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di Luciano Armeli Iapichino
C’è una chiave di lettura sull’affaire Nebrodi (l’ultimo tassello – almeno per il momento – con l’imponente e omonima operazione, condotta dalla DDA di Messina, il ROS e la Guardia di Finanza, è di qualche giorno addietro) che pare essere passata apparentemente inosservata e che ha, di contro, lasciato dei segni tangibili, profondi, significativi, anche traumatici, su altre vittime: quelle mascariate e i loro familiari. La vicenda Nebrodi sottende quello che può apparire un reato invisibile ma, parigrado, subdolo, violento, non sempre punibile: quello del fertilizzare un’opinione pubblica spesso colpevolmente disinformata, trascinandola, da scrupolosi e metodici mascariatori e dossieratori seriali, in pressanti sentenze mediatiche in tempi di gogne altrettanto mediatiche.   

La consuetudine a mascariare, in Sicilia, è prassi ben oleata e documentata e in letteratura, in tema di mafia, i casi abbondano già dai tempi del giornalista Cosimo Cristina, “suicidatosi” apparentemente per fallimento esistenziale e professionale ma in verità sequestrato, fracassato con pietre e lasciato dentro una galleria sui binari della linea ferrata a Termini Imerese per volontà dei boss infastiditi dai suoi articoli.

Correva l’anno 1960.  

Il mascariamento è il vecchio, nuovo, metodo cultural-chic, utilizzato per radicare dentro i cervelli di qualsiasi estrazione sociale, il dubbio-verità altra che deve restare marchiato nella lettura del mondo e delle umane cose. Il dossieraggio, il depistaggio ordito con pseudo-attendibilità quasi vicina alla verità ma monca dei passaggi cruciali (Via d’Amelio docet), costruiti da chi ha una minuziosa conoscenza delle cose ma obiettivi lontani dall’autenticità dei fatti, sono la nuova arma dei professionisti del mascariamento. Si tratta spesso di soggetti non sprovveduti né impulsivi, addetti ai lavori che esercitano dietro le quinte e hanno tempo per confezionare tesi, antitesi e sintesi; sanno individuare i soggetti che a loro volta dovrebbero rilanciare, rendere visibile e diffondere il più possibile sua maestà il dubbio sul mal capitato, reo di essere, spesso, persona dabbene.

A quei tempi e come per altri mascariati sino agli anni duemila, è mancato, almeno questo, il rapido amplificatore mediatico dei social che potesse rilanciare su larga scala le notizie, le pseudo-notizie, le idiozie, le fake news che un vorace esercito di superficiali, allergico all’approfondimento, credulone, sapientone, molto preparato, di contro, in ricostruzioni da controspionaggio e dietrologie, è sempre pronto a ingurgitare con l’avallo del “sentito dire” e a rilanciare nuovamente con la certezza di Sancio Panza del Don Chisciotte. È questo tritacarne di opinioni non risparmia né titoli di studio, né corridoi scolastici, né amministrazioni pubbliche, né scrivanie e quadri dirigenziali, né bar, né uffici “amici” delle vittime.

Il verbo si diffonde e permea tutti gli anfratti della società. Come se il mafioso, quello vero, trovasse una popolata curva di tifosi apparentemente fatta di persone perbene ma suggestionata da cattiverie e false verità coadiuvate da esperti e rancorosi dossieratori.   

In questi ultimi anni i Nebrodi sono diventati il crocevia, oltre di grifoni e flussi di business comunitari, anche di sporcizia mediatica e insudiciante. Era partito tutto dalla squadra dei vegetariani del Commissariato di Sant’Agata Militello. L’appellativo di vegetariani era da leggersi in duplice accezione: negativa come “scredito” che, imputridito nella bocca di alcuni allevatori e non solo, mirava a coprire di fango la squadra e a sminuirne l’attività d’indagine.

 “Arrivanu i vegetariani … camora nun ni vonnu fari manciari quattru vacchi!!!

“Sono arrivati i vegetariani … per ora non ci vogliono far mangiare quattro vacche!!!”

