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testa vuotadi Luciano Armeli Iapichino
Macerie. Un cumulo di macerie. È questo l’orizzonte spettrale in cui deambulano, storditi, gli individui di questo pianeta. E non è questo l’incipit di una notizia di cronaca di qualche remoto futuro. Non lo è se le macerie sono il prodotto della frantumazione del sogno, della pace, dello spirito, dell’arte, dell’attesa del futuro. In una parola, della vita.
La quotidiana lobotomia sull’essere, attraverso la continua penetrazione della morte in tutte le sue forme, del saccheggio delle speranze, degli atti di forza dei centri decisionali contro ogni etica, delle classi dirigenti che hanno smarrito il fine ultimo della difesa della dignità delle masse, dell’annichilimento delle forze in un campo esistenziale infettato dalle mine dell’impoverimento materiale e culturale, è il trattamento irreversibile cui la civiltà umana è destinata a sottoporsi oltre i limiti della sopravvivenza.
Ernest Junger asseriva che “essere profeta significa conoscere ben più che il futuro: il profondo presente”. E se la previsione del destino dell’umanità è da costruire sulla chirurgica analisi del tempo di oggi, allora il domani si presenterà con il mantello dell’invisibilità.
Quello del nulla. Quello della distruzione.
Profezia troppo apocalittica? Può darsi.
È vero che la civiltà è sopravvissuta a pestilenze, guerre mondiali, olocausti e crolli finanziari.
È vero pure che, senza scomodare cosmogonie o teogonie, dal caos si è sempre originato un ordine che ha garantito, se non il migliore dei mondi possibili, una parvenza di sopravvivenza in esso.
Ma l’impressione, oggi, è che la tempesta perfetta si stia formando sotto l’egida di uno scontro titanico e mai visto prima di almeno tre cumuli nuvolosi e preoccupanti:

una geopolitica fuori controllo, alimentata da potenze fuori controllo, dotate di arsenali fuori controllo e corredata da fondamentalismi inarrestabili;

la netta presa di coscienza dei ceti medio-borghesi sull’inerzia della politica, chiaramente schierata dalla parte del capitalismo di potere di cui rappresenta il mistificante pupazzo, e sull’inganno, in parte smascherato, di un’informazione sempre più nuda e disinformante;

una collera crescente che attraversa verticalmente tutti gli strati sociali e di proporzioni planetarie, alimentata da disperazione e povertà e incontenibile, financo, dai cosiddetti “ammortizzatori” politici definiti, a torto, populisti.

