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di Vittorio Emiliani
Dalle pagine e pagine dedicate ai 50 anni della strage di piazza Fontana a Milano emerge un dato di fondo: i servizi segreti, non deviati, ma di Stato furono prontissimi, fulminei direi, nel salire in massa a Milano, a connettersi con i vari Guida e Allegra della locale Questura, a far sparire quante più prove era possibile e ad orchestrare il depistaggio sistematico fino a costruire la falsa “pista anarchica”, le “piste rosse”, ecc.
Questa rete di copertura dei veri responsabili e di contemporaneo sviamento delle indagini (quelle vere) fu però reso possibile anche da un atteggiamento quasi generale dell’informazione, scritta e televisiva, ossequiente verso il potere, obbediente alle veline o alle conferenze-stampa fasulle, fin dalle prime ore. Con una sola eccezione fra i quotidiani indipendenti, quella del Giorno diretto da Italo Pietra fino al 1972, e fra i settimanali L’Espresso diretto da Gianni Corbi fino all’aprile 1970 e poi da Livio Zanetti a lungo. Non molto di più fra i fogli di tiratura elevata (il Giorno, dove lavoravo, stava oltre le 200.00 copie, superandole di molto col Giovedì dei ragazzi e la domenica).

A poche ore dalla bomba il quotidiano dell’ENI titolò a tutta pagina “Infame provocazione”, mentre il titolo del fondo di Pietra era “Non prevarranno”. Di qualunque parte essi fossero. Ma a noi era chiaro che erano di estrema destra. Fu la base politica per costruire subito una linea da vero giornale d’inchiesta laico, democratico e antifascista - qual era il nostro - che non prestava fede alle versioni “ufficiali”, ma, correndo dei rischi certamente, le contestava, le smontava, le sbugiardava. Protagonisti di questa operazione quotidiana furono Marco Nozza, Corrado Stajano (che aveva soltanto un contratto di collaborazione), Guido Nozzoli, Manlio Mariani e, soprattutto sul piano dei commenti, Giorgio Bocca che tuttavia forzava per una sua interpretazione, dichiarata anche in pubblico (la CIA ha messo le bombe), sulla quale il direttore Pietra scuoteva la testa alzando gli occhi al cielo.

Il “Corriere della Sera” diretto da Giovanni Spadolini molto preoccupato dal crescere a Milano della torbida marea della “maggioranza silenziosa” assecondò o non contrastò comunque la linea ufficiale del Ministero dell’Interno, dei suoi numerosi inviati da Roma, della Questura di Milano. Né disse qualcosa di diverso dall’ufficialità sulla morte in Questura dell’anarchico vero e serio Giuseppe Pinelli detto "Pino", animatore del Circolo della Ghisolfa. Al Giorno sollevammo dubbi fortissimi su quella “morte in Questura” al punto che oltre cento redattori (la totalità in pratica) pubblicarono poi per alcuni anni un necrologio che suonava come un ammonimento, con tutte le firme: “morto in Questura”. Per la Stampa operava a Milano Giampaolo Pansa che tenne un atteggiamento onestamente critico. Con un solo scivolone: rivelò infatti che Camilla Cederna, punta acuminata dell’Espresso nella campagna contro la “pista anarchica” fondata sul tassista Rolandi, aveva una scorta della Polizia e il fatto suscitò la reazione furibonda della destra e dei giornali che meglio la interpretavano, compresi Carlino e Nazione per i quali scriveva all’epoca Enzo Tortora. Qualcuno raccontò di una Camilla “le cui mani grondano sangue”. Un clima pestilenziale.

La pista anarchica fu subito avallata dal Tg1: ho ancora nella memoria visiva un giovane Bruno Vespa che annuncia al popolo televisivo “Scoperto l’autore della strage di piazza Fontana: è l’anarchico Pietro Valpreda”. Il direttore era Villy De Luca organico alla Dc moderata. A Milano uscivano ancora i quotidiani del pomeriggio e La Notte di Nino Nutrizio si segnalava ovviamente per una linea forcaiola. Questo per disegnare il panorama dell’informazione milanese schierata largamente con le versioni ufficiali e quindi ignorando o fingendo di non vedere i depistaggi ora documentati in maniera impressionante dalle carte “desecretate”, con l’eccezione del Giorno (soprattutto finché ci fu Italo Pietra alla direzione, cioè fino al 1972 e però Marco Nozza continuò a battersi con grande coraggio e sofferenza) e dell’Espresso, fino all’arrivo al Corriere della Sera, sempre nel 1972, di Piero Ottone al posto di Giovanni Spadolini licenziato da Giulia Maria Crespi. Fu dunque un miracolo laico se quei pochi giornalisti, quelle poche testate, poi corroborate dal cambio di direzione in via Solferino e a Roma al Messaggero dopo il ’74 (con Pietra e quindi Luigi Fossati), e da un maggior impegno di Panorama, riuscirono a valorizzare il paziente lavoro nel Veneto del giudice di Treviso, Giancarlo Stiz il primo a individuare e a connettere la trama “nera” dei Freda e dei Ventura.
Mi è sembrato giusto ricordarlo per attribuire i meriti reali a chi li ha avuti e per dire che un pugno, certo molto agguerrito, di colleghe e colleghi sconfisse, alla fine, nella sostanza l’omertà di Stato e anche la connivenza di tanta altra informazione, stampata e televisiva.

Per ricostruire il vasto mosaico dei depistaggi a me è parso nuovo e particolarmente utile (senza forzature, senza voglie di scoop, basato sui documenti) il libro recentissimo di Paolo Brogi edito da Castelvecchi “Pinelli, l’innocente che cadde giù”. Nel quale, fra i molti funzionari saliti da Roma a prendere l’iniziativa, campeggia come “depistatore” e altro la figura del vice-capo del Sisde, il questore Silvano Russomanno, morto qualche anno fa, che fu uno di quelli che più pressarono negli interrogatori Pinelli, molto più di Calabresi, e che nell’80 ricompare nella vicenda dei verbali Peci forniti al Messaggero, da me diretto (purtroppo), per farci fare un primo botto e preparare su Paese Sera, ormai fiancheggiatore del Pci, quello vero e clamoroso: “Marco Donat Cattin terrorista di Prima Linea”. Con l’evidente intento di colpire il padre Carlo, autore con Forlani, del Preambolo contro l’ingresso comunista al governo. Operazione chiaramente di matrice andreottiana nella quale ingenuamente cademmo. Fu quindi del tutto sbagliata la campagna anti-Luigi Calabresi di Lotta Continua, che tanto ha pesato poi su numerose vite. E’ un dato che il figlio Mario e altri famigliari avrebbero dovuto e dovrebbero rivendicare. Fu lo squadrone dei Servizi salito immediatamente da Roma insieme ai Guida e agli Allegra a manipolare da subito tutta la vicenda appoggiati da quanti credevano ciecamente nella teoria degli “opposti estremismi” affermata fra gli altri da Giuseppe Saragat nel novembre 1969 dopo la morte a Milano dell’agente Antonio Annarumma.
Si doveva sbarrare la strada alle riforme sociali reclamate dall’"autunno caldo" sindacale fra settembre e dicembre 1969. “Il Giorno lo paghiamo coi soldi pubblici e attacca il governo!”, grida Saragat (interpretato dal bravissimo Omero Antonutti) nel film-documento di Marco Tullio Giordana. Quando nel ‘72 risalì al governo, con Andreotti, la destra di Giovanni Malagodi, uno dei primi bersagli fu non caso Italo Pietra, subito dopo il voto.

Tratto da: articolo21.org

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