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di Salvo Vitale
La morte di Giacomino Abbate mi ha riempito di tristezza e mi sbatte davanti l’inesorabile considerazione che coloro che abbiamo vissuto gli anni ’60 e ’70 se ne stanno andando tutti. Ce ne stiamo andando tutti e di tempo ce ne resta sempre meno. Di quegli anni resta solo il ricordo di ciò che abbiamo saputo lasciare, di ciò che è rimasto nella nostra memoria, delle lotte con i contadini di Punta Raisi, delle nostre scelte politiche, del circolo Musica e Cultura, di Radio Aut, della morte di Peppino, di ciò che abbiamo fatto nei quarant’anni che sono seguiti. Non poco, anche se è inevitabile dirci che si poteva fare e dare di più. Per quanto alcuni soggetti  che a Cinisi cercano di negare la mia presenza in qualsiasi momento di quegli anni, di cancellare addirittura la mia memoria e la mia esistenza (potrei fare nomi e cognomi), posso dire che è stato Giacomino a rafforzare le mie scelte di allora, tra il 67 e il 68 verso i principi del marxismo leninismo. Se Peppino era il teorico, Giacomino era quello che ti faceva vivere la prassi, che cercava di calare nella realtà le idee che ci frullavano in testa. Peppino lo guardava con molto rispetto, anche perché era stato uno dei primi a Cinisi ad abbandonare “i revisionisti” del PCI.  Lo ricordo al Circolo Che Guevara, nel ‘67, quando guardava col suo mezzo sorriso Mastro Alfonso che s’incantava davanti al grande ritratto di Stalin appeso nella parte alta della parete assieme a quelli di Marx, di Engels, di Lenin e di Mao Tse Tung. Di quel periodo ho raccolto una sua testimonianza pubblicata nel mio libro “Peppino Impastato una vita contro la mafia”:  "In noi si associava un persistente rifiuto dell’organizzazione militante partitica, dell’inquadramento in un cartello specifico, ed un punto d’orientamento che era la Cina di Mao: tutto quello che veniva da essa era oro, tutto quello che veniva da Mosca era merda. Tutto quello che veniva prodotto dalla società, feste, culture, arte, valori familiari, strutture organizzative, era borghese, e questo finiva con il crearci sensibili difficoltà d’inserimento nel sociale, facendoci spesso centralizzare i nostri problemi e i nostri bisogni, che non sempre erano in linea con i bisogni collettivi". Non so perché lo chiamassero zu Masi e non escludo che il soprannome gli fosse stato dato da Peppino. Lo ricordo quando con il gruppetto di Peppino scendeva al Molinazzo per incontrare gli espropriandi di Punta Raisi che si riunivano nella mia campagna e pensare che c’è qualcuno che ha cercato di negare anche questo: evidentemente non c’era e quindi non mi ha visto. Ho trovato una foto di una manifestazione del  luglio 1968 con i contadini di Punta Raisi: davanti tre donne, mogli di “mulinazzara” e dietro, a sinistra, tre uomini: Giacomino, giovanissimo, è il terzo, guardando da sinistra verso destra. La scelta di andarsene a Venezia con Zaira ha diradato il nostro rapporto, anche se ci siamo rivisti quando egli si era messo in testa la folle idea di produrre terriccio e compost attraverso i lombrichi: tentativo fallito. Il saperlo lontano non mi impediva di sentirlo vicino. Anche ora: in fondo il pensiero che sia morto non basta a farcelo considerare scomparso o a farcelo scordare. Vai avanti, zu Masi, con la tua bandiera rossa. Io sono con te.

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