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melati-pieroPubblichiamo di seguito la replica del giornalista Piero Melati in risposta all’intervento del procuratore aggiunto di Caltanissetta Nico Gozzo
26 aprile 2013

Caro direttore, per prima cosa vorrei ringraziare il dottor Gozzo. L'intervento da voi pubblicato rompe il rituale del silenzio. Di solito i magistrati firmano provvedimenti, i giornalisti ne scrivono, poi se ne commenta esclusivamente in privato. Al massimo, nella versione più recente, quando la misura è colma, esplodono fragorose le polemiche, come quella che recentemente ha contrapposto (in differenti trasmissioni televisive) il presidente del Senato Pietro Grasso e il vicedirettore del Fatto Marco Travaglio.

A seguire, restano veleni, e odio e divisioni finiscono per sedimentare nel tempo, nutrendo sempre nuove tossine, al modo di certe faide secolari tra clan in Aspromonte. Il dottor Gozzo ha scelto, invece, di replicare. Ha fatto bene. Oggi, in un'era di apparente comunicazione globale, manca il confronto. I teatri sono pieni, in occasione dei dibattiti sull'antimafia. Le cerimonie sono partecipate. Ma sugli interrogativi cruciali, la forza si disperde, prevale la retorica, ognuno sta attento a non debordare dal copione assegnato in commedia.
Una vecchia foto ritrae, sotto la sede del giornale L'Ora di Palermo, appoggiati alle auto in sosta, i cronisti Attilio Bolzoni, Francesco La Licata, Saverio Lodato, Piero Melati, Francesco Vitale. Ci vedevamo ogni giorno, intorno alle 14, orario di uscita del quotidiano del pomeriggio, per fare il punto della situazione. La guerra di mafia volgeva al termine, Tommaso Buscetta aveva già «cantato», si era alla vigilia del maxiprocesso di Palermo. Quella foto fu scattata perché il collega fotografo immortalava sempre i cronisti di mafia, nel caso un giorno qualcuno di noi fosse ammazzato. Uno scatto della vittima sarebbe tornato utile alle pagine di cronaca. In quell'occasione, il fotografo forse pensò ad una possibile strage.
Non era un pool. Ma ci somigliava. E, naturalmente, a quella scenetta mancavano altri colleghi altrettanto di trincea, già in anni precedenti o arrivati in quelli immediatamente successivi. Ognuno scriveva quello di cui era capace, dopo quegli incontri. Ma erano sempre utili a calibrare i fatti, a non scantonare in ipotesi fumose, a non cadere in trappola o finire ghermiti dalla «coppola» che si annidava anche nelle redazioni di tutti i nostri rispettivi giornali.
In quegli anni in cui Cosa Nostra veniva decriptata per la prima volta imparammo (quasi con stupore ma con crescente certezza) che non esisteva il terzo livello della mafia. Era una favola. E non è il caso di ricordarcelo ancora oggi. Ce lo insegnò quello stesso signore che un giorno ebbe a dire che era siciliano (non, per dire, milanese), e che quindi la sua vita valeva quanto il bottone della sua giacca. Figurarsi dunque quanto può valere, per un siciliano, quale sono, nato e cresciuto a Palermo, un pezzo giornalistico. Per esempio, quanto può valere scriverlo o non scriverlo, magari per motivi di opportunità o per non bruciare un'inchiesta. Mi è successo tante volte, in passato, di avere una buona ragione per non scrivere. Oggi meno. Più i fatti diventano piccoli, più piccoli sono i personaggi che li animano, e meno non scriverne mi costa.
Noi siciliani ci sentiamo sempre il sale della terra. Ma non dobbiamo esagerare. Il dottor Gozzo afferma che, con un «tempismo incredibile che solo in Italia può trovare eguali» un generico settimanale (era il Venerdì di Repubblica presso cui lavoro) ha dato ospitalità a un libro (Doppio livello, Stefania Limiti, Chiarelettere), con un articolo (firmato dal sottoscritto) dato alla stampa quattro giorni prima di una operazione «quasi a volerla indirizzare». «Se fossi un complottista, direi che ci sono dietro i soliti servizi» scrive il dottor Gozzo.
