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auschwitz entratadi Luciano Armeli Iapichino
Forse l’uomo, attento costruttore di progresso e di civiltà, ha commesso, tra le tante, qualche “piccola” imperfezione. Ha compiuto, ad esempio, lungo l’accidentato e mostruoso percorso della sua evoluzione, l’errore di non dare importanza a qualche sua meschina ignominia che ha relegato nelle dispense della storia trascurando l’onesta funzione della memoria e, parigrado, non ha costruito – e questa è un altro difetto – codici linguistici atti a definirla nella maniera più appropriata.

Olocausto? Shoah? Eccidio? Massacro? Genocidio? Sterminio?

Forse la portata semantica di questi lemmi, lo stimolo della nostra immaginazione alla loro pronunzia, il corredo di sentimenti alla loro lettura, non basta a circoscrivere entro limiti linguisti, emotivi e storici ciò che la razionalità perversa di Adolf Eichmann, l’ideologo della Soluzione finale, è riuscita a riprodurre de facto e scientificamente nel cuore dell’Europa.

Scrisse Walter Laqueur, storico americano:

“L’idea del genocidio sembrava inverosimile alla maggior parte dei funzionari britannici e americani che ricevevano i rapporti; la natura perversa del nazismo era al di là della loro capacità di comprensione”.

La storia degli ebrei gassati, scarnificati, mozzati, sodomizzati, umiliati, nella Germania di Martin Heidegger, Oswald Spengler, Ernest Junger, Carl Shmitt, funge da strumentario concettuale e pratico per eccellenza di tutti quegli eccidi, quelle perversioni, quegli orrori che l’animale “irrazionale” ha continuato a perpetrare da quel 1945 a oggi, in modo sistematico e nella piena indifferenza della sua vergogna.  

Forse nessun intellettuale, nessun regista, nessun attore, riuscirà a scrivere, filmare e interpretare l’atroce dramma, il trauma e l’inspiegabile annientamento di milioni d’innocenti. I sopravvissuti hanno fornito, con umiliante senso di colpa, utili spunti di riflessione al genere umano affinché l’indicibile e il crudele non tornassero a umiliare, con la roncola insanguinata, la civiltà di questo pianeta; affinché la vita umana trovasse degno compimento nell’unità dei popoli o, almeno, una tregua firmata dal sangue di quei cadaveri ammassati unitamente a occhiali, scarpe e cumuli di capelli.

Così Primo Levi:

“La portiera fu aperta con fragore, il buio echeggiò di ordini stranieri e di quei barbarici latrati dei tedeschi quando comandano, che sembrano dar vento a una rabbia vecchia di secoli. […] In meno di dieci minuti tutti noi uomini validi fummo radunati in un gruppo. Quello che accadde degli altri, delle donne, dei bambini, dei vecchi, noi non potremmo stabilire allora né dopo: la notte li inghiottì, puramente e semplicemente”. (Se questo è un uomo. La tregua)

Forse nessuna stirpe, nessuna umanità e nessuna generazione futura, sarà degna ereditiera di quei deportati la cui vita è stata dapprima appallottolata rocambolescamente in una valigia alle prime luci del mattino nei ghetti delle capitali europee; deportata per lunghe ore nel buio di un vagone defecato e urinato come bestie senza decoro; colpita nei sentimenti strappati al momento della selezione sulle banchine della morte; vessata dalle umiliazioni dei carnefici nei lunghi e gelidi inverni polacchi vissuti senza caldi indumenti.

E poi incenerita in un forno costruito dall’uomo contro l’uomo!

Il forno! Il simbolo ultimo del nutrimento della Morte e del martirio dell’Etica.

L’arma più mefistofelica costruita dal carnefice per eccellenza contro un suo simile e puntata, con le ciminiere a pieno ritmo a fungere da canne fumanti, verso una Trascendenza inerme, mutilata e umiliata.  

Auschwitz-Birkenau, Majdanek, Kulmhof, Sobibor, Treblinka, Belzec, Bergen-Belsen, Mauthausen, le fabbriche di morte ingegnate dai tedeschi, allietate da canzoni che dagli altoparlanti servivano a coprire le urla dei condannati posti in fila al fianco di grandi fosse comuni e il frastuono delle mitragliatrici che in esse li avrebbero spinti – quando si procedeva con lo sterminio non solo con le gassazioni – sono, oggi, mete di una civiltà ancor più disorientata e senza pace.

I cimeli di quelle vite spezzate, l’oro recuperato dalle loro bocche, lo strumentario medico-nazista finalizzato alla loro vivisezione in nome di una pseudo-scienza che cavalcava l’aberrante mito della razza ariana, sembrano solo i fugaci momenti di un percorso di storia caduto nell’indifferenza collettiva, povero d’interrogativi e di consistente riflessione.

Lo sterminato album ricavato dai documenti e dalle fotografie di familiari scomparsi, logore e gelosamente nascoste sotto i cenci dei prigionieri ancora in vita (gli spettri affamati e malfermi sulle gambe di Levi), le urla mute e straziate di bambini e di cavie che hanno squarciato le sorde foreste innevate, teatro d’indicibili orrori, restano, dal canto loro, solo dei ricordi sbiaditi di un avvoltoio umano avido di ricchezze e assetato di sangue anche al tempo dell’intelligenza artificiale.

I binari, assurti a quell’epoca a linea diretta verso l’inferno, emblema di un viaggio senza ritorno del convoglio del senno sperduto, trasportano, nell’era di Trump, Putin, Kim Yong-un, Assad e dell'impassibilità europea, carne umana che fugge da nuove guerre e moderni genocidi, attraversando banchine e stazioni gravide d’immigrati sopravvissuti alle traversate marine e desertiche, con la carta d’identità azzerata e il cuore pregno di speranza.

Anche queste righe, scritte nel cuore della notte, con l’approssimarsi del 27 gennaio, resteranno un urlo solitario di muto e insignificante dolore o, semplicemente, un centinaio di battute su una tastiera di computer per qualche destinatario attento e sensibile alle piaghe terrene. Poche parole, insomma, intrise nell’inchiostro dell’anima di chi rifiuta l’obbedienza planetaria alle ferree leggi del materialismo e dell'individualismo. Resteranno, forse, una pagina sbiadita di chi non si rassegna a una nuova e ultima soluzione finale globale, di chi crede in un futuro migliore e, nonostante tutto, quando volge gli occhi al cielo, in qualche brandello d’ideale.

E sì, gli ideali!

A tal proposito, qualcuno, qualche tempo fa e sotto questo stesso cielo, scrisse:

“Vedo che il mondo lentamente si trasforma in un deserto, sento sempre più forte il rombo che si avvicina, che ucciderà anche noi, sono partecipe del dolore di milioni di persone, eppure, quando guardo il cielo, penso che tutto tornerà a volgersi al bene, che nel mondo torneranno tranquillità e pace. Nel frattempo devo conservare alti i miei ideali, che forse nei tempi a venire si potranno ancora realizzare! Anne Frank.

L’uomo di oggi non utilizza più lo Zyklon B. La sua indifferenza è più letale.

Il suo egoismo più nocivo. La sua autodistruzione?

Alle generazioni future l’ardua sentenza.

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