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impastato-peppinodi Salvo Vitale - 5 gennaio 2013
Sono tentato di scrivere: Oggi Peppino ha 65 anni, e non “avrebbe”: che è un modo  di essere coerenti con lo slogan di ogni 9 maggio: “Peppino è vivo e lotta insieme a noi, le nostre idee non moriranno mai”. Del resto, proprio per questo ho  intitolato “Peppino è vivo” il libro di poesie scritte su di lui da  ogni parte d’Italia.


Quali siano le idee “immortali” di ragazzi poco più o poco meno che maggiorenni, è difficile dire: a quell’età è facile, se non d’obbligo o di moda essere “ribelli”, “rivoluzionari”, “estremisti” ecc., poi, piano piano si rientra nei ranghi, si diventa come gli altri, si considera che si può sopravvivere solo con l’accettazione delle regole “comuni”, spesso si diventa “agenti” del deprecato sistema che ci si riproponeva di combattere. Il radicalismo viene seppellito sotto cumuli di imposizioni, di ricatti, di bisogni di sopravvivenza e le idee che “non moriranno mai”, passano, si trasmettono, ma in modo molto diluito, a coloro che seguono e che hanno appena cominciato a credere nella possibilità di un mondo migliore: quelle idee, “le nostre idee” immortali vengono deposte su una foto di Peppino affinchè altri raccolgano un testimone che non ci si sente più di portare in prima persona. E Peppino è ancora lì, seppellito dalle sue idee, dal suo tempo, da altri tempi, pronto a risorgere e a morire di nuovo, non certo come Cristo, ma come “idea” della rivoluzione prossima ventura. Ne ho visti tanti, di questi “compagni di scuola” passati dalle barricate al posto in banca.

Le idee
Quali erano, quali sono queste idee che non moriranno mai”? Innanzi tutto “avere un progetto politico” essenzialmente basato su una società strutturata in modo che ognuno possa soddisfare i propri bisogni senza suscitare l’invidia, lo sdegno, il malessere dell’altro. Cioè essere comunista. Si tratta di una nobile parola su cui sono state scaricate tutte le ingiurie e le mistificazioni possibili, soprattutto da parte di quelli che avrebbero tanti privilegi da perdere. Oggi i sistemi politici di tutto il mondo hanno avuto il potere e la capacità di emarginare il comunismo, al punto da ridurlo a scelta ideologica di pochi estremisti che vogliono sovvertire l’ordine naturale delle cose.  Eppure nulla è più nobile che vivere “in comune” la soddisfazione dei propri bisogni e la produzione di un lavoro che ci appartenga e non ci venga espropriato da un padrone. Il secondo punto è il “comunicare”,  cioè utilizzare gli strumenti della comunicazione come  momenti di interscambio, come momenti di reciproca scoperta e crescita interiore: non si può lottare per una società “comunista” se non si “comunica” il significato di comunismo, se si sono recepite informazioni distorte su di esso, se si è convinti che il sistema delle ingiustizie in cui viviamo è il migliore possibile e che qualsiasi sistema diverso è un attentato alla propria libertà di scelta. E siamo al terzo punto, “la libertà”, non come parola da mettere in un simbolo elettorale, ma come scelta interiore ed esteriore, cioè come pieno e libero sviluppo delle proprie capacità, dove ogni minoranza ha il diritto di organizzarsi e di ritagliarsi i propri spazi, ma dove è da considerare reato attentare alla felicità di tutti per realizzare solo la felicità di qualcuno. Quarta idea è “la rivoluzione”, che non è il momento della lotta armata liberatoria, per l’instaurazione di un nuovo regime, magari fondato sul terrore. La rivoluzione è dentro noi stessi quando siamo capaci di mettere in discussione un progetto, un’aggressione al territorio, un tentativo di speculazione, una violenza psicologica, se non fisica, quando siamo capaci di non renderci schiavi delle regole imposte dagli altri attraverso i secoli, ma siamo capaci di “inventare” nuove regole, di rimettere in discussione anche quelle, di rifondare giornalmente i nostri progetti e i nostri propositi sulla base del sano rapporto dialettico tra teoria e prassi, pensato da Marx. E, del resto, senza esorcizzare il principio di violenza che agita i fermenti rivoluzionari, esiste anche una “rivoluzione della non violenza”, che ha i più nobili esempi in Danilo Dolci e in Ghandi. Un altro punto fermo di riferimento è la “fantasia”, “l’immagination au pouvoir”,  non solo al potere, ma in ogni stadio della vita, ovvero la lotta al conformismo, all’acquiescienza, alla capitolazione, all’accettazione acritica, a quel “sonno della ragione” che “genera mostri”. In un mondo in cui “il Grande Fratello” di Orwell ormai domina, in cui siamo schiavizzati dall’auto, dall’elettrodomestico, dal supermercato, dalla moda, dalla bella casa, dalle ritualità religiose e civili, dal formalismo, dalla progressiva polverizzazione, sino alla scomparsa del denaro liquido, dalle montagne di rifiuti non ritirati e non riciclati, la capacità di “inventare” nuove forme di vita, di rigenerare la vita in scatola verso nuove scelte e riappropriazioni, di evadere, o almeno, provare ad evadere dalla prigione, dalla trappola in cui ci si ritrova prigionieri sin dalla nascita, è lì l’eredità di Peppino, ancora oggi inesplorata e ricca di fermenti che purtroppo, anche buona parte di coloro che dicono di ispirarsi a lui, preferiscono ignorare. E’ per costoro Peppino non ha, ma “avrebbe avuto” 65 anni. Peppino è morto nel 1978, seppellendo, con la sua vita, le idee disfattiste dei “creativi”, cioè dei “ri-creativi” che non creano un cazzo”, e tutti i tentativi di cercare un rapporto con le istituzioni, specie se esse sono rappresentate da elementi ambigui, collusi, corrotti. Peppino non avrebbe mai accettato un osso, un contributo dato per coinvolgerlo o tenerlo in silenzio. Una volta rimandò al mittente un assegno di 400.000 lire spedito a Radio Aut dalla Campari per fare pubblicità al bitter. E quei soldi ci facevano comodo! Peppino non avrebbe avuto pietà per sindaci , per politici, per mafiosi che amministrano il territorio e ne controllano i circuiti economici, per dirla con lui, in modo “banditesco e truffaldino”. Qualcuno potrebbe dire che le idee di Peppino appartengono al suo tempo e che il ‘68 e il ‘77 sono momenti storici ormai passati. Che sarebbe come dire che anche le idee di Cristo o di Maometto o di Marx appartengono al loro tempo.  E  c’è un’ultima cosa che rende Peppino sempre attuale: la capacità di rimettere in discussione la propria origine, la propria famiglia, il proprio paese, ovvero l’insieme di quella micidiale subcultura  che è ancora il brodo in cui nuota e si alimenta il sistema mafioso. Peppino, scrive la Commissione Antimafia, nel rapporto a lui dedicato, “non era omogeneo al sistema che lo circondava”, o meglio ancora, per dirla con Roberto Alaimo, nel suo intervento scritto recentemente in “Passaggio di testimone”, Peppino rappresenta una sorta di “mutazione genetica” rispetto ai parametri di riproduzione dell’identità mafiosa. Ed è in questo concetto di “mutazione genetica”, di rottura decisa e radicale con le remore e le eredità del passato, che si può realizzare una nuova Sicilia , una nuova sicilianità, un nuovo progetto di rigenerazione. Quella che Ingroia chiama “Rivoluzione civile”. Altrimenti Peppino è morto e non lotta più insieme a noi.

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