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di Petra Reskireski petra 1
Se uno guarda la mappa del mondo secondo “Reporter senza frontiere”, vede gran parte del mondo in nero e rosso, colori che significano per la libertà della stampa: “grave” e "molto grave" come nella Corea del Nord, in Russia o in Turchia. Più i colori sono chiari, più c’è libertà.
L’Italia si trova al 52esimo posto, arancione scuro - cosa normale, uno potrebbe dire, dato che tanti giornalisti italiani hanno subito intimidazioni e minacce da gruppi mafiosi e bande criminali locali e dato che 13 giornalisti italiani sono stati uccisi dalla mafia negli ultimi 30 anni.
La Germania invece si presenta in bianco tra i primi della classifica dietro la Norvegia, la Svezia e Finlandia, i paesi con maggiore libertà d'informazione. Posto numero 16, invariato da anni. Sarà anche per questo che tanti italiani amano dire “Ah la Germania! Tutto funziona!
Forse anch’io avrei detto la stessa cosa. Se non avessi avuta la malaugurata idea di occuparmi della mafia - pardon - degli “imprenditori italiani di successo” in Germania. Dopo la strage di Duisburg l’interesse dei tedeschi per la mafia era cosi grande che un editore mi chiese di scrivere un libro sulla mafia. Nel 2008 ho pubblicato “Santa Mafia”. Un mese dopo l’uscita del libro ho ricevuto la mia prima querela. Due mesi dopo, il mio libro è stato annerito. Censurato.
Forse queste righe nere sono il segnale più chiaro: in Germania la mafia parla con il silenzio. Un silenzio condiviso in maniera compiacente dalla giustizia, dalla politica e dai media.
Dopo l’uscita del mio libro “Santa Mafia”, ho passato tre anni difendendomi nei processi. Ho raccolto tre querele e due denunce penali, sono stata minacciata varie volte - non solo durante una presentazione del mio libro a Erfurt, una roccaforte della ‘Ndrangheta in Germania - dei clan di San Luca, ma anche durante le udienze in tribunale.
Tutti i miei querelanti hanno vinto. Uno ha anche ricevuto anche un risarcimento di 10 mila euro. Il libro è rimasto annerito fino ad oggi: la Corte Europea per i diritti umani ha appena confermato la sentenza secondo la quale l’annerimento del mio libro “Santa Mafia“ e il risarcimento di 10 mila euro all’"imprenditore di successo italiano" sono stati giustificati e non infrangono la libertà di espressione.
La cosa più interessante di questa sentenza è l’opinione dell’unico giudice dissidente. Ha sottolineato lo strano caso che nessuno dei documenti che ho fornito al tribunale è stato preso in considerazione: tre rapporti del BKA, la polizia federale tedesca, vari documenti sia della magistratura italiana e tedesca che della polizia tedesca e italiana, dichiarazioni giurate da magistrati italiani della Procura Nazionale Antimafia e di inquirenti tedeschi. Alcuni magistrati italiani antimafia si erano dichiarati addirittura disponibili come testimoni. Non sono stati accolti.
Dopo il mio libro Santa Mafia, due altri libri sono stati anneriti: Jürgen Roth “Mafialand Deutschland” e Francesco Forgione “Mafia-Export”. I querelanti erano gli stessi “imprenditori di successo italiani” residenti in Turingia. Diciamo: amici di affari. Di recente toccava ad una televisione tedesca pubblica: il MDR in Turingia. I giornalisti televisivi avevano fatto un documentario sulla mafia a Erfurt e sono stati querelati al tribunale di Lipsia da parte di un uomo d’affari italiano che vedeva lesi i suoi diritti della personalità. Anche se non era neanche citato per nome, ma con un pseudonimo – e pure ha vinto la causa contro la televisione. Il documentario è stato cancellato. (Di seguito è stato rimesso online solo dopo aver tolto la parte che riguardava il querelante).
Nel marzo 2016 ho riferito questa vicenda in un articolo per un piccolo settimanale tedesco, il “Freitag” in cui ho descritto lo strano fatto che ogni giornalista che viene querelato per via dei suoi articoli sulla mafia, inevitabilmente perde il processo.
Nell’articolo ho citato la sentenza pubblica del processo di Lipsia. Di seguito sono stata querelata da parte di quest’uomo d’affari italiano, citato per nome nell’articolo, che vedeva lesi i suoi diritti della personalità. Ma visto che il tribunale stesso ci aveva comunicato che considerava la querela "assolutamente inammissibile“, dato che si trattava di una sentenza pubblica, ero tranquilla. Poco dopo la sorpresa: il tribunale di Lipsia ha accettato l’istanza e accolto la querela. Sono stata condannata.
