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di Tomaso Montanari
In questi giorni, il silenzio di voci radicali e libere che opprime il discorso pubblico italiano, specie a sinistra, è lacerato da un piccolo libro di don Luigi Ciotti: Lettera a un razzista del Terzo millennio (Edizioni del Gruppo Abele, 6 euro). Un dialogo serrato – dolce, fermo e argomentatissimo – che si rivolge a un interlocutore che immagino giovane, povero e senza lavoro. E sedotto dalle idee e dalla retorica di Matteo Salvini, pure mai nominato.
Mai come in questo caso saranno gli incontri diretti e personali (quelli preferiti da Ciotti) a dirci quanti di questi destinatari saranno raggiunti, e messi in crisi, dal limpido e forte argomentare del libro.
Ma questo libro ha altri due destinatari impliciti, non meno rilevanti: uno è l’immensa zona grigia, impoverita di denaro e di cultura, che non è razzista, ma non è insensibile alle retoriche razziste. E l’altro è, con ogni evidenza, il vertice politico del sedicente ‘fronte dei buoni’, in primo luogo la classe dirigente del Partito democratico che ha appena provato a riverginarsi nella narrazione mediatica che ha ‘montato’ sulla bella manifestazione di Milano le primarie del giorno successivo.
Se il Pd e i governanti di centrosinistra – da Prodi a Renzi e a Zingaretti – sono un destinatario, il messaggio loro riservato assomiglia a un cazzotto nello stomaco. Se dovessi dare un sottotitolo al libro, infatti, scriverei – parafrasando la Arendt –: “La continuità del male”. La indicibile verità che Ciotti dice è che anche il centrosinistra (e ben prima dell’avvento di un Renzi comodissimo capro espiatorio) ha fatto politiche razziste, e culturalmente generatrici di razzismo. Un argomento esplosivo per chi marcia a Milano ostentando la propria coscienza pulita.
Tracciando la genealogia del decreto Sicurezza, Ciotti allinea le leggi che hanno contribuito “a dare diritto di cittadinanza al razzismo”: ebbene, la prima di esse non porta il nome di un politico fascista, ma quelli di Livia Turco e Giorgio Napolitano (1998). Da allora, i migranti non hanno goduto più degli stessi diritti dei cittadini. I neri – di questo si tratta – diventarono per legge diversi dai bianchi: e l’autore di quella legge divenne presidente della Repubblica. E questo giudizio, in bocca a don Ciotti, guasta il maquillage con cui il Pd prepara una campagna elettorale contro i razzisti.
Ancora. In un passaggio lucidissimo e coraggioso, Ciotti scrive che “il culmine dell’ipocrisia, con cui il razzismo nasconde la propria cattiva coscienza e cerca di darsi rispettabilità e credibilità, sta nell’affermazione ‘aiutiamo i migranti a casa loro’”. Qua si guarda in faccia non Salvini in sé, ma “Salvini in me”, per riprendere una celebre espressione coniata per Berlusconi, e usata da Antonello Caporale nel suo libro dedicato al “ministro della paura”. E cioè la diffusione di quella retorica che va sotto l’etichetta di “non sono razzista, ma…” (per usare il titolo di un altro libro legato al nostro argomento, quello di Luigi Manconi e Federica Resta). Fatto è che il più autorevole uomo pubblico che ha usato quel nascondimento è l’ex segretario del Pd, Matteo Renzi, che nel suo libro del 2017, scrive: “Vorrei che ci liberassimo da una sorta di senso di colpa. Noi non abbiamo il dovere morale di accoglierli, ripetiamocelo. Ma abbiamo il dovere morale di aiutarli. E di aiutarli davvero a casa loro”.
Se è don Ciotti a dire che il “culmine dell’ipocrisia con cui il razzismo nasconde la propria cattiva coscienza” si è toccato nelle parole e nel pensiero del più autorevole leader del campo ‘dei buoni’, chiunque può rischiare di capire che, in tema di razzismo, la politica italiana mainstream si divide in cattivi e altri cattivi.
È un’affermazione importante: perché se vogliamo davvero combattere il razzismo, bisogna avere il coraggio di guardarlo in faccia per quello che è. Il coraggio di questo piccolo, importante libro.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano del 9 marzo 2019