A differenza del passato, questi tre cicloni stanno viaggiando velocemente su un binario privilegiato: quello globale. Una sorta di magnete che attrae a velocità supersonica le anomalie del pianeta, alimentando costante inquietudine, tensioni e controreazioni, procurando, pari tempo, un effetto domino tanto più spedito sulle conseguenze negative di quanto non lo sia per quelle positive. Paradossalmente, la globalizzazione alimenta, in termini di rotture, di mosse e contromosse, di chiusure radicali, di conflitti e di paure, un cancro mondiale che sta divorando una tipologia umana disorientata, spaventata, umiliata e a limite della sopportazione.
L’uomo è in conflitto con se stesso! Un conflitto che non percepisce con se e che rimanda ad altri, ad altre concause, ad altre entità astratte. Non ha intenzione di risolverlo perché non è in grado di farlo. Le misure pensate e pianificate per una sopravvivenza di qualità si sono tradotte in accelerazioni fuori controllo di cui si sconoscono, al momento, le contromisure.
L’uomo di questa nuova alba millenaria è in seria difficoltà.
Il meccanismo globale appare essersi, per altri aspetti, inceppato.
Le economie si garantiscono i surplus con le politiche dell’austerity, invalidanti macellerie di diritti e dignità; i popoli, in tempi di villaggio post-globale, sono stati messi, da una élite finanziaria sorda e cieca, l’uno contro gli altri, confinati in focolai disumani mortiferi, relegati nei fondali marini e separati da muri che testimoniano il primeggiare di una globalizzazione di convenienza e di un’iniqua frantumazione, divisione e approvvigionamento delle risorse.
La sovranità nazionale, umiliata da entità astratte, almeno così percepite dai cittadini – vedi Europa, FMI, Banca Mondiale, Troika – è diventata, dal canto suo, una malata terminale da tutelare secondo localismi e spinte politiche indipendentiste.
Le minacce nucleari e militari sono diventate il contrappeso nelle partite diplomatiche.
L’incessante valanga mediatica degli orrori giornalieri ha avuto l’effetto devastante della cloroformizzazione delle coscienze. Almeno quella apparente.
Chi s’indigna per un bambino mutilato dalla guerra nel suo martoriato Paese?
Tutti, forse… e anche dei migranti annegati al ritmo di decine ogni giorno?
Sicuramente … E quale contromisura ha adottato la civile Europa o l’Occidente civilizzato, rappresentati da tutti gli indignati ma distratti dalla tutela dei flussi bancari, al fine di fermare l’orrore di cui sopra o quello dei suicidi di massa dei piccoli imprenditori depredati di dignità e futuro come per le nuove generazioni?
La soglia di povertà è salita, nettamente, sopra il golfo di Tripoli. La culla della civiltà, la Grecia e non solo, è divenuta la tomba dell’assistenza sanitaria, dei bisogni primari e dei diritti inalienabili.
L’agenda politica non è più dettata da questioni di povertà ma di protezione delle borse.
La dignità umana è ridotta a questioni di percentuali e di sforamento del debito pubblico.
E ancora. La globalizzazione sembra avere effetti a fisarmonica sulla percezione delle cose del mondo: mobilitazione immediata nella difesa del nostro pseudo benessere, di fatto accompagnato da uno svuotamento continuo della nostra libertà d’azione, di pensiero, di partecipazione alle scelte che contano; disinteresse mascherato da apparente senso d’impossibilità a cambiare lo stato delle cose per gli orrori distanti da casa nostra, che mette a posto i conti della nostra coscienza.
È l’effetto di un “comodismo” di facciata che, apparentemente vissuto e alimentato dalle chimere consumistiche, frantuma il metodo della giusta comprensione delle cose del mondo di cui le società non si dotano o non avvertono la necessità di farlo.
In soldoni, primeggia il vuoto dello spirito e l’inumazione della cultura.
L’interesse è verso qualcosa di materiale e il suo immediato raggiungimento e non per il potenziamento dello spirito, per la costituzione di una coscienza critica che, di contro, s’impoverisce sempre di più con la conseguente storpiatura della scala valoriale dell’esistenza.
Il globale ha fallito, almeno sino a questo momento.
L’eden terrestre è ancora lontano; di contro una polveriera di egoismi e lotte fratricide caratterizzano la fotografia di questo mondo. E per chi svolge, a vario livello, l’abile ruolo di ridimensionamento del dramma, il futuro riserverà sorprese poco incoraggianti. Forse, quel nuovo soggetto sociale, la massa, non è poi così gestibile dai potenti del mondo. Forse si sta preparando, armata di coscienza, a una rivoluzione globale, estrema, di non ritorno, per dissipare definitivamente quel senso di nausea prodotto dall’intelligenza non troppo lungimirante di chi accumula a discapito dell’altro, di chi governa con irresponsabile egoismo e di chi, per lungo tempo, ha continuato a giocare con la vita degli ultimi.  
Se il kebab adesso è gustabile sotto casa, eserciti d’individui, a varie latitudini, non sono più disposti a scontare la pena della rinuncia del futuro.
Alla fine è sempre un plotone di soldati a salvare la civiltà, Oswald Spengler, ne Il tramonto dell’Occidente.
E forse per gli effetti del nichilismo non basterà neanche quello.

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