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di matteo nino librodi Fabio Lapenna
Mafia e rapporti con il Potere. La giornata cagliaritana di Antonino Di Matteo, Sostituto Procuratore Antimafia della Procura di Palermo si è spesa fra l’incontro con gli studenti della mattina all’Auditorium del Conservatorio di Cagliari e l’aula magna della Cittadella Universitaria di Monserrato con un obiettivo: quello di non pensare a Cosa Nostra come un’accolita di violenti e rozzi personaggi, ma come delle menti pensanti, con una strategia e un ricercato rapporto di convivenza con la politica, con l’impresa, con le Istituzione in senso lato.
"Sappiamo tutto sui delitti di Cogne, di Garlasco, persino le più private abitudini dei protagonisti di alcuni fatti di cronaca e conosciamo superficialmente gli aspetti del sistema mafioso, che invece condizionano le nostre vite, il nostro sistema democratico, la nostra libertà", puntualizza Di Matteo. Nella sala tutti ascoltano, con attenzione e qualche brivido, le parole del procuratore che da decine di anni lotta in trincea contro Cosa Nostra, dal posto che fu di Giovanni Falcone, troppo spesso lontano dai riflettori. E legge gli estratti delle sentenze definitive, attraverso le quali ci ricorda che Giulio Andreotti, sette volte Presidente del Consiglio “intratteneva rapporti amichevoli e di fiducia con i boss di Cosa Nostra”, e con i quali, almeno fino al 1980 questi rapporti erano, per la Cassazione, diretti e non secondari. "Ma anche Silvio Berlusconi – prosegue il magistrato - viene citato nelle sentenze della Cassazione, con Marcello Dell’Utri, l’uomo attraverso il quale il Cavaliere dal 1974 al 1992, gli anni in cui Cosa Nostra ha mostrato la sua faccia più violenta, intratteneva rapporti con Cosa Nostra e ne 'approvvigionava' le casse".
"L’attenzione della parte sana della società", ha continuato Di Matteo, "non deve fermarsi all’ala 'militare' e violenta della mafia. Ogni volta che il processo riguarda la parte violenta di Cosa Nostra, gli attestati di stima del mondo politico arrivano da destra e da sinistra".
Diverso il discorso quando si cerca di andare più a fondo: "Una volta, interrogando un collaboratore di giustizia, mi disse che Riina diceva sempre che senza i rapporti col potere, i mafiosi sarebbero stati degli sciacalli e sarebbero stati facilmente sconfitti. Prendiamo l’indagine sulla trattativa Stato-Mafia. Intercettammo, fra gli altri, alcune conversazioni di natura non penale fra Mancino e Napolitano, e proprio per questo le archiviammo, senza che queste, tra l’altro, venissero pubblicate da alcun giornale. In questo caso, dalla politica le critiche furono aspre e il Quirinale sollevò un problema di conflitto di attribuzione. In casi analoghi, di intercettazione del Presidente, ma riguardanti indagini diverse dai rapporti fra lo Stato e la mafia, la stessa questione non fu sollevata, nonostante ci fu anche la pubblicazione delle intercettazioni stesse. Questa disparità fa pensare". Ed è proprio di questo che parla il libro presentato in aula magna a Monserrato. Si intitola “Collusi” ed è scritto a quattro mani con il giornalista Salvo Palazzolo. Le parole di Di Matteo di oggi erano piene di passione per il proprio mestiere e per la legalità; un coinvolgimento che lo spinge a mettere in pericolo la propria vita pur di raggiungere ciò che sembra irraggiungibile. Questo traspariva dal tono della voce del giudice, dal silenzio delle persone che lo ascoltano attente, spaventate, ammirate, e dagli applausi sinceri che più volte lo hanno interrotto durante il dibattito di oggi.

Tratto da: vistanet.it

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