Si può rivolgere accusa peggiore a un giornalista? E questo anche a proposito di quell'essere «lasciati soli o, peggio, isolati» di cui scrive il dottor Gozzo alla fine della replica. Dunque, sarebbe stata mia intenzione «indirizzare» una indagine. Tra l'altro, per conto dei servizi. Lo penserei, dice il dottor Gozzo, se fossi un «complottista» (come siete voi, è il sottinteso: strano, è la stessa accusa che mi muovono ogni tanto anche gli attuali eredi del Giornale di Sicilia, quella testata che sempre quel signore di cui sopra soprannominò in quegli anni L'Eco di Ciaculli)). Ma non sono complottista, afferma il magistrato. L'insinuazione, però, rimane. Ed è grave per chi, come me, è «scappato» da Palermo colmo di orrore, come tanti altri colleghi in quei mesi, il giorno che la corte del maxiprocesso si ritirava in camera di consiglio, e il capo di Cosa Nostra Michele Greco augurava ai giudici «la pace etrerna», e io ripensavo all'avvocato Paolo Seminara, prestigioso penalista palermitano, che prendendomi a braccetto mi aveva appena raccontato i retroscena del delitto del giornalista Mario Francese, o al conte Arturo Cassina che mi mandava in regalo per Natale il salmone con dentro infilato un bel coltellaccio per tagliarlo. Era la mia città e l'abbandonavo. Quella stessa che mi aveva ucciso già una volta, e poi salvato, e che ora voleva divorarmi nuovamente. E della quale contavo i morti, i miei morti, quelli noti e quelli sconosciuti, che ancora oggi restano tanti, troppi, se proprio volessimo farci sopra una bella gara. La darei per vinta a priori solo ai narcocronisti messicani. Ma a nessun altro al mondo. E quindi figurarsi: «indirizzare» una indagine. Posso? Con tutto il rispetto, non me ne può fregare di meno.
I servizi, dunque. Veramente, se debbo pensare ai servizi, mi viene in mente il caso di Natale Mondo, l'agente sopravvissuto all'agguato al capo della Mobile Ninni Cassarà nell'estate dell'85, dapprima accusato di essere una talpa e poi ucciso dalla mafia. O quello del capo della Catturandi Beppe Montana o della «trappola» della successiva morte dentro la Questura di un indiziato. Ancora, quello del colonnello Riccio, al quale prima venne bruciato e poi ucciso il confidente, Luigi Ilardo, che poteva far catturare anzitempo Provenzano. O ancora, il caso di Arnaldo La Barbera e del depistaggio sull'inchiesta Borsellino (se il pentito Spatuzza non ne avesse parlato, avremmo mai saputo la verità?). Oppure l'omicidio del sindaco di Palermo Giuseppe Insalaco, il «copia e incolla» di Massimo Ciancimino del nome del prefetto Gianni De Gennaro nel foglietto del presunto «papello», l'attentato dell'Addaura a Falcone, il finto sequestro del banchiere Sindona, o infine la trappola tesa al magistrato Alfonso Sabella in occasione del G8 di Genova.
Ecco, sono questi i casi in cui sento odore di servizi. Ma non solo. Ci sono poi la sparizione delle carte di Dalla Chiesa dalla cassaforte della prefettura dopo l'omicidio, la cancellazione dei file di Falcone dal suo computer al ministero, lo scippo dell'agenda rossa di Borsellino in via D'Amelio. Mi permetto di dire che sono tutti casi interni agli apparati investigativi, compreso l'interrogativo che coloro che si occupano di mafia si fanno da sempre e ancora oggi: ma i casi di Bruno Contrada, del colonnello Mori, del generale Subranni, del compianto La Barbera e della squadra di superinvestigatori del gruppo Falcone-Borsellino, del pubblico ministero Domenico Signorino e tanti altri, sono esempi di persone individualmente «irretite» dalla mafia, oppure viceversa hanno lavorato in «terra di nessuno», lì dove sono in vigore i segreti di Stato, su mandato politico o di apparati a loro superiori, e poi all'improvviso sono rimasti con il cerino acceso in mano? E non importa se alcuni sono già stati condannati e altri sono ancora sottoposti a processo. Importa la sostanza dell'interrogativo.
