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40-anni-mafia-webdi Miriam Cuccu - 15 giugno 2012
Non ho mai pensato che un giorno mi sarei interessata a leggere di mafia. Eppure, per uno strano caso del destino questa è diventata la mia principale “materia di studio”. Non tanto per una scelta obbligata poiché, come giustamente diceva Gianni Rodari “il verbo leggere non sopporta l'imperativo”, quanto per il fatto che una volta venuta veramente a conoscenza del Paese in cui vivo, e non riuscendo a girarmi dall'altra parte, ho iniziato a documentarmi.



Leggendo appunto, cercando di andare al di là dell'immagine proposta dalla maggior parte dei media e  dalle fiction televisive, ancora per la maggior parte ancorata allo stereotipo “mafia = coppola e lupara”.Inevitabile, quindi, il mio “appuntamento” con “Quarant'anni di mafia”, più che libro vero e proprio racconto di una vita fatta di più vite, diverse eppure uguali nella loro essenza. Un libro che ha saputo raccontarmi con la stessa passione di un romanzo la storia del nostro Paese, lentamente consumato da quel cancro causato non tanto dalla mafia in sé, quanto piuttosto dalla insufficiente, lacunosa e ritardataria risposta che le Istituzioni tutte avrebbero dovuto dare al dilagare del metodo mafioso. Di generazione in generazione infatti lo Stato è stato, nella migliore delle ipotesi, inerte, intrappolato nelle burocrazie legislative e forse anche vigliacco, ma nella peggiore delle ipotesi, consapevolmente connivente per oscure ragioni, per convergenze di interessi, per lucrosi affari.“Quarant'anni di mafia” ha il pregio di trascinare il lettore fin dentro al cuore della storia, compiendo una sorta di salto nel tempo con il quale ci ritroviamo accanto a Boris Giuliano che indaga sul traffico degli stupefacenti, dietro Pio la Torre intento a scrivere la sua inestimabile legge, e ancora con dalla Chiesa mentre combatte per quei poteri che lo Stato non gli concesse mai, tra Falcone e Borsellino chini sulle carte del maxiprocesso … Siamo con loro, li conosciamo uno per uno, è in loro che ci identifichiamo. E alla fine, in un’interminabile successione di sparatorie, bombe, macchine esplose, strade squarciate, è come vederli morire in quel momento, è come perderli ancora una volta. E Lodato, attraverso i suoi ricordi trasforma la sua perdita nella nostra. E gli insegnamenti trasmessi di estremo coraggio nel percorrere quella “strada verso l'abisso” allo stesso modo diventano nostri. È l'eredità che noi, figli di quelle stragi che non abbiamo vissuto ma i cui effetti sono sotto gli occhi di tutti, abbiamo il dovere di raccogliere. Abbiamo il dovere di portare avanti i loro ideali, il coraggio di Giuseppe Montana e di Ninni Cassarà, l'ottimismo di Paolo Borsellino, la coscienza civile di Rocco Chinnici, del giudice Costa, e di tanti altri inestimabili esempi di vita che non piacquero agli ahinoi numerosissimi fan del ritornello della “mafia inesistente”. Soggetti che fecero di tutto per delegittimarli, attraverso subdole macchinazioni e dicerie prima della loro morte, con stucchevoli discorsi densi di insulsa retorica poi.Con tinte forti, mai pesanti, Saverio Lodato traccia il particolare contesto storico-sociale italiano affogato nella connivenza e nel silenzio in cui la mafia spadroneggia da decenni. Quasi fosse una polvere impalpabile che, leggera e micidiale, corrompe qualsiasi cosa con cui vada a contatto: dalla piccola impresa ai grandi appalti, dal paesucolo arroccato (in quale regione d'Italia sia ormai conta ben poco) ai più alti vertici dello Stato. Una mafia trasformatasi ormai in borotalco, appunto, “impalpabile, leggerissima, quasi inodore … una mafia che anche all’estero aveva smesso di indagare, scandagliare, raccontare”. Perché è proprio questa la beffa, il “trucco” che il libro svela: il fatto che le Istituzioni corrano a destra e a manca in cerca di una mafia che ormai non esiste più. A che serve, oramai, concentrare l'attenzione e le forze in campo unicamente su questo o quel sicario quando la testa del mostro risiede ormai nelle vesti del banchiere, del politico? Il pool antimafia ha giustamente attaccato il mostro dal basso, ma per poter arrivare fino alla sua vetta più alta, e se avessero potuto certamente l’avrebbero fatto. La loro morte non ne è forse una prova più che sufficiente? E con estrema chiarezza Lodato spiega che lo Stato, al contrario della mafia, non si è evoluto, non è progredito nella sua lotta (quando c’è stata) e trovandosi di fronte, quindi, una mafia ormai completamente diversa da quella che infestava le strade di Palermo negli anni ’80, che non si ritrovava più nei titoloni di prima pagina, non sa che pesci prendere. “Che mafia era – infatti – una mafia che non ammazzava nessuno? Che mafia era senza i suoi rituali più arcaici e tradizionali? Due mafiosi che smettevano di baciarsi fra loro potevano ancora dirsi mafiosi? Mafiosi che non emettevano sentenze, al termine dei loro improvvisati e laconici tribunali, avevano ancora un appeal meritevole di essere descritto? Mafiosi che non bruciavano più le immagini sacre durante il giuramento di iniziazione, che avevano smesso di pronunciare formule sub liturgiche, che non si strangolavano più fra loro con fili di nylon, che non scioglievano i cadaveri dei rivali nei bidoni di acido muriatico, che razza di mafiosi erano diventati?” Mafiosi che non avevano proprio più niente di speciale, insomma.C’è poi quella parte di Stato che, più che non sapere che pesci prendere, si “diverte” a vedere quanto il nostro Paese possa cadere in basso quanto a credibilità e a iniziative nell’antimafia. Che gode nel vedere quelle poche persone che hanno fatto proprie le idee di Falcone e Borsellino, e che sono decise a portarle avanti, annaspare in un mare di subdole legislazioni e false promesse di chi difende a spada tratta la propria “intoccabilità”. Vera e propria ragione di vita di quel “governo dei cani” che l’Italia ha avuto l’onore di avere nella sua stanza dei bottoni per diversi anni. ”Quarant'anni di mafia” è una sorta di testo accademico che ha però il ritmo e la capacità di tenerci avvinti alla storia propri del romanzo. In cui Lodato con linguaggio mai incolore, mai asettico, ma con il trasporto di chi ha vissuto gli eventi di cui parla sulla propria pelle, ci racconta dall’inizio quella “strada verso l’abisso” intrisa del sangue di tanti uomini giusti che hanno sacrificato la propria vita solo per amore di un sogno. Quello di vedere “questa nostra terra bellissima e disgraziata” finalmente libera. Ora è compito nostro scrivere la fine della storia, se mai ci sarà, un giorno.

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