosta né disse che non poteva avere l’imparzialità per fare il magistrato a Palermo, né la Democrazia Cristiana e neppure il Movimento Sociale che erano i partiti dall’altra sponda rispetto al Partito Comunista. E neppure Emanuele Macaluso, ma era un’altra Italia. La mafia aveva le idee chiare e non consentì a Cesare Terranova di riprendere il suo posto, perché venne ucciso prima che assumesse le funzioni di consigliere istruttore a capo dell’ufficio istruzione di Palermo. Ma il seme proseguì e poi Falcone, Borsellino, Costa ancora prima di lui, ancora accerchiati da una magistratura nella quale continuavano a fioccare le assoluzioni per insufficienza di prove.
Ecco che il 416 bis (come dovrebbe ricordare, ma ogni tanto dimentica, Giovanni Fiandaca di avere scritto qualche anno fa) è stata soprattutto una norma di orientamento politico culturale, una norma che ha cambiato la mentalità dei giudici, una norma che non ha ampliato l’ambito di applicatività del reato associativo, ma ha dato una spinta ai giudici. Ed ecco che improvvisamente, folgorati sulla via di Damasco, sono cominciate a fioccare le sentenze di condanna, di fatto è cambiata radicalmente la giurisprudenza.
Ma su cosa è cambiata la giurisprudenza? Un passo alla volta, è cambiata nei confronti dei mafiosi con la coppola. Ai tempi di Terranova venivano assolti i mafiosi con la coppola, ai tempi di Falcone e Borsellino questi si sono cominciati a condannare, ma appena Falcone e Borsellino hanno provato a saltare, a salire il gradino più alto dei rapporti mafia - politica, mafia - affari (da Ciancimino ai cugini Salvo, ai Cavaliere del Lavoro di Catania), arrivarono i guai per Falcone e Borsellino. E lì avviene la distruzione del pool antimafia, complice la magistratura, un’altra magistratura giudicante, quella della Cassazione di Carnevale (per altro assolto), quindi non è frutto necessariamente di collusione; se fosse frutto di collusione meglio sarebbe. È frutto invece di omologazione, di un’omologazione politico culturale istituzionale di cui è stata vittima tutta la classe dirigente, quella di cui parlava il collega Gozzo nella sua lettera quando dice del Ministro per il quale bisogna convivere con la mafia.
Prima bisognava convivere con la mafia, poi bisognava convivere con la borghesia mafiosa, ma guai portare alla sbarra la borghesia mafiosa. Ma anche questo scalino, alla fine, con il prezzo e con il sacrificio del sangue di Falcone e Borsellino lo abbiamo salito, siamo riusciti a salire su quel gradino, il gradino delle relazioni esterne. E’ quello che si è riusciti a fare con il processo Andreotti, con il processo Dell’Utri, con il processo Contrada. Si è riusciti a fare quello che a Falcone e Borsellino non è stato consentito fare, salire il gradino del rapporto mafia - politica, mafia - economia. Ora siamo davanti ad un altro gradino ed è quello più alto, non so se è l’ultimo gradino, ma a oggi è l’ultimo che vediamo. Non è più il rapporto mafia - politica, mafia - economia, non è più il rapporto di collusione con la mafia di singoli politici o di gruppi di politici, ma è la collusione fra lo Stato e la mafia, questo è il tema del processo cosiddetto “trattativa o riscatto allo Stato”, cioè il procedimento penale che per la prima volta nella storia del nostro Paese vede alla sbarra nello stesso processo i capi mafia, i capi degli apparati investigativi dei servizi segreti, ex Ministri e parlamentari. E questo lo Stato italiano oggi non lo regge, oggi lo Stato italiano non regge questo tipo di processo. Non lo vuole. E non vuole che siano processati uomini di Stato (lo dice, addirittura, Giovanni Fiandaca in quell’articolo e lo legittima), non bisogna fare processi di questo genere. Noi siamo davanti a questo scalino ed è uno scalino dietro il quale non c’è soltanto il processo allo Stato, c’è anche sangue, ci sono le stragi, c’è il sangue in particolare di Paolo Borsellino e della scorta, che è morta con lui, perché è morta su quello stesso gradino nel momento in cui Borsellino (un po’ per testardaggine, ma un po’ per quello che si è saputo fino a oggi, perfino quasi per caso) ha saputo la verità sulla trattativa. Lo Stato non vuole che i cittadini italiani sappiano questa verità, il tema è questo, la persecuzione politico giudiziaria nei confronti dei magistrati che vogliono continuare ostinatamente a fare questo processo è tutta lì.
Per salire questo scalino bisogna fare come fece Cesare Terranova, capire che contro un muro di gomma così non basta sostenere la magistratura e l’impegno dei magistrati (che con la schiena diritta, con l’impegno e a testa bassa vanno avanti), perché quel muro è più potente, è più potente dei pochi magistrati che si impegnano e di quei pochi magistrati andranno a sbattere contro quel muro. Ci dobbiamo rassegnare? Io dico di no, io dico però che assieme ai magistrati che devono continuare ad insistere da questa parte del muro di gomma per cercare di aprire degli altri varchi bisogna girare dall’altra parte del muro.
Soltanto con un impegno serio si possono aiutare i magistrati a buttare giù quel muro, ma per andare dall’altra parte del muro non occorre qualche Don Chisciotte che si improvvisa manovratore senza sapere come si entra nella stanza dei bottoni, occorre un movimento di massa che si impegni su alcune battaglie che si possono fare. Credo che vadano fatte alcune proposte, credo che una di queste debba cogliere l’occasione di questa legge istituiva della Commissione parlamentare antimafia. Credo che non ci sia solo la responsabilità penale, ci deve essere anche la responsabilità politica, ma questo Parlamento è un Parlamento eletto in virtù di una legge elettorale incostituzionale, è un Parlamento che non ha la legittimità e la legittimazione per accertare la verità sulle stragi e sulla trattativa.