Noi diciamo sempre: il palazzo dei veleni, per riferirci alle faide dentro l'Antimafia. E così già abbiamo perso. Fuori dalla Sicilia, nessuno capisce mai. Ma insomma, tizio è mafioso oppure no? Questo un cittadino non siciliano vorrebbe sapere con chiarezza. E allora. I mafiosi hanno parlato. Cosa Nostra ha prodotto dei pentiti, veri, presunti, pilotati, parziali, ma pentiti. I politici, come noto, non parlano. Ma non parlano neppure gli investigatori, gli inquirenti. La prima divisione formale dentro gli uffici giudiziari risale alla vigilia del maxiprocesso di Palermo. Negli atti istruttori del processone, la Procura diretta da Vincenzo Pajno definì«contiguità» il rapporto tra mafia e politica. L'Ufficio istruzione del pool antimafia guidato da Nino Caponnetto, invece, la definì «convergenza di interessi». Successivamente, la divergenza proseguì nella differente strategia giudiziaria, l'una che propugnava l'esistenza di un concorso esterno alla mafia, e l'altra che indicava come reato il favoreggiamento. Due anime. Sempre. Divisioni profonde, spesso laceranti, anche generazionali (i giudici operanti già prima delle stragi del '92 e quelli emersi subito dopo quella stagione), che hanno spesso fatto tracimare i loro veleni fuori dagli uffici, ma mai con schietta chiarezza. E dentro le divisioni, quelle in buonafede e legittime, hanno allignato i sospetti. E quei sospetti sono stati il contesto favorevole a complotti e depistaggi, fatti invece a bella posta. Ma mai la magistratura o gli apparati investigativi ne hanno parlato senza lingua biforcuta, preferendo piuttosto lavare i panni sporchi in casa. Al mio Paese, si chiama omertà. Si chiama doppia morale (una per casa mia, l'altra per il pubblico). Questo ha generato l'insopportabile retorica che caratterizza le cerimonie rituali dell'Antimafia e non fa onore ai suoi caduti.
Il dottor Gozzo dice però di «stare con i piedi per terra». Non vuole essere complottista, e dunque attribuisce a una «insufficiente tenuta» la diffusione della notizia dell'ormai prossima esecuzione delle ordinanze su Capaci, e la conseguente astuta volontà dell'autrice del libro di approfittare di una occasione per lanciarlo. «Ed ecco lo scoop» scrive. È sconfortante. Punto primo: io stesso ho chiesto all'autrice del libro, Stefania Limiti, e alla sua casa editrice, Chiarelettere, di far slittare di una settimana l'uscita, cosa su cui hanno acconsentito, e questo per non incrociarsi con la contemporanea uscita del nuovo libro di Roberto Saviano. Avremmo fatto slittare anche l'inchiesta? O l'uscita del libro e dell'articolo l'hanno piuttosto anticipata? Punto secondo: Stefania Limiti non ha scritto un libro su Capaci, ma su una miriade di altri casi italiani irrisolti (dei quali il mio articolo non ha trattato). Punto terzo: nel mio articolo, mi sono limitato a trattare il capitolo del libro che affrontava le indagini su Capaci, con un metodo che la stessa Limiti mi aveva proposto. «Fai pure prima le tue verifiche, non ti voglio influenzare» mi ha detto girandomi le bozze del lavoro. Punto quarto: nessuno dei miei interlocutori si è fatto mai scappare nulla su sviluppi relativi all'inchiesta bis su Capaci, dei quali infatti non avevo idea.
Questo è un punto importante. Ho girato varie procure, uffici inquirenti, parlato con investigatori e magistrati. E mi sono fatto l'idea, quella si, in piena autonomia, che qualcosa bolliva in pentola, e non solo su Capaci. Ma non certo imminenti sviluppi, come quel tipo di ordinanze. Se posso permettermi, mi era sembrato di intravedere persino di più. Avevo colto nei miei interlocutori una disposizione d'animo generalizzata a rileggere le cose, la stessa che avevo trovato nei mesi scorsi (in occasione degli anniversari delle stragi e dei delitti politici) in molti inquirenti e colleghi giornalisti. Per questo, in quell'articolo, ho parlato di analisti e usato a bella posta un linguaggio tecnico, anziché utilizzare il solito registro retorico dell'Antimafia da cerimonia.