Chi scrive di mafia, lo fa a proprio rischio e pericolo”, mi ha detto una volta Alberto Spampinato, fratello di un giornalista siciliano assassinato dalla mafia.
Quanto è vero, ho pensato, quando l’editore del “Freitag” mi ha piantato in asso in questa causa, adducendo a motivo che le spese legali “per una piccola casa editrice come la nostra sono un peso considerevole”. E nessuno al “Freitag” sembra esserci arrivato a considerare che le spese legali per un giornalista freelance sono di un peso gran lunga maggiore.
Dal momento che anche il sindacato “Verdi” mi aveva rifiutato l’assistenza ho deciso di fare un crowdfunding per sostenere le mie spese legali: “La libertà di stampa non è una parola. È un atto". Sono riuscita - con altri donazioni - a raccogliere 25 mila euro, donato dalla stragrande maggioranza di tedeschi: giornalisti e semplici sostenitori. Nel frattempo, l’”imprenditore di successo italiano” mi ha querelato per risarcimento: chiedeva prima 10 mila, poi 20 mila e adesso 25 mila euro. Aumenta quasi ogni settimana la sua richiesta.
Con le spese processuali, le spese legali, le cause per risarcimento danni si costruisce in Germania uno scenario minaccioso teso a colpire giornalisti, autori, film-maker, case editrici ed emittenti radiotelevisive. L’intenzione è chiara. Chi intende parlare di mafia in Germania deve pentirsene: “Colpirne uno per educarne cento”.
Ormai sono una sorvegliata speciale. L’avvocato della controparte fornisce quasi ogni due settimane al tribunale di Lipsia un resoconto di quello che io o altri hanno detto o scritto su di me su Facebook, Twitter, nel mio blog www.petrareski.com e in interviste o articoli.
In un altro libro “Sulla strada per Corleone” ho cercato di descrivere la storia del successo della mafia in Germania, dato che tutt’ora le leggi tedesche sono per la mafia un invito a nozze. L’associazione mafiosa in Germania non è un reato, c’è solo il paragrafo "associazione criminale di tipo mafioso" (pena massima di cinque anni), che non viene quasi mai applicato, e non corrisponde in niente al 416 bis del codice italiano. Non riguarda appalti o servizi pubblici, omertà, confisca dei beni. Il riciclaggio è un gioco di bambini in Germania. Mentre in Italia chi investe deve (almeno in teoria) dimostrare che i soldi investiti provengono da fonti pulite, in Germania l’onere della prova spetta al poliziotto, all’inquirente che deve dimostrare che i soldi sono di provenienza mafiosa. Per quanto riguarda la confisca di beni mafiosi in Germania, questi possono essere confiscati soltanto se la condanna del proprietario dei beni per associazione mafiosa è passata in giudicato. Ora, spesso i mafiosi vivono da decenni indisturbati in Germania, dove l’associazione mafiosa non è reato. E non hanno precendenti in Italia, ancora meno per associazione mafiosa.
Così puliti, i mafiosi sono considerati imprenditori di successo in Germania, al massimo colpevoli di delitti "cavallereschi”: possesso di droghe, evasione fiscale o eccesso di velocità. Intercettare mafiosi in Germania è praticamente impossibile, perché è vietato realizzare intercettazioni in appartamenti privati e in locali pubblici. Se un magistrato dovesse insistere nel voler mettere sotto controllo il telefono di un presunto mafioso, si mette in moto un procedimento kafkiano.
In Baviera decide la Staatsschutzkammer, una Camera consultiva composta da tre giudici, se debba essere concessa un’autorizzazione ad intercettare oppure no. Ormai nessun magistrato tedesco compie più il tentativo di chiedere un’autorizzazione in tal senso.
La strategia di comunicazione della mafia in Germania ha funzionato alla grande. La strage di Duisburg ormai è stata rimossa da tanto tempo, viene considerata come un increscioso caso singolo, e non come la punta di un iceberg.
Per evitare una specie di autocensura, ho deciso di scrivere in futuro solo romanzi sulla mafia, basati su fatti realmente accaduti. Così ho inventato una donna magistrato antimafia siciliana: “Serena Vitale”, figlia di emigranti italiani in Germania, cresciuta a Dortmund. Dunque, con un occhio di riguardo per delitti di mafia collegati con la Germania. Quest’anno è uscito il terzo volume dei mie romanzi con Serena Vitale: “Bei aller Liebe” (“Con tutto l’amore”) tratta del business della mafia con profughi e i centri di accoglienza.
Quello che mi auguro per l’Europa è che le informazioni sulla mafia possano circolare cosi liberamente come i soldi sporchi.

"Mafie". Da un'idea di Attilio Bolzoni

Tratto da: mafie.blogautore.repubblica.it

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