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fernanda contri 620x360di Giulia Merlo
''Ogni anno, tornare a Palermo mi svuota''. L’avvocato Fernanda Contri, membro del Consiglio Superiore della Magistratura dal 1986 al 1990, fu legata a Giovanni Falcone da un’amicizia sincera, visse da vicino tutte le fasi della sua lotta alla mafia e gli anni duri dell’ostracismo da parte dei colleghi in magistratura. Lei, che è stata la prima donna giudice della Corte Costituzionale, sottosegretario del governo Amato e ministro del governo Ciampi, ha attraversato da protagonista vent’anni di storia oscura della Repubblica.

Avvocato, ricorda il suo primo incontro con Giovanni Falcone?
Avvenne nei primi anni Ottanta. All’epoca mi occupavo del sindacato degli avvocati e giravo l’Italia per convegni e congressi. Ricordo di aver pensato di lui che aveva un modo molto particolare di affrontare le persone, non era per nulla aperto all’inizio, ma era molto spiritoso. Non ci conoscevamo ancora bene, ma un giorno lo vidi arrivare con i capelli tagliati in modo strano e gli dissi: “Ma come si è conciato, vuole somigliare a tutti i costi a Peter Sellers? Guardi che fa abbastanza sorridere”. Tutti gli amici che ci avevano presentato mi guardarono preoccupati, ma lui si fece una gran risata. Così è nata la nostra amicizia.

Lei venne eletta al Csm nel 1986. Come visse Falcone quegli anni così difficili nel rapporto con l’istituzione?
Una sola volta l’ho visto davvero turbato e preoccupato, lui che era una persona così tranquil- la, e fu quando il Csm non lo mandò a Palermo, a sostituire il giudice Caponetto a capo dell’ufficio istruzione. Ricordo che eravamo io, lui, Vito d’Ambrosio e Stefano Racheli. La moglie di Racheli aveva preparato un piatto di spaghetti e Falcone entrava e usciva continuamente dalla stanza con grande nervosismo. D’un tratto, rientrando dal balcone, mi guardò e mi disse: “Ti rendi conto che con questa decisione il Csm mi ha segnalato alla mafia come prossima futura vittima? ”. Io lo guardai stupita e chiesi il perché, lui mi rispose che la mafia fa fuori quelli che lo Stato non ha saputo proteggere.

Che aria si respirava al Consiglio superiore della magistratura in quegli anni?
Il quadrienno dal 1986 al 1990 è stato una delle fasi più difficili della mia vita. Ancora adesso, quando passo a Roma a piazza Indipendenza, chiedo all’autista di portarmi subito via. E’ stata un’esperienza profondamente dolorosa. E per Giovanni fu più dolorosa ancora.

Erano anni difficili, con riunioni fino a notte fonda e nomine difficili
Sì, anche se nessuno immaginava sarebbero finite così male. Io devo dire che avevo sempre la sensazione, un presentimento che non mi sono mai spiegata, che in qualche modo la mafia il naso a Palazzo dei Marescialli lo avesse messo, che qualche suggerimento lo avesse dato.

Si riferisce alle nomine?
Ricordo difficilissime riunioni notturne in occasio-ne di certe nomine, che per me furono davvero molto pesanti da accettare, anche vista la mia provenienza di avvocato di provincia e civilista. Io non riuscivo davvero a comprendere alcuni meccanismi e credo che per me sia stato un grande dono capire da subito la caratura speciale di Falcone. Per questo non mi capacitavo del fatto che gli altri non lo ascoltassero nemmeno.

Come veniva considerato dai colleghi?
Le racconto un fatto. In quel periodo Falcone andava e veniva dall’America, dove aveva un grande rapporto con i procuratori per scambiarsi informazioni sulla mafia, e un membro del Csm disse con scherno: “ora verrà anche a chiederci di mandarlo sulla luna”. Ricordo che rincontrai questo magistrato al funerale di Giovanni a Palermo. Non ce la feci a trattenermi e gli dissi: “Dicevi che voleva andare sulla luna. Resta il fatto che lui adesso è in cielo, tu invece sei rimasto qui a sporcare la terra”.