Questo punto, per me, è drammatico. Dimostra che non si comprendono, o non si vogliono accettare, i percorsi autonomi che certe professioni compiono nell'atto di espletarsi. Per cui tutto deve essere solo malafede. Facciamo un esempio. Ci sono casi, come quello degli scandali di portata planetaria in Vaticano e dei libri sul tema scritti dal giornalista Nuzzi, in cui effettivamente un fatto eclatante come quello può trascinare un libro. Ma quando il fatto, come in questo caso (otto nuove ordinanze per Capaci, notificate in carcere) occupa per un solo giorno mezza pagina di giornale, e non su tutti i quotidiani, esaurendosi in 24 ore, l'effetto lancio per un libro è francamente risibile. Ed è scoraggiante che un magistrato non creda più che un giornalista o l'autrice di un libro possano intraprendere una strada autonoma rispetto al lavoro di una Procura. Quest'ultimo difetto, però, è attribuibile soprattutto a noi giornalisti. Sono anni che il giornalismo giudiziario o d'inchiesta italiano (con alcune eccezioni, per fortuna) è schiacciato sul lavoro delle procure, senza più alcuna capacità di elaborare un pensiero autonomo e autonome capacità di verifica e d'inchiesta. Non si tratta di sostituirsi all'autorità inquirente. Ma di tenere conto di un dato. Non c'è più giornalista esperto di cose di mafia che oggi non ti dica che ha più dubbi di ieri, che oggi ha l'impressione di avere meno certezze che in passato. Ci sono tanti «dogmi» di cui non siamo più sicuri. Magari, non c'è ancora il coraggio e le occasioni per dirlo apertamente. Ma lo stato d'animo generale lo si può cogliere, eccome, in tanti addetti ai lavori. Non bastano più cerimonieri retori e tromboni mediatici. E la soluzione non è far diventare l'Antimafia una accademia di storia, per altro più scarsa delle altre. E non mi interessa se per tanti questa è diventata poco più di una professione. Per me è la storia della mia città, è la mia storia. Non la delegherò mai più a nessuno.
Il dottor Gozzo elenca risultati, che sono indubbi. Di più. Cosa Nostra sembra che sia stata abbattuta. Addirittura scomparsa. Forse si è resa invisibile, forse è cambiata. Non ne sappiamo nulla. Grazie a Dio, gli ultimi esaustivi rapporti investigativi risalgono alle calende greche. Non è vero neppure che si sappia tutto del passato. Nelle carte del maxiprocesso, dove pure Tommaso Buscetta risultava credibile e credibile doveva risultare anche in vista del dibattimento, il pool antimafia non lesinò a sottolineare certe zone d'ombra delle sue ricostruzioni (il suo rapporto con Gaetano Badalamenti, per esempio, i motivi perché un capo della Commissione come lui sia stato «posato» ma non eliminato, il ruolo dello stesso Buscetta e di Badalamenti nel traffico internazionale della droga). Quel coraggio nel non nascondere i punti deboli di una grande ricostruzione, come fu quella del maxi, è una lezione per l'oggi. Non tutto è fumo, non tutte sono cortine fumogene, non è «semplicistico ragionamento» dire che se l'inchiesta Borsellino è stata obbligatoriamente rivisitata sarebbe bene verificare anche altre indagini date per concluse. Questo non significa demolire il già fatto, o pretendere che si facciano processi senza prove. Ma tutto quel che non è prova, non è detto sia solo rumors o gossip.
Ha ragione il dottor Gozzo: non si è scavato abbastanza sul 4 marzo del '92, data fatidica in cui Totò Riina (prima dell'omicidio di Salvo Lima) cambia misteriosamente strategia, a proposito della sua campagna di vendette, scegliendo il terrorismo stragista. Questo è indubbiamente un punto cruciale. Ma chi non ha scavato? Chi non ha fatto scavare? Di questo passaggio si sa persino meno di quanto già poco si sappia sulla trattativa Stato-mafia. Riina opera da quel momento una scelta più «teatrale», che lo porta a rivolgersi a Rampulla, uomo d'onore si, ma di destra e bombarolo. Purtroppo Rosario Cataffi, che collega Rampulla alla destra eversiva, parla del Rampulla e della trattativa Stato-mafia ma non, ci dice il dottor Gozzo, di «cose forse ancora più scomode». Ecco, davanti a queste cose «ancora più scomode», forse l'uso di quel «teatrale», a proposito del più grande attentato mai organizzato e consumato nel mondo su un'auto blindata in corsa (questo fu Capaci), è lievemente riduttivo. Il teatro è una cosa finta, è pura immagine, funi, fumo, guitti e manovelle. Capaci fu una operazione militare vera e senza precedenti al mondo. E sul ruolo di Rampulla, e sulla sua assenza sul lungo della strage il giorno in cui doveva premere egli stesso il telecomando, e sui risibili motivi di quella assenza, il pentito Brusca ci ha detto (oppure sa) davvero troppo poco.