Giuseppe Antoci, che verosimilmente si era organizzato l’attentato prima di essere nominato presidente del Parco dei Nebrodi, scopre - una mattina dopo aver regolato il nodo della cravatta e con la famiglia si accingeva a presenziare a un matrimonio insieme alla scorta - di essere imparentato con un’altra famiglia: Teresa Rampulla, la moglie, sarebbe secondo una fake news, una familiare dell’omonimo boss di Mistretta che ha confezionato il telecomando per la strage di Capaci. La segnalazione corre sui social a velocità supersonica. La macchina del fango si abbatte impetuosa sulla famiglia dell’allora Presidente del Parco dei Nebrodi, nebulizzando quel barlume di apparente serenità con cui gli Antoci affrontano, tra scorte e rinunce, la loro quotidianità.

Poi arriva, per tutti, la delegittimazione più diabolica: cu fu? Chi è stato a sparare la notte del 18 maggio del 2016? Perché una cosa è “certa”: i boss non sono stati. Lo dicevano loro stessi. E lo immaginavano ancora prima anche quei siciliani sapienti di analfabetismo e saggi in fatto di mafia. Poi si è scoperto che nelle intercettazioni del ROS dicevano pure che Antoci, Manganaro e company necessitavano di 5 colpi in testa… ovviamente di proiettili.

Il tam-tam mediatico riprende vigore e giunge sin dentro le aule della Commissione antimafia.

Perché il dubbio è dubbio! E vale più delle sentenze della magistratura che, dal canto suo, non scrive da nessuna parte che si è trattato di un attentato simulato. Non si sono trovati, almeno per il momento, i responsabili e non è il primo caso, dal momento che in Sicilia di vittime anche innocenti senza carnefici ci sono purtroppo piene le enciclopedie e i cimiteri.

Ora cambiamo prospettiva. Una moglie, una fidanzata, i figli dei mascariati che sui Nebrodi hanno contrastato l’illegalità e subìto l’inimmaginabile (in termini di fango), come hanno vissuto in questi anni? Il circo dell’antimafia tutta, su queste montagne, è andato in cortocircuito, si è posizionato sul fronte sbagliato, scrivendo una delle più vergognose pagine della sua storia tanto quanto i misfatti commessi dalle consorterie criminali, con una guerra senza esclusione di colpi e che ha gonfiato detrattori, disorientato i cittadini, soprattutto quelli onesti, e indebolito l’immagine delle istituzioni. Perché azioni come queste nebulizzano la cultura della legalità, allontanano i cittadini dall’idea che le Istituzioni (forze dell’ordine, magistratura …) siano a servizio del territorio e per il territorio.  

E soprattutto, chi paga per questo reato che dal tubo di scarico della macchina del fango è inalato, dalle guardie e dai loro familiari, sperimentando l’impotenza dinanzi alla gogna medievale del gigantesco passaparola della rete, costruito su dossier anche anonimi e gravido di nefandezze, senza che nessuna sentenza incriminasse chicchessia per “simulazione di attentato”?

Immaginate la quotidianità di una bambina o una ragazzina che convive a scuola, con le amiche, ovunque, con l’idea del padre “bravo” e allo stesso tempo “imbroglione, simulatore”; di una moglie, di una compagna, che subiscono lo stress in casa, sul posto di lavoro, che una situazione di costante pressione mediatica di odio, di opinioni malgiudicanti, basata su notizie che poi resteranno incise nella rete per molto tempo, provoca.

Immaginate pure se, i mascariati, nel frattempo per volontà di Dio o di chissà chi, muoiono e non possono difendersi. Come nel caso di Tiziano Granata, il poliziotto coinvolto la notte dell’attentato a Giuseppe Antoci e prematuramente scomparso insieme all’altro poliziotto della squadra dei vegetariani, Rino Todaro.

In Sicilia è certo che chi vuole contrastare l’illegalità deve avere la forza e prepararsi a contrastare anche una scoraggiante azione delegittimante! Si dirà che anche questa è storia ricorrente e che i corvi ci sono sempre stati. E che sicuramente questa guerra dell’antimafia contro l’antimafia sui Nebrodi non finirà neanche questa volta.

 E che arriveranno altre sorprese. Sicuramente. Altri colpi. Altri reati.

Anche se il tutto sta stancando!

Ma una cosa è inopinabile. Che i corvi, prima o poi, finiranno la loro carriera con l’appellativo di pregiudicati. Almeno, anche questo, letteratura di mafia siciliana docet.             

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