Ma come mai i colleghi lo isolarono?
Perché tra i magistrati uno così bravo non era amato. Lo dico, anche se farà arrabbiare molti giudici. Era così e io l’ho visto in prima persona.

In molti ne tesserono le lodi dopo la morte. E’ stata ipocrisia?
Volendo essere buona, voglio pensare che si siano pentiti e abbiano capito l’errore che hanno fatto. Lo spero davvero.

Come visse Falcone la stagione precedente alla strage di Capaci?
Mentre ero membro del Csm, alloggiavo a Roma in un albergo e lui aveva preso l’abitudine di venirmi a trovare con la scorta. Gli diceva di andare a farsi un giro, perché noi saremmo rimasti in hotel. Io credo che la scorta sapesse che non era vero e che noi ce ne andavamo in qualche ristorantino vicino alla Cassazione. Mi sembrava di andare a prendere un ragazzo in collegio, che chiedeva di andare fuori a prendere un gelato.

Ricorda la sua reazione dopo l’attentato all’Addaura?
Dopo l’attentato all’Addaura, Giovanni mi chiese, da avvocato civilista, di dargli dei consigli per separarsi da Francesca Morvillo. Gli chiesi il perché e mi spiegò che voleva trovare un modo per mettere al riparo la moglie. Gli risposi che avevo fatto moltissime separazioni, anche per chi voleva aggirare il fisco. Gli dissi: “Non si frega il fisco, figurati se così freghi la mafia”. Lui mi fece un sorriso triste.

Lo vide dopo l’attentato?
Sì, perché quell’estate avevo deciso di andare in Sicilia con mio marito e mio figlio. Quando lessi che i giornali lo accusavano di essersi fatto da solo l’attentato, perché dopo certe decisioni del Csm la fama intorno a lui stava venendo meno, io allora chiesi di poterlo andare a trovare all’Addaura. Gli dissi: “Vengo a trovarti con quello che ho più caro, mio figlio e mio marito. Voglio venire da te e voglio che a Palermo lo sappiano”. Mi fu molto grato.

Che cosa aveva in comune un’avvocato civilista con un giudice istruttore?
Io non avevo idea di che cosa fosse la mafia, quando lo conobbi ero avvocato civilista a Genova e non avevo mai fatto un processo penale. Ma forse questo essere priva di pregiudizi mi ha agevolato nell’incontro con lui. Io credo poi che l’avvocato onesto sia più in grado di qualsiasi altro di di valutare la serietà e l’autonomia di un giudice.

Avete mai parlato del suo lavoro contro la mafia?
Delle indagini lui non parlava con nessuno. Se devo definire il suo modo di lavorare, però, lo definirei misurato. Non portava mai avanti un processo seguendo una sua idea della verità. No, lui andava avanti secondo le prove che via via scopriva e non permetteva al suo modo di vedere la vicenda di condizionarlo. Aveva un personalissimo e doveroso autocontrollo. A mano a mano che raccoglieva le prove, immaginava che cosa sarebbe accaduto al dibattimento e se le prove apparivano fragili si fermava. Il modello di magistrato a cui tutti dovrebbero ispirarsi.

Come reagì quando lo uccisero?
La sua morte è stata un dolore molto particolare nella mia vita, perché ha unito due dolori in uno, in modo inusuale: quello per la perdita di un amico che se ne va improvvisamente e insieme la perdita di un pezzo di Stato valido. E’ stata molto dura da reggere e non credo di averla del tutto superata nemmeno adesso. Non sono quasi mai mancata all’anniversario a Palermo e, ancora oggi, an-FERNANDA darci che mi svuota.

Tratto da: ildubbio.news

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