Opportunamente il dottor Gozzo indica un filo rosso («o nero» scrive) che lega il '92 al '94. Il punto chiave, insiste, sono i Graviano. E c'è da credergli indubbiamente, come sono indubbi i risultati raggiunti (45 boss assicurati alla giustizia e una ricostruzione dei fatti grandemente completa, fin dove si è potuti arrivare) dopo il lavoro dei pm Bocassini e Tescaroli e l'impegno costante e irriducibile della Procura di Caltanissetta. Restano, però, le zone d'ombra. Le ho scritte in quell'articolo, non le rielenco. E resta il ruolo poco chiaro che gli stessi Graviano hanno giocato dentro la trattativa Stato-mafia (a proposito, ma ne sono imputati?) e, al pari, quello di Matteo Messina Denaro nella strategia delle stragi 92-94, e soprattutto il suo ruolo successivo al mancato attentato ai carabinieri allo stadio Olimpico di Roma, il suo ruolo dopo l'arresto di Bernardo Provenzano, il suo ruolo in rapporto con Riina, compresa la simpatica corrispondenza intrattenuta tra il latitante numero uno di Cosa Nostra e l'ex sindaco di Castelvetrano, ad uso dei rispettivi nickmane di Alessio e Svetonio, e senza che poi il suddetto ex sindaco abbia avuto ritorsioni di sorta da parte dello stesso Messina Denaro. Ecco, qui l'odore dei servizi esala nuovamente.
Possibile che quando il boss Giuseppe Di Cristina, nell'aprile del 1978 a Riesi, parla con i carabinieri, divenendone il confidente, prima di venire ucciso nel maggio successivo dai corleonesi (l'episodio è, più o meno, l'incipit dell'ordinanza del maxiprocesso di Palermo) la sua non fosse un'eccezione, bensì la regola, degli uomini d'onore in difficoltà? Possibile che i rapporti con l'eversione nera e le sue coperture politico-militari da parte della mafia (zona d'ombra tante volte osservata da Falcone, dall'omicidio di Piersanti Mattarella in poi) possano non costituire una eccezione? La strage di Portella della Ginestra è fuori contesto oppure è il contesto? Possibile che Riina, nella sua autonomia di capo di una Cosa Nostra autarchica, sia stato strumentalizzato e posto su un piano inclinato (prima usato e poi fatto sciddicare, ovvero scivolare)? Possibile che la 'ndrangheta, in un certo momento della sua storia, anziché far favori a Cosa Nostra (come è sembrato in apparenza) in realtà lavorò contro i «cugini», magari per prenderne il posto nei cartelli mondiali della droga?
Un fatto è certo. Con ipotesi e domande non si va a processo e non si hanno in mano prove. Ha ragione il dottor Gozzo. Ma dire per questo che tali ipotesi e domande siano solo gossip lo trovo scoraggiante. Quel che non potremo mai ricostruire lo concelleremo dunque dalla realtà? Siamo destinati a fare per sempre dei nostri eroi degli sterili santini, senza vederne mai (finalmente) anche i difetti e le ombre? Siamo condannati alla retorica? Dovremo continuare a dire, come il dottor Gozzo fa alla fine del suo scritto, che nessuno ha mai chiesto scusa alla Procura di Caltanissetta per averla accusata di avere iscritto tra gli indagati chi faceva dichiarazioni su un potente, invece che quel potente stesso oggetto delle dichiarazioni, e questo neppure dopo che il dichiarante è stato arrestato, senza poter dire apertamente che l'iscritto poi arrestato era Massimo Ciancimino, il potente Gianni De Gennaro, e il collega che mai chiese scusa Antonio Ingroia? Senza poter mai dire a Ingroia di essere, a un certo punto, ammalatosi di mediaticità (e magari difenderlo dall'attuale accanimento), a Ciancimino che se non dice tutto meglio che si ritiri a vita privata, e al dottor De Gennaro di narrarci come mai il più eroico gruppo di poliziotti antimafia italiani sia poi finito così malamente, e chiederlo persino forzando il lutto per la scomparsa recente di un galantuomo come Antonio Manganelli? Tutte storie che bruciano dentro un falò, che meriterebbero invece la cura di essere raccontate con rispetto e dignità, con maggiori verità e coraggio che in passato. Senza essere per questo, caro dottor Gozzo, essere fiutati come gente in odore di servizi. A proposito, ma intendeva deviati o ufficiali?

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