Questo sito utilizza cookie tecnici e di terze parti per migliorare la navigazione degli utenti e per raccogliere informazioni sull’uso del sito stesso. Per i dettagli o per disattivare i cookie consulta la nostra cookie policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque link del sito acconsenti all’uso dei cookie.

strage rapido 904 web0di Gea Ceccarelli
Dieci anni. Tanto tempo era trascorso da quando, a poca distanza dalla Grande Galleria dell’Appennino, all’altezza di San Benedetto Val di Sambro, l’Italicus aveva preso fuoco. Una strage di “serie B”, poco ricordata, poco citata, a oggi. Ai tempi, invece, i ricordi erano chiarissimi, le ferite ancora aperte. Chiunque ricordava le dodici persone ammazzate dal terrorismo nero, i feriti e la tragedia. Chiunque sapeva ancora puntare il dito contro poteri deviati, contro il Gran Maestro della P2 Licio Gelli e le sue simpatie per l’eversione neofascista.
Chiunque ricordava, certo. Non per questo si lasciò bloccare, il terrore divenne paura e infine abitudine. Le persone, con gli anni, ripresero a viaggiare sui treni, a percorrere le stesse tratte ferroviarie palcoscenico di attentati, e lo fecero con normalità: come se, in fondo, non potesse più accadere niente. Come se, comunque, non sarebbe potuto accadere certamente a loro.
Il 23 dicembre del 1984, tale certezza tornò a crollare. Quel giorno, sul Rapido 904, che da Napoli viaggiava verso Milano, vi erano centinaia di persone: famiglie intere che, in occasione delle vacanze natalizie, si spostavano per tutta l’Italia, percorrendo lo Stivale da Sud a Nord, dal Mezzogiorno per raggiungere Milano. Dove, però, il Rapido 904, non arrivò mai.
Alle 19.08, infatti, a poca distanza da dove, dieci anni prima, era deflagrato l’Italicus, mentre il treno si trovava già nel tunnel, il convoglio esplose.
Le vittime nell’immediato furono 15. Altre due persone persero la vita a causa delle gravissime ferite riportate. In ogni caso, coloro che necessitarono cure furono 267.
Tutt’oggi si parla della strage del Rapido come il colpo di coda degli anni di Piombo. Non è esattamente così: perché se è vero che i poteri deviati che avevano sconvolto nei decenni antecedenti l’Italia giocarono un ruolo anche nella “strage di Natale”, è altrettanto vero che si trattò di un attentato mafioso, firmato dalla mano di Cosa Nostra.
E’ essenziale, per comprendere le motivazioni che spinsero la criminalità organizzata ad operare in tal maniera, contestualizzare l’evento. A Palermo, in quel periodo, imperversava la seconda guerra di mafia e, in appena due anni, erano stati compiuti oltre 600 omicidi. Una situazione che, come è ovvio, aveva richiamato l’attenzione delle istituzioni, le quali avevano deciso di rialzare il capo dai fascicoli relativi al terrorismo e interessarsi a quelli di mafia. Furono create nuove leggi, avviate nuove inchieste, spediti in Sicilia uomini come Carlo Alberto Dalla Chiesa, istituito il famoso pool antimafia, il cui “padre”, Rocco Chinnici, era stato ammazato.
Come se non bastasse, si stavano gettando le basi per quel “maxiprocesso” che s’inaugurò nel febbraio 1986, a cui contribuì non poco Tommaso Buscetta, pentitosi proprio nell’estate dell’84. In una situazione tale, scontrandosi con la novità del pentitismo, Cosa Nostra reagì come potè. Facendo saltare in aria un treno pieno di innocenti, al fine di indurre la magistratura a credere che il problema dell’Italia fosse ancora esclusivamente il terrorismo. Il fatto stesso che la strage venne compiuta in territorio emiliano, laddove s’era conosciuta non solo l’esplosione dell’Italicus ma anche la bomba alla stazione di Bologna, ha un significato intrinseco chiarissimo.
Fu proprio la Procura di Bologna ad interessarsi per prima al caso, richiedendo una perizia chimico-balistica al fine di accertare il materiale utilizzato e le dinamiche dell’esplosione. Durante le indagini, emerse la testimonianza di un passeggero del Rapido 904, il quale raccontò di aver notato un individuo posizionare, nella nona carrozza -quella esplosa- due borsoni, mentre si trovavano alla fermata di Santa Maria Novella di Firenze.
Fu così che il fascicolo passò nel capoluogo toscano, dove la Procura guidata da Pier Luigi Vigna riuscì a fare un po’ di chiarezza. Il procuratore non ebbe molti dubbi e, successivamente, si disse certo che l’eccidio era stato compiuto proprio “con lo scopo pratico di distogliere l’attenzione degli apparati istituzionali dalla lotta alle centrali emergenti della criminalità organizzata che in quel tempo subiva la decisiva offensiva di polizia e magistratura per rilanciare l’immagine del terrorismo come l’unico, reale nemico contro il quale occorreva accentrare ogni impegno di lotta dello Stato.”
Tre mesi dopo la strage, nel marzo del ’85, la Procura fiorentina ordinò una perquisizione a Roma: durante questa vennero rinvenute due valigette contenenti radiocomandi a lungo raggio. Il proprietario dell’immobile altri non era che Guido Cercola, il luogotenente del boss Pippo Calò, referente di Cosa Nostra nella capitale. Fu questi a pagare il dispositivo radiocomandato utilizzato nella strage del Rapido: 18 milioni di lire, infatti, vennero consegnate a Friedrich Schaudinn, un tedesco che realizzò il sistema di radiocomandi.