Bisogna chiedere al Parlamento che faccia un atto di volontà, che modifichi la legge parlamentare e che per la prima volta (del resto ogni Commissione parlamentare si istituisce in virtù di una legge), introduca un’innovazione nella composizione della Commissione parlamentare: si preveda che non come consulenti, ma come membri di diritti ne facciano parte i rappresentanti delle associazioni dei familiari delle vittime e delle associazioni che si sono impegnate per la verità sulla stagione delle stragi a cominciare ovviamente, visto il suo impegno, dall’associazione delle Agende Rosse, ma non solo, che facciano parte della Commissione di inchiesta. Che sia una Commissione di inchiesta mista di parlamentari e di rappresentanti della società civile con gli stessi poteri di ogni Commissione parlamentare di inchiesta. Il Parlamento può fare una modifica alla legge appena approvata perché si accerti la verità (al punto da aver raggiunto quasi l’unanimità nell’inserire questo emendamento nell’istituzione della Commissione parlamentare di inchiesta che si occupi anche delle stragi e della trattativa), immagino che non avranno difficoltà a fare una modifica del genere, visto anche la pessima prova che ha dato quella scorsa. La Commissione Pisanu aveva promesso che si sarebbe occupata delle indagini sulla trattativa e apparentemente l’ha fatto, con una sfilata di audizioni. Ma poi la montagna ha partorito un topolino con un risultato in cui la Commissione parlamentare di inchiesta (che avrebbe dovuto indicare la responsabilità politica dei politici responsabili della stagione delle stragi e della trattativa) li ha assolti tutti, la politica si è autoassolta. Di una Commissione parlamentare così non ci fidiamo e chiediamo che questa Commissione parlamentare sia invece integrata in modo paritario da componenti della società civile. Dimostri in questo modo il Parlamento di essere all’altezza delle aspettative e se non lo fa il Parlamento si faccia una petizione popolare con una raccolta di firme, con la quale si chiede alla Commissione parlamentare che non inizi i propri lavori se non c’è una partecipazione dei rappresentanti della società civile.
Credo che questo possa essere solo un esempio del fatto che si può abbattere il muro di gomma e lo si può abbattere non delegandolo soltanto alla magistratura, soprattutto quando la magistratura è isolata, accerchiata, direi disarmata da un potere politico istituzionale ostile in modo totale e globale. Credo che in questi casi si possa riuscire a cambiare le cose soltanto con una forte (non direi più mobilitazione popolare, non basta neanche più la mobilitazione popolare) e vera e propria sollevazione popolare.
Abbiamo bisogno di una sollevazione del popolo che vuole la verità, che vuole che sia abbattuta l’omertà di Stato, che ha protetto fino ad oggi i mandanti a volto coperto della strage di via d’Amelio e delle altre stragi impunite del nostro Paese, una sollevazione popolare contro la giustizia diseguale, forte con i mafiosi con la coppola e debole con i potenti.
Leggeremo la motivazione della sentenza Mori, ma mi colpisce che sia stata usata la stessa formula assolutoria, il fatto non costituisce reato, già utilizzata per la mancata perquisizione del covo di Riina e se i giudici del favoreggiamento Provenzano arriveranno alla stessa conclusione (cioè che c’è un difetto di dolo), abbiamo uno dei più importanti, acuti, intelligenti e abili investigatori di razza come il Generale Mori che ha favorito la mafia, prima mancando di perquisire il covo di Riina - senza rendersene conto - e ha favorito Provenzano per la seconda volta – senza rendersene conto. Un caso paradossale di favoreggiamento della mafia “a sua insaputa”, da parte del più alto e più importante e più famoso investigatore del Paese. Io non ci credo e so che le cose non possono essere andate così.
Occorre questa sollevazione popolare contro questo Stato. Questo Stato delle tante trattative, che probabilmente oggi, dietro le quinte, avvengono; non so cosa abbiano accertato o stiano accertando i colleghi sulla vicenda relativa alla cosiddetta confidenza di Totò Riina all’agente di custodia, ma quella non è una confidenza, quella non è una rivelazione: quello è un messaggio in codice per riaprire altre trattative.
Ci sono altre trattative in corso oggi, noi non vogliamo più uno Stato delle trattative. Contro lo Stato delle trattative occorre appunto questa sollevazione popolare, per uno Stato che sia davvero intransigente.
Per abbattere quel muro di gomma, per una politica che sia amica della giustizia e della magistratura e non ostile della verità (come è stata ed è ancora oggi), nella consapevolezza che la magistratura da sola non può cambiare il corso degli eventi, solo un movimento di massa può scardinare il sistema criminale che oggi è direttamente intrecciato con pezzi del sistema istituzionale. Lo può scardinare non la magistratura, lo può scardinare solo un movimento dal basso, credo che questo si debba fare, non solo per un dovere nei confronti dei morti, ma lo si debba fare perché senza verità non avremo democrazia, senza verità non avremo pace, e questa è una pace che dobbiamo anche a chi non c’è più.

* Intervento di Antonio Ingroia al convegno “Paolo Borsellino: la mafia mi ucciderà ma saranno altri a volerlo”

Foto © Giorgio Barbagallo

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