A Rieti, poi, nel maggio dello stesso anno, in un casolare di Calò, venne rinvenuta una grossa quantità di esplosivo, dello stesso tipo utilizzato per la strage di Natale.
Non soltanto: recentemente, nell’ambito del processo sulla strage, è stato appurato che per l’attentato al Rapido 904, Cosa Nostra si avvalse dell’esplosivo cecoslovacco Semtex, ossia “lo stesso esplosivo della strage di via D’Amelio”.
A confermare l’identica provenienza è stato il consulente Giulio Vadalà, che in aula ha specificato come la composizione chimica dell’esplosivo, formato da T4 e Pentrite, fosse la stessa di quella utilizzata per imbottire la Fiat 126 il 19 luglio 1992 per uccidere Paolo Borsellino. Secondo Vadalà, inoltre, gli stessi componenti sono riscontrabili anche “nella strage di Capaci e nelle stragi del 1993 a Roma, Milano e Firenze”, nei i falliti attentati all’Addaura e allo stadio Olimpico di Roma e, ancora, in materiali esplosivi a disposizione di Cosa Nostra.
Ciononostante, l’evidenza che la strage di Natale era opera di Cosa Nostra, la quale si riscopriva così protagonista assoluta di una nuova strategia di terrore concretizzatasi infine nel biennio ’92-’93, non implica che le altre organizzazioni rimasero a guardare, impassibili. Mentre a Firenze le indagini proseguivano a ritmo serrato, infatti, giunse notizia che, poche settimane prima della strage, presso la Questura di Napoli, l’attivista di Avanguardia Nazionale Carmine Esposito aveva parlato di un possibile attentato alla vigilia di Natale.
Egli, ex poliziotto, era frequentatore abituale del Rione Sanità del capoluogo partenopeo. Così, dopo la rivelazione, a Napoli scattò un’operazione anti-camorra che decimò, di fatto, la cosca del quartiere: tra gli arrestati, anche Mario Ferraiuolo e Lucio Luongo. Furono loro a parlare della strage del Rapido 904, affermando che, poco prima dell’attentato, si era svolta una riunione a cui partecipò il deputato dell’Msi Massimo Abbatangelo. Luongo, nello specifico, raccontò di aver ricevuto dal politicante una valigia contenente esplosivo, dello stesso tipo di quello rinvenuto sulla scena del fallito attentato all’Addaura a Falcone e in via D’Amelio, appunto. Infine, i due, spiegarono che a posizionare l’esplosivo sul Rapido 904 fu Carmine Lombardi, un diciassettenne legato alla camorra, ma che non poté mai esser interrogato in quanto ucciso nel marzo ’85.
Quattro anni dopo venne istituito il processo di primo grado: il Tribunale di Firenze condannò, per la strage, all’ergastolo Pippo Calò, Guido Cercola e Giuseppe Misso. A Schaudinn, invece, venne affibbiata una pena di 25 anni. In secondo grado, vennero confermati gli ergastoli per Calò e Cercola; a Schaudinn venne ridotta la pena a 22 anni, mentre Misso fu assolto per strage ma condannato per detenzione illecita di esplosivo. Poteva concludersi così, se non che nel ’91, la Corte di Cassazione, presieduta dal controverso giudice “Ammazzasentenze” Corrado Carnevale (che cancellò, nella sua carriera, circa 500 sentenze di mafia), annullò il verdetto d’appello e rinviò tutto ad un nuovo procedimento. A seguito di esso, nel novembre del ’92, finalmente, la Suprema Corte confermò le condanne, riconoscendo la matrice “terroristico-mafiosa” dell’attentato. Frattanto, Abbattangelo, la cui posizione era stata stralciata, venne condannato a sei anni di reclusione per aver consegnato l’esplosivo a Giuseppe Misso.
Nel 2010 una nuova inchiesta, condotta dai pm napoletani Paolo Itri e Sergio Amato portò a nuovi elementi. Tra questi, la testimonianza essenziale del pentito Giovanni Brusca, che spiegò come, nell’86, venne contattato da Calò, il quale gli chiese di “far sparire del materiale esplodente che faceva parte di un arsenale che avevamo occultato a San Giuseppe Jato, e che aveva la medesima provenienza del materiale e della droga che erano stati rinvenuti nel casale vicino Roma, dove, nel 1985, era stato rinvenuto, dietro una parete, quell’esplosivo che era nella disponibilità di Calò e che venne poi ricollegato alla strage del Rapido 904”. Così che Brusca girò la richiesta a Riina, che però rispose di lasciar stare l’esplosivo là dov’era. Per questo, nel maggio del 2013, a cinque mesi dalla chiusura delle indagini, il superboss Totò U curtu è stato rinviato a giudizio come mandante della strage di Natale. Secondo la Direzione Distrettuale Antimafia napoletana, infatti, l’attentato si inserì in un disegno strategico di Riina per farlo apparire come un fatto politico e come risposta al maxi processo a Cosa Nostra, celebrato da Giovanni Falcone. Ciononostante, con il nuovo processo, l’aprile scorso, Riina è stato assolto per insufficienza di prove.
Intanto, si tentano di trovare ancora i pezzi mancanti della verità: quelli che non riescono, nonostante il tempo e le indagini, a emergere, colpendo di ingiustizia i familiari delle vittime della strage di Natale e uccidendo, una nuova volta, degli innocenti, ritenuti poco più che pedine su una scacchiera ben più grande di quanto si possa immaginare.

Tratto da: ilcorsivocorsaro.it

ANTIMAFIADuemila
Associazione Culturale Falcone e Borsellino
Via Molino I°, 1824 - 63811 Sant'Elpidio a Mare (FM) - P. iva 01734340449
Testata giornalistica iscritta presso il Tribunale di Fermo n.032000 del 15/03/2000
Privacy e Cookie policy

Stock Photos provided by our partner Depositphotos